Prologo
Eccolo, era lì, sotto i suoi occhi, in piena linea di tiro.
Lungar cercò di aggiustare la mira del cannone del suo piccolo veicolo volante, solleticando il grilletto e già pregustando il momento in cui avrebbe fatto fuoco e mandato quel maledetto all'inferno. Forse la sua missione era ormai fallita, ma se lo avesse ucciso si sarebbe sicuramente guadagnato quella possibilità di sopravvivere all'ira dei suoi capi che, altrimenti, gli sarebbe stata negata.
Sì, sicuramente l'avrebbero perdonato. Anzi, forse gli avrebbero dato una sorta di promozione e portato ai vertici dell'organizzazione, se solo fosse riuscito ad ucciderlo. E ci sarebbe riuscito, perché la sua preda non poteva praticamente muoversi. Nemmeno tutta la sua forza poteva riuscire a smuovere l'enorme e pesante ammasso di pietre che lo aveva bloccato. Oh sì, era come una lepre in trappola e ucciderlo sarebbe stata una cosa incredibilmente semplice, eppure così speciale.
Lungar aveva già ucciso in passato. Molte vite erano cadute per sua mano. Ma non aveva mai sentito un'esaltazione del genere pervadergli il corpo all'idea di privare della vita un altro essere.
Mentre aggiustava la mira, nella sua mente si rincorsero le immagini e gli eventi di quelle ultime settimane. Le circostanze che lo avevano condotto lì, a un passo dalla gloria suprema, si riproposero nel suo cervello eccitato come in un film. E lui, pregustandone il finale, era più felice di un bambino che se ne stava in sala a guardare quel film con in mano un contenitore da un chilo di pop corn fumanti.
Il Fantasma Nero gli aveva affidato la missione di rapire Uke Mombaad, primo ministro di un piccolo paese dell'Africa Centrale, da decenni dilaniato da una cruenta guerra intestina, le cui cause ufficiali erano le differenze religiose e culturali tra le due principali etnie che componevano la popolazione.
In realtà tutti sapevano bene che la causa principale del conflitto intestino era la lotta per il controllo delle miniere di diamanti poste a ovest del paese, in una zona di confine, dove i territori popolati dalle due diverse etnie si incontravano.
Ognuna delle due etnie rivendicava per sé il diritto esclusivo ad utilizzare le miniere, con la volontà di estromettere l'altra fazione dai vantaggi delle stesse.
I diamanti continuavano a essere estratti dalle due fazioni, per lo più illegalmente, e rivenduti sul mercato nero. La maggior parte finivano nelle tasche dei Fantasmi Neri, che, in cambio, fornivano alle due fazioni armamenti da utilizzare nella guerra civile. Ma mai niente che potesse essere risolutivo, perché era importante che la guerra continuasse affinché il Fantasma Nero potesse tutelare i suoi interessi e riempirsi le tasche.
Cosa facile in un paese in cui quasi tutti i bambini, a dieci anni, sapenno colpire una bottiglia con un fucile a cinquanta metri di distanza. Ma non sanno scrivere né leggere, più o meno come i loro genitori. Almeno, quelli sopravvissuti alla guerra, alle carestie, alla distruzione dei raccolti e alle malattie che in Occidente erano debellate da almeno un secolo.
I sopravvissuti erano anche coloro che, a causa delle mine, avevano perso un braccio o una gamba, o entrambi per colpa delle mine che infestavano il territorio. Ovviamente anch'esse fornite dal Fantasma Nero.
La ricchezza proveniente da quelle miniere, da sola, sarebbe potuta bastare a risanare la disastrosa situazione economica e civile del piccolo paese. Ricostruire ciò che era stato distrutto e spazzato via dalla guerra, e innalzare una scuola e un ambulatorio in ogni villaggio, e grandi ospedali e istituti pubblici nelle tre grandi città del paese, dove si concentrava la maggior parte della popolazione.
Quell'Uke Mombaad lo sapeva bene e era quello che diceva continuamente sin da quando una mina gli aveva portato via il padre e il fratello.
Casi del genere ce n'erano stati a bizzeffe in quel paese, e i collaboratori dei Fantasmi Neri presenti sul territorio avevano fatto in modo che persone come Mombaad, che avevano perso affetti e averi a causa della guerra, imbracciassero le armi a loro volta, guidati da una lancinante sete di vendetta inculcata nelle loro teste ignoranti da abili oratori che si esibivano in comizi e adunate.
Ma Mombaad aveva deciso di affacciarsi in politica, nella speranza di poter cambiare la cose.
I Fantasmi Neri l'avevano preso per il solito stupido idealista, i cui propositi si sarebbero scontrati e dissolti spontaneamente sui vari muri di gomma da loro eretti a difesa dei loro supremi interessi. In poche parole, non gli avevano dato molto credito, né peso, rassicurati dai loro comandanti presenti in zona che Mombaad non rappresenteva un problema.
Eppure Mombaad aveva vinto le elezioni.
Quel maledetto negro bastardo, nel suo programma elettorale, aveva promesso tutto il suo impegno a far sì che le ostilità cessassero, in modo da offrire al paese una speranza di rinascita. “L'uomo della rinascita”, si faceva chiamare. Razza di idiota!
La sua elezione era stata una sorpresa, anche e soprattutto per il Fantasma Nero, che aveva fatto di tutto affinché Mombaad non fosse eletto. O meglio, non considerando Mombaad un avversario pericoloso, avevano semplicemente fatto di tutto per far sì che la sfida vera e propria si riducesse ai due candidati di loro gradimento, mettendo in atto le più pesanti strategie di influenza sulle elezioni, quali brogli, uomini di fiducia nei collegi elettori, e minacce alle persone, se non avessero votato nel modo che volevano loro.
I comandanti del Fantasma Nero che avevano guidato l'operazione pensavano di poter guidare quelle elezioni e l'elettorato come si fa con le marionette, ma non avevano capito la portata dell'evento e lo sfinimento della popolazione. Avevano puntato tutto sui due candidati di loro gradimento, uno per ognuna delle due fazioni in guerra, lasciando che fosse la gente a decidere fra l'uno o l'altro.
Chiunque vincesse tra quei due, al Fantasma Nero non importava, perché nessuno dei due, una volta al governo, avrebbe mai avviato alcun processo di pace. La protezione del Fantasma Nero, e soprattutto le tangenti che avrebbero rifilato sottobanco al prossimo primo ministro sarebbero state più che sufficienti a controllare la situazione. In ogni caso, se al signore fossero venute in mente strane idee, ai Fantasmi Neri non mancavano gli argomenti per farlo tornare a più miti consigli.
Ma avevano fatto l'errore di sottovalutare il terzo contendente. Mombaad si era insinuato tra i due preferiti dai Fantasmi Neri agendo dal basso, con una campagna elettorale fatta soprattutto viaggiando in tutto il paese, incontrando la gente nei piccoli villaggi. Dove le persone non avevano la televisione o la radio, ma conoscevano benissimo la morte, la malattia, le mutilazioni, la fame e la guerra.
Uke Mombaad aveva vinto con il 33.5% dei voti, mentre gli altri si erano fermati al 32.9 e al al 32.3%, con 1.3% di schede nulle. La legge elettorale prevedeva il ballottaggio solo per i due candidati con più voti, e a patto che entrambi ottenessero almeno un terzo delle preferenze. Poiché nessuno degli altri due aveva ottenuto almeno un terzo dei voti come lui, Mombaad ce l'aveva fatta al primo turno.
Grazie al premio di maggioranza, Mombaad aveva potuto contare su un Parlamento accondiscendente e stabile, e aveva quindi potuto dar seguito sin da subito alle sue stupide idee e alla sua volontà di cercare di porre fine alle ostilità. La prima azione del suo governo era stata la statalizzazione delle miniere diamantifere, con l'obiettivo di utilizzare gli introiti derivanti da esse per il bene del paese. Non un centesimo di quel denaro sarebbe stato speso per l'approvvigionamento di armi o simili.
I Fantasmi Neri, dal canto loro, si erano liberati di quei comandanti incompetenti che avevano così miseramente fallito nel guidare quelle elezioni a loro piacimento, e avevano cominciato a pensare di come potersi liberare di quello stupido pacifista scomodo e idealista, che voleva utilizzare quei diamanti per costruire scuole e ospedali, anziché farli finire nelle loro tasche in cambio di armi.
L'idea più brillante era stata la sua, quella del grande Lungar, che l'aveva esposta ai suoi tre capi nella grande sala, di fronte agli occhi invidiosi di quegli idioti dei suoi “colleghi”, che non avevano saputo escogitare idea migliore di un banale golpe.
E invece il suo piano, il piano del grande Lungar, avrebbe non solo riportato le cose al suo posto, ma le avrebbe addirittura migliorate. Ovviamente il tutto visto nell’ottica dei Fantasmi Neri e dei loro interessi sul territorio.
Uke Mombaad e la sua famiglia, ovvero la moglie e la figlia di 5 anni, sarebbero stati rapiti e uccisi. I loro corpi sarebbero stati fatti ritrovare con un qualche colpo di teatro, e i Fantasmi Neri avrebbero fatto in modo di far ricadere la colpa su un paese limitrofo, che in passato aveva avuto screzi con il paese di Mombaad per delle questioni di confine.
La guerra civile sarebbe continuata, e si sarebbe aperto un altro fronte, rendendo i Fantasmi Neri ancora più ricchi e assoluti signori nell'ombra della zona.
Ed era andato tutto bene, tutto alla perfezione. Fino a quando non si erano messi di mezzo quel lurido traditore di Gilmore e i suoi maledettissimi cyborg.
Quei bastardi erano riusciti a introdursi nel nascondiglio dove i Fantasmi Neri avevano nascosto Mombaad e la sua famiglia, ed erano riusciti a farli uscire nascosti nel retro di un pick-up. Quell'attore dilettante di 007 aveva osato prendere le sue sembianze, le sembianze del grande Lungar, mettendosi quindi al posto del passeggero ed eludendo così i controlli delle guardie.
La fuga era stata ben presto scoperta, e lui e i suoi uomini si erano messi all'inseguimento dei fuggiaschi e dei loro salvatori con jeep e cingolati. Lui, Lungar, aveva preso il suo personalissimo velivolo.
Ben presto avevano raggiunto il pick-up che stava correndo su una strada sterrata costeggiata da una parete di pietra. Oltre a 007 c'erano 002, alla guida, con 004 e 009 sul retro, insieme a Mombaad e alla sua famiglia.
Nonostante tutto, i Fantasmi Neri non riuscivano ad arrivare a ridosso del pick-up o fermarlo. Le cose erano volte a loro favore quando quella stupida mocciosa della figlia di Mombaad, anziché starsene al riparo dietro il cassone, si era sporta, vittima della sua stupida curiosità infantile. In quel momento il pick-up era sobbalzato su una grossa buca nel terreno, e la bambina era scivolata fuori dal cassone, cadendo rovinosamente a terra.
Quel maledetto di 009, anziché pensare a salvarsi la vita, era sceso in soccorso della mocciosa, e l'aveva presa tra le sue braccia. In quel momento un cingolato aveva fatto fuoco, colpendo la parete di pietra proprio dietro 009 e la bambina. Con la bambina in mano, 009 non aveva potuto usare il suo maledetto acceleratore, e tutto quello che aveva potuto fare era stato correre [1] . Proprio mentre la parete stava per arrivargli addosso, 002 era comparso dall'alto in suo aiuto, forse lasciando 007 alla guida del pick-up.
009 era riuscito a consegnare la bambina in salvo tra le braccia di 002, ma era ormai troppo tardi per se stesso. Enormi macigni di pietra gli erano crollati addosso, con tutto il loro peso.
Lungar aveva quasi sperato che quello fosse bastato per farlo fuori, ma pochi secondi dopo aveva visto delle macerie smuoversi e il busto di 009 spuntare da là sotto. Aveva bestemmiato quel Dio in cui non aveva mai creduto, fino a quando non si era accorto dell'occasione che il destino gli aveva fornito su un piatto d'argento.
Per quanti sforzi facesse, 009 non riusciva a liberarsi dal resto delle macerie. Qualcosa gli stava forse bloccando la parte inferiore del corpo, o forse era danneggiato. In ogni modo non riusciva a uscire da quella trappola.
Un cingolato stava per sparargli il colpo di grazia, ma Lungar lo aveva fermato con un ordine rabbioso.
«Fermo! Lo voglio uccidere io!»
Come se 009 avesse sentito l'ordine di Lungar al cingolato, aveva alzato gli occhi verso di lui, e Lungar era convinto di aver visto in quegli occhi la paura e il terrore che si affacciano spontaneamente nello sguardo di un uomo quand'egli ha la consapevolezza che la sua vita sta per giungere al termine.
Il pensiero di quello sguardo eccitò Lungar in un modo quasi sessuale, colmando i suoi nervi al punto che nemmeno si rese conto del raggio laser che colpiva il suo velivolo, senza riuscire a intaccare la spessa corazza di metallo. Il controller del cannoncino lo avvertì con un segnale sonoro che la preda era esattamente al centro del mirino. Solleticò il grilletto, e si concesse il tempo per riempirsi di nuovo gli occhi dello sguardo colmo di terrore della sua preda e la bocca del gusto dolce della vittoria.
Infine premette il grilletto, ma in quell'esatto momento qualcosa urtò il velivolo sulla destra, spostandolo improvvisamente e con violenza.
«Maledizione!», imprecò voltandosi in quella direzione.
002! Era stato lui a osare intromettersi in quel momento della sua vita. Ma 002 non stava guardando lui. Stava guardando in basso, e Lungar seguì la direzione del suo sguardo e lo spettacolo che si presentò ai suoi occhi lo riempì di gioia.
Non avrebbe mai saputo cosa avesse colpito, ma altre macerie si erano ammassate su quelle di prima. Avviò lo scanner del suo velivolo e gli fece dare una rapida ispezione alla zona e la voce metallica che ne uscì pochi secondi dopo fu musica per le sue orecchie: «Nessun segno vitale rilevato.»
Un qualcosa cominciò a fargli sobbalzare lo stomaco, e ben presto arrivò a scuotergli tutto il corpo, fino ad uscire dalla sua bocca in quella che era la miglior risata della sua vita. Aveva vinto! Era il più grande!
Non gli importava più niente di Mombaad e dei suoi stupidi ideali. 009 era morto, ed era stato lui a ucciderlo. E questo gli avrebbe fruttato enormi poteri e credibilità in seno all'organizzazione. Forse sarebbe potuto addirittura arrivare a soppiantare i tre fratelli dal comando dei Fantasmi Neri. E, con 009 morto, i cyborg di Gilmore si sarebbero sfaldati come un muro di mattoni senza cemento. E più nulla avrebbe ostacolato i piani del Fantasma Nero.
Mentre era impegnato a pensare a quale futuro radioso e pieno di gloria lo aspettava, non si accorse dell'allarme sonoro con cui il sistema di difesa del suo velivolo lo avvertiva che, nel presente, un missile lo stava colpendo.
1
I suoi occhi si aprirono su un soffitto scuro. Mano a mano che le sue pupille si abituavano al grado di illuminazione della stanza, poté cogliere ulteriori particolari di quel soffitto: era di legno, a cassettoni, finemente intarsiato e rifinito.
Ma era e restava un soffitto sconosciuto. Così come la stanza che si ritrovò intorno, quando roteò gli occhi e la testa sul cuscino morbido a cercare di rendersi conto di dove fosse. Era in un letto, a baldacchino, con lenzuola di seta color giallo paglierino e una pesante coperta ricolma di piume e rivestita di fine tessuto rosso. Sentiva il tocco setoso delle lenzuola su tutto il corpo, e realizzò di essere completamente nudo.
Tornò a considerare la grande e sconosciuta stanza nella quale si trovava, con mura ricolme di quadri con vari soggetti, e intonacate di un color beige spugnato, con una sofisticata greca a contornare le mura vicino all'attaccatura col soffitto. Dal quale, al centro, pendeva un elegante lampadario in vetro a tre bracci, con ornamenti a forma di fiore, ugualmente in vetro. Ricordava di averne visto uno simile in una vetreria di Murano, a Venezia, qualche tempo prima.
Il pavimento era ugualmente in legno, con una tonalità scura che richiamava quella del soffitto. Seguendone i listelli arrivò all'enorme finestra, alla sua sinistra. Solo considerando la sua imponenza si rese conto di quanto fosse alto il soffitto.
Le ante della finestra erano aperte, ma le tapparelle esterne erano socchiuse, lasciando filtrare solo pochi scampoli di luce all'interno, sotto forma di raggi solari, che erano sufficienti a dare una forma e una buona parte di dettagli agli oggetti presenti nella stanza. Fuori doveva essere giorno, forse tarda mattinata, o forse pomeriggio inoltrato. Difficile capirlo senza sapere se la finestra desse a est o a ovest.
I suoi occhi ripresero a esplorare la stanza, e si soffermarono sul lato opposto a quello in cui era. Lì era posto un grande caminetto, preceduto da una porzione di pavimento in pietra che spezzava il parquet. Il fuoco era acceso, dietro un parascintille, ed emanava la sua luce calda nella stanza, insieme al suo calore naturale, che poteva sentire anche dal letto in cui era sdraiato. Davanti al fuoco, poste su un lato in modo da non precludere la visuale del caminetto dal letto, erano poste due poltroncine di pelle marrone, entrambe vuote. Anche se una, quella rivolta verso di lui, riportava ancora il segno evidente che qualcuno vi doveva essere stato seduto solo fino a pochi minuti prima. La luce del fuoco vicino lasciava infatti indovinare la caratteristica fossa lasciata dal peso di un corpo sul cuscino di seduta.
In mezzo alle due poltrone, una sorta di tavolino, sopra il quale era posto una sorta di ripiano rialzato con delle forme sopra, disposte in un modo disordinato, ma stranamente armonico.
Strinse gli occhi, cercando di mettere meglio a fuoco l'oggetto, e lo sguardo più attento riconobbe una scacchiera. Le forme sopra di essa erano troppo in penombra per poterle distinguere, ma sicuramente non erano dame. Quindi dedusse che dovesse trattarsi di pedoni, torri, cavalli, alfieri, re e regine.
«Buongiorno.»
Si voltò alla sua destra, verso la voce, che apparteneva a un uomo che se ne stava fermo sulla soglia di una porta, con la mano ancora sulla maniglia, a guardarlo. Aveva capelli di un color biondo cenere, e occhi chiari, di un colore che dalla sua posizione non poteva distinguere bene.
Era vestito elegantemente, con scarpe di cuoio, pantaloni ben stirati e perfettamente in riga, color beige, e un maglioncino color terra di Siena con scollo a V, forse di cachemire, che lasciava trasparire sotto una camicia che riprendeva il colore dei pantaloni. Sotto un braccio aveva quello che sembrava un giornale ripiegato. A prima vista, non lo riconobbe.
«Ti sei svegliato, allora.», disse l'uomo avvicinandosi al letto, e prendendo il giornale che aveva sotto il braccio nella mano ora libera dalla maniglia «Direi che era ora che succedesse.»
Sentì la sua fronte aggrottarsi, nel tentativo di interpretare le parole dell'uomo e di cercare di capire chi fosse. Avvicinandosi a lui, i lineamenti del viso erano diventati più nitidi e riconoscibili, e caratterizzavano il viso ben rasato di un uomo sulla trentina, con occhi cerulei, ma che continuava a essere uno sconosciuto nei suoi ricordi. Eppure aveva qualcosa di familiare...
«Dove sono?»
Sentì la sua voce incredibilmente debole, quasi un soffio che nessuno avrebbe potuto udire, neanche se avesse avuto un megafono. Ma soprattutto realizzò di avere la gola incredibilmente secca, e una sete tremenda. Come se non bevesse da decenni.
L'uomo sconosciuto inclinò la testa d'un lato, e l'altro pensò che non avesse sentito la sua domanda. Cosa assolutamente plausibile, tra le altre cose. Così abbassò gli occhi sul lenzuolo sotto le sue mani, e cercò di schiarirsi la gola e di trovare quel filo di voce che gli bastava per riformulare o la domanda... o forse sarebbe stato meglio chiedere prima un bicchiere d'acqua.
«Nella mia casa, a Mosca.»
A farlo voltare non fu tanto la risposta alla domanda che pensava che l'uomo non avesse sentito, ma il rumore inconfondibile e celestiale dell'acqua che riempiva un bicchiere. Lo sconosciuto la stava versando da una bottiglia di materiale plastico, posta su un comodino accanto al letto.
«Non ti stupire. Oggi quasi tutti gli alimenti liquidi sono conservati in bottiglie di plastica. Polietilene tereftalato, per essere esatti.», gli disse porgendogli il bicchiere colmo «E' molto meno dannoso del polivinilcloruro.»
Troppo abbagliato dalla sete per soffermarsi a cercare di capire di cosa stesse parlando, l'altro afferrò il bicchiere tralasciando i suoi dubbi su come avesse potuto capire che aveva sete, e sulle sue considerazioni chimiche. Tracannò l'acqua quasi senza respirare, svuotando il bicchiere in pochi istanti per poi riporgerlo di nuovo allo sconosciuto, che glielo riempì nuovamente.
«Non mi sorprendo che tu abbia molta sete.»
Stavolta, sentendo la sua gola che già si era un po' riavuta dopo il primo bicchiere d'acqua, bevve solo un paio di grandi sorsi, che comunque bastarono a svuotare metà bicchiere: «Ha detto che sono a Mosca?»
Lo sconosciuto annuì: «Sì.», disse «Ma non mi sembra il caso che tu mi dia del “lei”. Ci conosciamo da tanto tempo.»
Bevve un altro sorso d'acqua, voltandosi verso di lui e squadrandone di nuovo il volto alla ricerca di un nome da associarvi. Di nuovo ebbe la vaga sensazione di trovare in quel volto qualcosa di familiare, ma non riuscì a metterla a fuoco.
Lo sconosciuto piegò le labbra strette in un sorriso: «Non mi riconosci, vero?», disse sospirando «Però hai una vaga impressione di conoscermi, ma non riesci ad afferrarla.»
Sentì la sua fronte aggrottarsi, mentre un altro sorso d'acqua andò a rinvigorirgli la gola e l'organismo come linfa vitale: «Si può sapere chi sei?»
Lo sconosciuto sorrise di nuovo: «Beh, speravo che mi avresti riconosciuto, ma mi rendo conto che possa non essere così facile. In fondo, l'ultima volta che mi hai visto, avevo un aspetto molto diverso, anche se questo che ho adesso non ne è che un'evoluzione.», disse «Forse sarebbe meglio se ti parlassi così... Joe Shimamura?»
Sentì i suoi occhi che si spalancavano. Ma non per l'effetto che gli aveva fatto sentire il suo nome. Ma perché nel dire l'ultima frase, ne era assolutamente sicuro, l'uomo non aveva mosso le labbra, che erano rimaste chiuse in quel suo sorriso che aveva un che di ieratico.
Improvvisamente riuscì ad afferrare ciò che del viso di quell'uomo gli sfuggiva. Ma non era possibile... non poteva essere possibile... e sentì tutta la sua incredulità trasparire dalla sua voce: «Ivan?»
Il sorriso dell'uomo si fece più ampio: «Sì, Joe. Sono io, Ivan.», gli disse «O 001... ma preferirei che non mi chiamassi con quel numero. Nessuno mi chiama più così da tanto tempo. Ormai è passato.» [2]
Joe sentì di nuovo la sua fronte aggrottarsi, mano a mano che i pensieri e le parole si accalcavano nella sua mente, che cercava di dar loro un senso senza poterci riuscire. Confusione, solo confusione. E un lieve dolore che stava iniziando a pervadergli il capo...
«Passato?...»
Poi un lampo, improvviso. Un ricordo, che portò con sé un nome alle sue labbra ancora secche: «Mombaad...»
L'uomo che asseriva di essere Ivan alzò le sopracciglia: «Vedo che il tuo cervello sta riprendendo a ricordare.»
Joe alzò gli occhi verso di lui: «Cosa è successo? Siamo riusciti a...»
Ivan aveva cominciato ad annuire già al “cosa”: «Sì, Joe, ci siamo riusciti. Mombaad e la sua famiglia si sono salvati e lui è riuscito a riportare la pace nel suo paese, e la speranza nel suo popolo.», disse «Ma non ricordi altro?»
Joe abbassò il capo, come a cercare nel lenzuolo che ora stringeva fra le sue mani, quasi fino a strapparlo, i frammenti dei suoi ricordi.
«Anche la figlia Manya si è salvata.», gli disse Ivan, forse per spronarlo.
La figlia... Manya... un altro flash e un'altra finestra della sua memoria che si spalancava, come investita da una potente raffica di vento. E fece scomparire la stanza intorno a lui.
I suoi occhi si riempirono delle immagini di quella sera, nitide come se le stesse vivendo in quel momento esatto. Sparirono anche i rumori silenziosi della stanza, e il crepitio del fuoco si trasformò nei sibili dei colpi di arma da fuoco provenienti dai veicoli dei Fantasmi Neri che li inseguivano, e nel rumore del motore del pick-up che doveva condurli al Dolphin, e alla salvezza.
Rivide la figura esile e minuta di Manya che si alzava a sporgersi oltre il bordo del cassone del pick-up. Sentì la sua voce chiamarla, così distintamente che poteva quasi sentire i muscoli della gola e della bocca muoversi ad articolare il suo nome. Sentì la sua voce, insieme ad altre tre voci che la chiamavano e le dicevano di stare giù. Riconobbe la voce di 004, e quella del primo ministro Mombaad e di sua moglie.
Poi lo scossone, forse una buca, e la perdita di equilibrio. E il terrore, quando, rialzatosi, aveva visto che Manya era scomparsa. Si era sporto sopra il livello del bordo del cassone, e l'aveva vista, per terra, inerme, mentre loro si stavano allontanando e i Fantasmi Neri si stavano avvicinando al suo corpo disteso sul terreno accidentato di terra e sassi.
Non ci pensò due volte. Non aveva tempo per pensare nemmeno una volta. Balzò fuori dal pick-up...
«Accelerazione!»
... e in meno di un battito di ciglia era da lei. La raccolse in braccio, con il suo corpicino inerme e svenuto. Forse aveva qualche frattura, e il viso era pieno di escoriazioni. Ma respirava.
Forse proprio per valutare le condizioni della piccola, non si accorse del colpo che un cingolato aveva esploso verso di loro se non quando era troppo tardi.
«Accel...»
“No, non puoi farlo.”
Non poteva usare il dispositivo di accelerazione. Non con la bambina in braccio. Il suo corpo umano non poteva sopportare la velocità di mach 5 al quale sarebbe stato sottoposto. L'avrebbe uccisa.
Ancora prima di concludere questo pensiero si era messo a correre, e già sentiva la parete di roccia crollare dietro di lui. Forse non ce l'avrebbe fatta...
Poi una speranza...
«002!»
«009!»
Stava arrivando il suo aiuto dal cielo, come tante altre volte era successo in passato, e stava protendendo le sue braccia verso di lui. Ma le rocce erano gli erano già sopra.
«Prendi la bambina!», gli urlò lanciandogliela letteralmente tra le braccia.
Adesso che era soltanto lui, poteva...
«Accel...»
Ma era troppo tardi. Le rocce lo sommersero.
Imprecò, e con tutta la sua forza, e prese a tirar via i macigni che gli ricoprivano il busto e la parte superiore del corpo. Ma ben presto si rese conto che la sue gambe erano bloccate sotto un macigno enorme. Se fosse stato in piedi, pienamente libero di muoversi, avrebbe forse potuto riuscire a sollevarlo. Ma con la parte inferiore del corpo bloccata, la sua pur grande forza fisica era insufficiente.
Cercò la sua pistola laser... forse con quella avrebbe potuto indebolire la struttura del masso. Ma si rese conto con sgomento che la pistola era andata perduta chissà dove.
Avvertì la presenza di un velivolo che si fermava sopra di lui, e quando alzò gli occhi al cielo, vide chiaramente la forma di un cannone che lo puntava, e la rabbia gli percorse il corpo come una scarica elettrica.
“Maledizione... sono in trappola.”, pensò sentendo l'impotenza quasi uscirgli dagli occhi “Devo davvero morire così?”
Poi lo sentì, quel caratteristico boato, che Gilmore chiamava “boato sonico”: qualcosa o “qualcuno” aveva superato la velocità del suono [3] .
Un istante dopo quel qualcosa colpì il velivolo che lo puntava, facendolo spostare violentemente di lato. Ma tuttavia non riuscì a impedirgli di sparare. La traiettoria del colpo era sta alzata, finendo per colpire di nuovo la parete alle sue spalle, stavolta più in alto del colpo precedente.
Aveva appena avuto il tempo di vedere comparire nel cielo la sagoma di 002 non appena egli uscì dal regime supersonico a cui lo portava il suo congegno di accelerazione, e poi una nuova ondata di macigni gli era caduta addosso, portandolo nel buio.
Tornò la stanza, con il suo soffitto scuro, e le mura spugnate. Tornarono i suoi rumori silenziosi, come il crepitare del fuoco nel caminetto. E tornò la presenza accanto a lui, che ancora faticava a chiamare “Ivan”, come lui gli aveva chiesto.
«E poi che cosa è successo?», chiese, senza sapere bene nemmeno lui a chi.
“Ivan” sospirò: «004 ha sparato un missile contro il velivolo che ti ha sparato, e l'ha distrutto.», disse «Come ti ho detto, siamo riusciti a portare Mombaad in salvo, ed egli è riuscito a ristabilire l'ordine nel suo paese. Ordine che perdura ancora oggi, nonostante Mombaad sia morto in un attentato dieci anni dopo la missione in cui gli salvammo la vita...»
Joe strabuzzò gli occhi, voltandosi verso di lui: «Dieci anni dopo?!»
«... prima la moglie, e oggi la figlia Manya, insieme al fratello Ganik, hanno continuato e continuano l'opera del padre.»
«Aspetta! Cosa vuol dire tutto questo?!», urlò Joe «Hai detto che Mombaad è stato ucciso dieci anni dopo in un attentato. Hai detto che Manya ha un fratello, ma Mombaad non aveva nessun figlio maschio e quindi Manya non aveva nessun fratello. Che cosa vuol dire?»
Ivan scrollò le spalle e concesse a Joe qualche secondo per permettergli di calmarsi: «Esattamente quello che ho detto.», rispose «Circa un anno dopo la nostra missione, Mombaad e la moglie hanno avuto un figlio maschio, che hanno chiamato Ganik.»
Quello che poco prima era solo una parvenza di dolore di fondo si era velocemente tramutato in un lancinante mal di testa: «Sono tue predizioni...?»
Ivan aveva già iniziato a scuotere la testa, prima che Joe avesse anche solo pensato di muovere le labbra: «Joe, lo sai che ho molte capacità che la gente comune definirebbe “paranormali”, ma tra queste non vi è quella che mi permette di predire il futuro.», rispose «Posso fare delle previsioni, ma non delle predizioni.»
Joe mosse le labbra come per dire qualcosa, ma la domanda che voleva formulare gli sembrava troppo assurda per poter essere esprimibile, o forse aveva semplicemente paura della risposta.
Ma Ivan, lo sapeva bene, non aveva bisogno che le domande gli venissero formulate espressamente perché potesse dare loro una risposta. Bastava pensarle: «Quello che ti ho raccontato, Joe, è già successo.», disse, con un tono di voce basso e lento, come se volesse concedere all'amico il maggior tempo possibile tra una parola e l'altra per poterle assimilare e metabolizzare una a una «E sono successe tante altre cose.»
Joe rimase a guardarlo immobile e stralunato. Da quando era stato trasformato in un cyborg denominato 009, la sua vita si era trasformata insieme al suo corpo, diventando una sorta di fumetto di science fiction, e portandolo al punto che difficilmente qualcosa riusciva a sorprenderlo tanto da sembrargli improbabile, se non impossibile.
Ma la situazione che si estrapolava dalle parole di Ivan era troppo inverosimile perfino per poter essere un episodio degno di quella sua grottesca vita fumettistica.
«Questo è uno scherzo.», disse, sentendo di nuovo la sua voce debole e inespressiva «E' uno scherzo... certo tu devi essere Bretagna che si è trasformato in questa sorta di... Ivan cresciuto... e scommetto che dietro quel muro ci sono gli altri che si stanno facendo quattro grasse risate... Ehi, vi ho scoperto!», concluse urlando, rivolgendosi a qualcosa oltre le spalle del corpo accanto a lui.
Quest'ultimo stava scuotendo la testa, e si era portato il giornale ancora ripiegato davanti a sé: «Non è uno scherzo, Joe.»
«Avanti, Bretagna, riprendi le tue sembianze! Questo scherzo non...»
«Joe, non è uno scherzo!», lo fermò l'altro con un tono di voce che non ammetteva ulteriori repliche. Poi gli porse il giornale che aveva in mano «E' la verità.»
Joe guardò prima lui, e poi il giornale. Un groppo di saliva viscosa gli si formò nella bocca ancora non del tutto inumidita, e sentì il bisogno di deglutire.
L'altro strattonò il quotidiano che aveva ancora in mano, come per invitarlo a prenderlo: «E' scritto in russo, in caratteri cirillici, ma dovresti essere in grado di leggerlo.», disse «I tuoi circuiti di traduzione non sono danneggiati.»
Joe esitò ancora qualche secondo, e infine si decise a raccogliere il giornale. Prima posò il bicchiere che aveva ancora in mano sul comodino, e quindi e dispiegò il fascio di fogli solo orizzontalmente, dato che quello che gli interessava era nella metà alta della pagina.
Vide il nome del quotidiano, il Komsomolskaya Pravda, e subito trovò quello che cercava: la data.
La lesse, e la rilesse più volte, per essere sicuro che non fosse sbagliata: diceva “5 novembre 2008”.
Dopo l'ennesima rilettura, scosse la testa: «Potreste averlo stampato voi per dare credibilità a questo stupido scherzo. Non è difficile.»
“Ivan”, o chiunque egli fosse, sospirò: «Apri il giornale.»
Joe scosse la testa, ma ubbidì. Dispiegò completamente il quotidiano sulla prima pagina, e si trovò davanti la fato, a colori, di un uomo, una donna e due bambini di colore che da un palco blu salutavano una folla in festa, che innalzava cartelloni con su scritto, in inglese, “Obama for president” e “Yes, we can”.
«E così credete che nel futuro anche i quotidiani useranno le foto a colori.», disse continuando a leggere il titolo dell'articolo principale, il suo occhiello e il suo sommario «Un uomo di colore che diventa presidente degli Stati Uniti. Sarebbe bellissimo, ma è un'utopia, purtroppo.»
L'altro sorrise di nuovo in quel suo modo ieratico, e onnisciente. Se era Bretagna, doveva ammettere che era davvero un ottimo attore. Era certo che Ivan avrebbe avuto quel modo di sorridere, se fosse potuto crescere nel suo fisico e nelle sue espressioni, e diventare un adulto: «Sai, Pyunma conosce sua nonna.», disse accennando al giornale, o meglio all'uomo che, insieme alla sua famiglia, era ritratto nella foto «Suo padre è keniota. E in Kenya sono orgogliosi di questo, e entusiasti. In tutto il mondo ci sono folle di entusiasti, anche se ovviamente qualcuno continua a ritenere che un “negro” non possa essere presidente degli Stati Uniti d'America, ovvero l'uomo più potente del mondo.» prese qualcosa, sul comodino accanto a lui dov'era anche la bottiglia d'acqua e lo puntò in una direzione con un gesto della mano «Tuttavia è opinione di molti che oggi il mondo abbia voltato una pagina importante. Infatti hai ragione nel dire che un tempo sarebbe stato impensabile.»
Mentre finiva di parlare, su una lastra nera spessa pochi centimetri, posata su un mobile al lato della stanza, erano apparse le immagini di quello che sembrava un telegiornale. Riguardavano sempre l'uomo di colore che secondo il giornale era stato appena eletto presidente degli Stati Uniti.
«Quello sarebbe un televisore?», chiese Joe «Dov'è il tubo catodico?»
L'altro rise: «Oggi non si usa più, almeno per la maggior parte dei televisori in commercio. Si sono diffusi quelli LCD o al plasma. Quelli a tubo catodico si vedevano un po' meglio, ma questi sono meno ingombranti. E poi questo è un modello vecchiotto ormai. Adesso sono già in commercio quelli ad alta definizione, che come qualità di immagine sono migliori di quelli a tubo catodico.», disse «Sai, qui in Russia il governo applica una forte pressione sulla stampa, anche se non come ai tempi del PCUS. Ma queste notizie, per fortuna, passano.»
«Ai tempi del PCUS?»
L'altro si voltò verso di lui, sorridendogli in quel suo modo caratteristico: «Te l'ho detto Joe. Sono successe tante cose.», gli disse «Tra le altre, nel 1991, il PCUS ha lasciato il potere. Nell'agosto di quell'anno c'è stato un colpo di Stato, fallito. Ma ne ha approfittato Boris Eltsin, con il supporto delle forze liberali e democratiche del paese. Il PCUS è caduto e le singole repubbliche che formavano l'Unione Sovietica, ad una ad una, hanno proclamato la loro indipendenza, e l'Unione Sovietica è stata sciolta ufficialmente il 26 dicembre 1991, il giorno dopo le dimissioni di Mikhail Gorbačëv dalla presidenza.»
Joe restò qualche secondo in silenzio. Tralasciò i nomi citati da “Ivan”, appartenenti a personaggi che non conosceva, e si concentrò sull'informazione più importante: «L'Unione Sovietica non esiste più?»
L'altro scosse la testa: «L'Unione Sovietica e tutto quello che significava.», disse puntando di nuovo l'oggetto che aveva preso dal comodino, oggetto che altro non era che un telecomando, verso il televisore, che si spense «Oltre quella porta c'è un piccolo guardaroba.», disse indicando un battente chiuso accanto al caminetto «Dovrebbero esserci abiti della tua taglia. Vestiti, ma vestiti pesante, perché siamo nel novembre di Mosca. Poi ti porto fuori a vedere che non sto scherzando.»
2
Non era uno scherzo. Joe guardava il fuoco acceso davanti a lui, senza vedere veramente le lingue di fuoco che danzavano e baluginavano di luce arancione.
«La cena è stata di tuo gradimento?»
Il corpo di Joe era lì, o almeno così pensava, in un salone, uno dei tanti, della grande casa in un elegante sobborgo di Mosca in cui viveva Ivan Whiskey. Che lui aveva conosciuto nel corpo di un neonato, un corpo che non sarebbe mai potuto crescere o invecchiare. Eppure, ora, lo vedeva nel corpo di un adulto, dal viso intelligente e di bell'aspetto. Ed era proprio lui. Ormai ne era certo oltre ogni ragionevole dubbio. Com'era certo di trovarsi davvero nel 2008, in un mondo totalmente cambiato.
Ecco, appunto, il suo corpo era lì, ma la testa di Joe era ancora da un'altra parte, forse in un altro mondo, nel “suo” mondo, e ci mise ancora qualche secondo per realizzare che gli era stata fatta una domanda: «Oh, sì. Era ottima.»
«Eppure hai lasciato il piatto mezzo pieno», rispose Ivan fermandosi a mettere a posto qualche ceppo nel caminetto.
«Sono un po'... scombussolato.»
Sì, “scombussolato” era il termine giusto. Scombussolato come un uomo che è salito sulle montagne russe ed è sceso ritrovandosi nel mondo di quasi quarant'anni dopo.
«Posso immaginare.», disse l'altro rialzandosi.
«Ivan, perché sono qui?», gli chiese «O forse dovrei dire... perché sono in questo tempo? E come sono arrivato proprio in questo posto?»
L'altro lo guardò dall'alto in basso, senza rispondere subito: «Posso rispondere solo all'ultima delle tue domande. Io sapevo dove trovarti. Ti ho semplicemente raccolto e ti ho portato a casa mia. Ti ho curato e ho aspettato il tuo risveglio. Sapevo dove trovarti, ma non so come ci sei arrivato. E non so perché sei in questo tempo.»
«E quando è successo? E da dove mi hai raccolto?»
Ivan scosse la testa: «Non ha importanza, Joe.»
L'altro aggrottò la fronte: «Come sarebbe a dire che non ha importanza?»
«No, non ne ha.»
«Ma...»
«E' un errore che fai spesso, Joe.», lo interruppe con un tono di voce perentorio e definitivo «Ti focalizzi sul passato, e non riesci a vedere il presente e a proiettarti sul futuro. Forse la domanda più giusta è la prima che hai fatto, ovvero “perché sono qui?”. Ma per questa domanda io non ho risposta. Credo che la dovrai trovare da solo.»
Joe restò a fissare i suoi occhi cerulei ora freddi come due lame di ghiaccio, e capì che non gli avrebbe detto altro. Che non gli avrebbe rivelato né dove lo aveva raccolto, né quando.
«... non riesci a vedere il presente e a proiettarti sul futuro.»
Un sorriso ironico gli affiorò sulle labbra... più proiettato nel futuro di così...
«Magari vorresti qualcosa... che ti aiuti a digerire?»
Joe alzò lo sguardo stranito, pieno di tutti i suoi punti interrogativi: «Ho bisogno di risposte. Non di ubriacarmi.»
Ivan sorrise, di nuovo con quell'espressione ieratica sul volto: «Io non ho le risposte che veramente stai cercando.», gli rispose «In Russia usiamo dire che se insegui due conigli, difficilmente ne catturerai uno. Sei stato bombardato da una quantità di informazioni, emozioni e domande che nessun cervello umano è in grado di gestire. In questo momento è come se tu stessi inseguendo un branco intero di conigli. Hai bisogno di liberarti la mente.»
Joe non disse nulla, si sentiva come svuotato, privo di energie. E si rese conto che, sì, aveva bisogno di quel bicchiere che Ivan gli stava offrendo. Quest'ultimo non aspettò un sì o un qualsiasi accenno, ma se ne andò, lasciando Joe da solo in quella enorme stanza, a guardare i suoi conigli che si allontanavano mentre lui non riusciva a capire quale fosse quello che doveva inseguire.
«Posso immaginare.»
Sospirò. Joe non era sicuro che Ivan, per quanto fosse cerebralmente dotato, potesse veramente immaginare. Durante il giro turistico in quella parte del “nuovo mondo” in cui gli aveva fatto da cicerone, Ivan gli aveva raccontato più approfonditamente la storia della dissoluzione dell'URSS, sin dall'entrata in scena di Mikhail Gorbačëv, che aveva avviato un importante processo di riforma dello stato sovietico, la cui conclusione era stata la caduta del regime comunista sovietico, insieme alla sua influenza. Anche se probabilmente non era esattamente questo ciò a cui lo stesso Gorbačëv mirava con la sua perestrojka e con la sua idea di politica basata sul concetto di glastnost', ovvero sulla trasparenza.
Parlando di Gorbačëv, non aveva potuto evitare di accennare al disastro nucleare di Chernobyl, avvenuto il 26 aprile 1986, e soprattutto del ruolo che sempre Gorbačëv aveva avuto nella portare alla conclusione la Guerra Fredda, insieme a Ronald Reagan, che aveva ricoperto la carica di presidente degli Stati Uniti tra il 1981 e il 1989. Mentre quello di Gorbačëv era per lui un nome assolutamente sconosciuto, conosceva Ronald Reagan, ma per averlo visto in qualche vecchio film americano, ai “suoi” tempi.
«Conoscevo un Reagan che faceva l'attore...»
«Infatti era la stessa persona.»
Joe sorrise di se stesso ricordando il momento in cui aveva avuto quello scambio di battute con Ivan, proprio davanti al mausoleo di Lenin, sopravvissuto alla volontà di un paese di tagliare i ponti con un passato ingombrante.
«Ma forse il presente è solo diverso.»
Joe alzò gli occhi dai suoi pensieri, e li voltò verso Ivan, che si stava avvicinando a lui con una bottiglia senza etichetta di liquido chiaro in una mano, e due bicchierini nell'altra. Gli aveva raccontato anche della Russia post-comunista: Eltsin, Putin, le guerre in Cecenia e i fatti della Georgia. Quindi sapeva che cosa intendeva dire.
Joe lo guardò posare tutto quello che aveva in mano sul tavolino da caffè posto fra la poltrona di Joe e un'altra che Ivan andò ad occupare.
«Posso chiederti un favore, Ivan?»
«Certo.», disse lui mentre, svitava il tappo della bottiglia.
«Puoi... evitare di leggermi continuamente nel pensiero?»
Ivan sorrise, rimanendo con la bottiglia ferma in mano: «Scusami. Non volevo essere invadente.», rispose «La realtà è che... vedi... ti confesso che l'ho sempre fatto, anche quando non avevo questo aspetto.»
Joe aggrottò la fronte, non sapendo se quella che sentiva era qualcosa di assimilabile alla collera o semplice sorpresa: «L'hai sempre fatto?»
L'altro annuì: «Sì. E mi rendo conto che... non era esattamente giusto, e mi dispiace.», disse «Cercherò di evitare di fartelo notare.»
«Pensi di cavartela così?»
Ivan lo guardò con un'espressione ininterpretabile: «Joe, io non lo faccio apposta, credimi.», gli disse «Il fatto è che... interagire con una persona, parlarle... equivale automaticamente a chiedersi che cosa stia pensando, o cosa stia per dire. E, molto semplicemente io lo vedo. E non posso evitare di farlo. Come non posso evitare di vedere te, se il mio sguardo è puntato nella tua direzione.», sospirò «E, credimi, non è sempre... piacevole. Pensa a quanto possa essere spregevole un essere umano, e avrai solo un'infinitesima idea di quanto possa essere sgradevole ciò che può pensare.»
Joe lo osservò per qualche secondo, in silenzio. Poi annuì, sorridendo: «Va bene, ti credo e sai che sono sincero.», disse accennando una risata «Però cerca di... non farmelo notare. Non è una bella sensazione.», concluse con una smorfia.
Ivan sorrise, con un cenno di assenso del capo: «Va bene. Cercherò di essere più discreto.», disse cominciando a riempire i due bicchierini che aveva portato con sé.
Joe lo osservò versare il liquido della bottiglia. Nonostante la mancanza dell'etichetta sul vetro, e nonostante il colore del liquido, sicuramente non era acqua: «Vodka?»
«E cosa sennò?», rispose l'altro «Te l'ho detto: sono russo e mi piace esserlo, nonostante tutto.»
Detto questo, si portò alla bocca il bicchiere e lo svuotò in un solo colpo, adagiandosi poi sullo schienale della poltrona.
Joe lo guardò sopreso, senza riuscire a togliersi di dosso la sensazione che quella situazione avesse un qualcosa di innaturale. Da poco era riuscito a metabolizzare l'idea di Ivan collegata a quel corpo da adulto. Ma l'idea di Ivan collegata ai bisogni e alle voglie di un adulto gli era del tutto nuova.
«Oh, andiamo Joe. In fondo prima avevo il cervello di un adulto intrappolato nel corpo di un neonato.», disse allontanandosi «Adesso ho anche il corpo di un adulto, e non ci vedo niente di male nel concedermi certe cose. E poi, dopo tutto, sono pur sempre russo.»
Joe scrollò le spalle, come se quel gesto lo potesse aiutare a tirar via i suoi dubbi: «Sì, immagino tu abbia ragione.», disse prendendo il suo bicchierino.
Joe se lo portò al naso, lasciando che il forte odore alcolico gli solleticasse le narici per qualche secondo, prima di bere un sorso del liquido, senza tuttavia svuotare il bicchiere come aveva fatto Ivan.
Nonostante questo, sentì il calore irrompergli la bocca e scendergli lungo il corpo, fino allo stomaco, quasi volesse farlo esplodere dall'interno. Si chiese come diavolo avesse fatto il suo compagno a bere tutto d'un fiato. Forse bisognava davvero essere russi per riuscirci. Tuttavia gli lasciò un ottimo sapore in bocca, e la sensazione della mente
che già cominciava a liberarsi.
«E' fatta in casa.», disse Ivan versandosene un altro bicchiere «La prepara un mio paziente.»
Joe lo guardò con gli occhi che ne tradivano lo stupore: «Un tuo “cosa”?»
Ivan sorrise, bevendo dal suo bicchiere, ma stavolta senza tracannarlo: «Un mio paziente, sì. E' buffo. Ti ho raccontato praticamente tutto della storia recente dell'URSS e della Russia, ma non ti ho detto di me.», disse facendo roteare il liquido incolore all'interno del suo contenitore di vetro «Vedi, avrei potuto usare la mia “testa”», disse battendosi due dita sul capo «per diventare il più grande giocatore di scacchi della storia dell'umanità: passata, presente e futura. Ma, come ti ho detto, non riesco a evitare di leggere nel pensiero degli altri, e quindi non mi sarebbe sembrato molto corretto. E' un po' lo stesso motivo per cui tu sei diventato un pilota di Formula 1 e non un centometrista.»
Joe rise, bevendo un altro sorso di vodka e considerando che, ora che si era abituato al fuoco di quel liquido, ne riusciva ad apprezzare meglio l'ottimo sapore: «Però ti divertivi a umiliare Bretagna con gli scacchi.»
Ivan annuì, ridendo a sua volta: «Beh, infatti lo facevo perché era divertente.», disse «Comunque ho conseguito qualche pezzo di carta: ho una laurea in ingegneria elettronica, matematica, informatica e medicina. Adesso mi sto laureando in scienze della comunicazione, ma solo perché mi incuriosisce la materia.»
«Hai una laurea in medicina, e un paziente.», disse Joe «Quindi sei diventato un medico.»
«Sì.», rispose l'altro confermando la sua risposta con un gesto del capo «Per l'esattezza, sono un cardiologo di fama mondiale.»
Le labbra di Joe si incurvarono in un accenno di approvazione: «Non mi stupisco che tu abbia scelto questa specializzazione. Immagino che tu l'abbia fatto perché anche il professor Gilmore è un card....»
La parola gli fu tranciata di netto in gola, dal pensiero che gli attraversò la testa e che, dopo avergli tagliato la voce, gli trafisse il cuore in un'esplosione di dolore vivo. Si voltò verso Ivan, quasi impaurito di incontrare i suoi occhi e di potervi leggere la verità, e tuttavia non potendo evitare di farlo, come se una forza soprannaturale avesse preso il controllo dei muscoli del suo collo.
Ivan lo fissava immobile, con la verità negli occhi, che si mischiava a un senso di tristezza e malinconia ormai metabolizzato da chissà quanto tempo. Tuttavia, nella luce flebile emanata dal caminetto, Joe fu certo che gli occhi di Ivan fossero diventati lucidi, pur senza lasciar cadere alcuna lacrima.
«La risposta è sì, Joe.»
Eccolo, l'aveva fatto di nuovo. Aveva appena contravvenuto alla promessa che gli aveva fatto solo pochi minuti prima. Ma a Joe non importava in quel momento. La domanda a cui Ivan aveva appena risposto, dopo avergliela letta nel pensiero, era una domanda che non avrebbe mai avuto la forza di fare ed era quasi grato che il suo amico gli avesse evitato quella penosa prova, lasciandogli le parole nella mente, tra le tante domande inespresse che avevano costellato la sua vita.
Tornò a guardare il fuoco davanti a lui, mentre sentiva qualcosa che gli si torceva dentro e un familiare calore che gli pervadeva gli occhi, mentre le palpebre acceleravano il ritmo dei loro battiti, nel tentativo di trattenere le lacrime.
Certo, era nel 2008. Era naturale che fosse successo. Ma lo scorrere lineare del tempo concede all'essere umano il modo di abituarsi alla terribile idea che quel giorno potrebbe arrivare. Lui non aveva avuto quel tempo. Gli era stato sottratto da un destino beffardo, e adesso si ritrovava catapultato in un tempo non “suo”, e, per la secondo volta nella sua vita, si rese conto di essere rimasto orfano.
«Quando è successo?», chiese, sentendo la sua voce che tremava.
Ivan sospirò rumorosamente: «Aveva... 93 anni. E' successo nel sonno. Non ha sofferto. Il suo cuore si è semplicemente fermato.», la sua voce era bassa e intrisa di una calma che in qualche modo riusciva a infondere nel suo interlocutore «E' rimasto lucido e in gamba fino alla fine. Aveva anche ripreso a fare ricerca. Voleva... Vedi, lui è sempre stato convinto che potesse esserci un modo buono per usare la cibernetica. Per esempio poter ridare un braccio o una gamba a chi li aveva perduti. Ma le sue idee erano troppo avanzate per la comunità scientifica del tempo. Oggi c'è chi le sta rivalutando.»
Joe sorrise melanconicamente: «E' stato lui a darti quel corpo?»
Ivan annuì, bevendo un sorso di vodka prima di rispondere: «Lui voleva che io... potessi essere autosufficiente. Insomma, che potessi vivere autonomamente, senza dover pesare su nessun altro.», disse guardando il poco liquido rimasto nel suo bicchiere «Per questo mi ha fornito questo corpo.»
Joe sorrise: «Quindi niente più... pannolini, biberon e pappine?»
«E, soprattutto, niente più dormite che durano due settimane.», disse l'altro ridendo a sua volta «E inoltre... Gilmore era preoccupato perché... dopo di lui non ci sarebbe stato nessuno che avrebbe potuto prendersi cura di voi. Sai che cosa intendo dire.»
Joe lo guardò senza rispondere subito: «Certo, lo so bene.»
Ripensò tutte le volte che dopo un incidente in corsa si era rifiutato di farsi mettere la mani addosso da medici sconosciuti. Non perché si fosse fatto qualcosa, figurarsi, ma solo per i controlli e gli esami di rito in questi casi.
«Solo il mio medico mi può mettere le mani addosso. E mi prendo io tutta la responsabilità della mia decisione.»
Per tutti era solo la classica paranoia da star di un famoso pilota di Formula 1. Una paranoia che gli veniva perdonata di buon grado, dato il talento e dato il fatto che non aveva mai mostrato altre singolarità. In realtà era solo un modo per proteggere la sua scomoda verità al mondo esterno.
«Quindi... ti tieni in contatto con gli altri?»
Ivan annuì: «Certo. Ma lo avrei fatto anche se non fossi stato il loro “medico personale”.», disse «Stanno tutti bene, sai. Un po' invecchiati, ma... in ottima salute.»
Joe lo guardò senza saper bene che cosa esprimessero i suoi occhi. Di nuovo Ivan gli aveva anticipato una risposta a una domanda che non avrebbe mai avuto il coraggio di fare. Di nuovo aveva disatteso la sua promessa di poco prima, e di nuovo gli era grato per questo: «Sai, mi sono sempre come saremmo invecchiati.», disse «Nell'immaginario collettivo... si pensa che i cyborg, se esistessero, sarebbero immortali. Ma Gimore un giorno mi disse che non era affatto così.»
Ivan finì la sua vodka: «Vedi Joe, il problema è sempre quello.», disse posando sul tavolino in mezzo a loro il bicchierino vuoto ormai «Il cervello umano che il cyborg ha dentro di sé è il suo punto di forza, perché gli permette di abbinare alle potenzialità della macchina, le capacità della migliore forma di intelligenza dell'universo: l'intelligenza umana.» disse allargando le braccia come a voler abbracciare tutto quell'universo che aveva citato solo poco prima. Poi puntò il dito avanti a lui «Ma è anche il suo punto debole, perché il cyborg continua a mantenere, oltre alla sua memoria da semplice essere umano, quella capacità di provare sentimenti umani che mal si associa alla sua condizione meccanica. E, aldilà di questo, c'è il fatto puro e semplice che, essendo un elemento vivo e organico, il cervello finisce con il deperire e arriva il momento in cui non è più in grado di gestire il corpo che lo ospita. Questo vale tanto per gli esseri umani, quanto per i cyborg. Solo che per questi ultimi il processo di degenerazione è molto più lento.»
Joe aggrottò la fronte: «Quindi diventeremo tutti ultracentenari?»
Ivan inclinò la testa d'un lato, sottolineando il suo gesto con un movimento all'insù delle palpebre: «Tendenzialmente la speranza di vita di un cyborg dovrebbe essere inversamente proporzionale all'età in cui è avvenuta la trasformazione. A meno che non... intervengano fattori esterni.», disse Ivan. Ma poi allargò le braccia «Ma per ora non è niente più che una semplice teoria, senza riscontri oggettivi. Fortunatamente, aggiungerei.»
Joe contorse il viso in una smorfia, mentre posava rumorosamente il suo bicchiere sul tavolo: «E' una teoria terrificante... Ho subito la trasformazione quando avevo 18 anni, e sono il più giovane del gruppo. Secondo la tua teoria, quindi, io sarei quello che è destinato a sopravvivere a tutti gli altri!», disse alzandosi in piedi di scatto, come se quel pugno allo stomaco che aveva sentito l'avesse fatto rimbalzare sulla poltrona «Rimarrò solo, ancora una volta. E' questo il fantastico futuro in cui mi dovrei proiettare, secondo te?»
Ivan lo fissava con quel suo sorriso, che stava cominciando a risultargli odioso: «Joe, non ti stai dimenticando di me?»
L'altro lo fissò sentendosi uno stupido. In realtà era Ivan il più giovane fra di loro. Ma l'altra parte della realtà è che lui era sempre stato portato a considerare Ivan un caso a parte, fra di loro. Ben altra cosa rispetto a quello che il suo corpo da neonato potesse lasciar pensare a chi non lo conoscesse.
«Scusami.», disse incrociando le braccia sul petto e abbassando gli occhi a terra, mortificato «A volte so essere incredibilmente egoista ed egocentrico.»
Ivan scrollò le spalle: «Non ti preoccupare, Joe.», disse alzandosi in piedi «So di non essere io la persona con cui avevi immaginato di passare gli ultimi giorni della tua vita. Ma... condivido pienamente il tuo terrore. La prospettiva che ho di... sopravvivere a tutti gli altri mi angoscia.»
«Vorrei vederli.»
Ivan lo guardò perplesso e sorpreso, come se non fosse riuscito a cogliere il pensiero di Joe prima che egli potesse metterlo sotto forma di parole e voce.
«Voglio vedere i miei amici.», ripeté, anche se era consapevole che Ivan aveva capito benissimo.
«Questo non è possibile.», ribatté l'altro, impassibile come una statua, con gli occhi diventati di nuovo gelidi pezzi di ghiaccio, come la sua voce.
Joe sentì i suoi lineamenti piegarsi in una smorfia: «Come sarebbe a dire che non è possibile?!»
«Esattamente quello che ho detto.»
Joe lasciò uscire la rabbia insieme a un rumoroso sbuffo d'aria dalle narici, ma non servì a calmarlo: «Ma perché?»
«Perché è così e basta.»
La rabbia gli percorse tutto il corpo come un riverbero, e ancora prima che se ne potesse accorgere, Joe era addosso al suo interlocutore e l’aveva preso per il bavero: «Andrò da loro, con te o senza di te!», si sentì sibilare.
Ivan non sembrò affatto scomporsi per la reazione di Joe, né per la situazione in cui si trovava. Mentre lo fissava con i suoi occhi cerulei, con la calma di un iceberg, strinse il polso di uno dei bracci di Joe con una mano: «Mi dispiace, ma non è possibile Joe.», gli disse ancora con quel suo tono di voce gelido e piatto «Non puoi incontrarli. Tu sei qui, ma non appartieni a questo tempo…»
«Non m’importa un accidente!», rispose l’altro scuotendolo.
Ivan sorrise, ma stavolta assomigliava più al sorriso di divertita compassione che si rivolge a un bambino che si sta impuntando su un capriccio che non potrà mai essere esaudito: «Mi dispiace, Joe. Non te lo posso permettere.»
Joe fu per ribattergli addosso la sua rabbia, ma qualcosa gli bloccò le parole in gola, qualunque esse fossero. Poi avvertì l’orribile sensazione che le forze lo abbandonassero, e che il suo corpo stesse perdendo sensibilità, come se si stesse intorpidendo, tanto che abbassò gli occhi quasi a voler controllare di avere ancora le gambe. Rialzandoli vide la mano di Ivan intorno al suo polso e aggrottò la fronte come se si accorgesse soltanto in quel momento di quel particolare.
Tornò a fissarlo negli occhi, e li trovò ancora gelidi. Ma vi lesse un qualcosa che assomigliava alla compassione: «Che cosa mi stai facendo, Ivan?», gli chiese con una voce che gli sembrò provenire da un universo di distanza.
«Mi dispiace, Joe.»
E poi fu il buio.
3
Fece fatica ad aprire gli occhi, come se le sue palpebre fossero state incollate. Quando vi riuscì e vide ciò che lo circondava, la sensazione fu quella di essere tornato al punto di partenza.
La prima cosa che vide fu di nuovo il soffitto scuro che aveva salutato i suoi occhi il giorno prima
“... quarant'anni dopo...”
e lo circondava la stessa stanza, avvolta perfino nella stessa penombra creata dalla poca luce lasciata filtrare dalla enorme finestra alla sua sinistra, che sembrava chiusa esattamente allo stesso modo del giorno precedente
“... ma è veramente passato solo un giorno?...”.
La stessa stanza, con il suo pavimento di legno scuro, le pareti spugnate ricolme di quadri, il mobile con sopra quella lastra nera che ancora faticava a credere potesse essere un televisore.
Anche il fuoco era acceso come la prima volta che si era svegliato in quella stanza, e vi erano accanto, nella stessa identica posizione, anche il tavolo con la scacchiera e le due poltroncine. Solo che, a differenza della volta scorsa, stavolta quella delle due che dava verso di lui, era occupata.
«Scacco matto.», disse Ivan facendo cadere quello che doveva essere il re nero, per poi posare la pedina vincente sulla scacchiera. Quindi alzò finalmente gli occhi verso di lui «Buongiorno.»
Joe avvertì di nuovo quel vago dolore pervadergli il capo, e procurargli una smorfia di dolore sul viso. Cercò di rimettere insieme i frammenti degli ultimi suoi ricordi, e facendolo sentì riaffiorare e crescere la collera nel suo stomaco, insieme al dolore alla testa: «Buongiorno un corno!»
Ivan non reagì ai suoi modi bruschi. Rimase impassibile, sulla sua poltroncina, con quel suo sorriso inafferrabile: «Mi dispiace, Joe. Ma, che tu ci creda o no, non è dipeso da me.»
Joe si alzò a sedere sul letto, lentamente, ma nonostante questo, il movimento gli provocò una fitta al capo lancinante, che lo costrinse a chiudere gli occhi, quasi a voler contenere il dolore al loro interno. Quando li riuscì a riaprire, sentì il suo respiro affannoso, come se avesse appena corso una maratona: «Vorresti dire che le mie forze se ne sono andate di loro spontanea volontà?», gli chiese, accentuando il tono ironico nella sua voce «Io invece credo che tu mi abbia fatto qualcosa.»
Ivan accentuò il suo sorriso, per poi alzarsi e cominciare ad avvicinarsi lentamente a lui, con le mani in tasca: «Credi quello che vuoi.», disse «Non ha importanza.»
Joe sbuffò. Che fosse lui a decidere cosa fosse importante e cosa no gli dava tanto sui nervi quanto quel suo sorriso: «Perché vuoi impedirmi di vedere i miei amici?»
Ivan si fermò a pochi passi dalla spalliera inferiore del letto, e restò semplicemente a fissarlo per dei lunghissimi secondi: «Tu perché vuoi vederli?»
Sospirando per l'ovvietà della domanda (e poi Ivan che bisogno aveva di di domandare?), Joe si guardò intorno alla ricerca dei suoi vestiti, che trovò ben sistemati su un appendiabiti in un angolo della stanza, alla sua sinistra: «Non lo immagini da solo?», disse tirando via le coperte e alzandosi, provocandosi, in questo modo, un'ulteriore fitta alla testa «O forse la domanda giusta sarebbe: non lo sai già?»
Il sorriso sulle labbra di Ivan non si mosse di un millimetro: «Se mi avessi risposto, avresti fatto prima che a fare tutto questo giro di parole.»
«Tu eludi le mie domande.», disse Joe infilandosi i jeans «Perché dovrei rispondere alle tue?»
Stavolta il sorriso di Ivan si accentuò: «Perché avrei potuto ripensarci.»
Joe alzò lo sguardo verso di lui, mentre si infilava la camicia: «Ripensarci?»
Ivan annuì: «Avrei potuto valutare l'idea di farteli vedere.»
Joe rimase bloccato nel gesto di infilare il terzo bottone nella rispettiva asola: «Voglio semplicemente vedere come stanno, come se la passano.», disse, riprendendo ad abbottonarsi l'indumento «Mi pare così ovvio… e naturale.»
Ivan si voltò verso la grande finestra, e cominciò ad incamminarsi in quella direzione: «L'ovvio è un concetto relativo, Joe.»
«Ieri hai detto che non era possibile.», disse l'altro «Perché ora hai cambiato idea?»
Ivan aprì la ante a vetri della finestra, lasciando entrare la gelida aria del novembre di Mosca. Quindi spinse in là le tapparelle semichiuse, permettendo alla piena luce del giorno di entrare gloriosa nella stanza, insieme al freddo e a un intenso odore di neve: «Io non ho cambiato idea.», rispose infine appoggiandosi al davanzale.
«Ma allora...»
Ivan si voltò verso di lui, bloccandogli le parole in gola con un solo sguardo. Quindi richiuse le ante a vetri della finestra, rimanendovi però davanti e guardando all'esterno: «Non è possibile... nel modo in cui vorresti tu.»
Joe sentì contorcersi la fronte, in espressione della sua perplessità: «Che cosa intendi dire?»
L'altro si voltò verso di lui: «Vuoi vedere tutti loro?»
Joe sospirò. Ancora una domanda che eludeva una sua domanda: «E' ovvio che voglia vederli tutti.», rispose sedendosi sul letto, e iniziando a mettersi i calzini.
«E se ti dicessi che hai la possibilità di vedere soltanto uno di loro?»
Joe rimase immobile con i lacchi della scarpa destra in mano, e alzò lo sguardo verso il suo interlocutore: «Uno soltanto?»
Ivan non rispose, lasciando al silenzio il compito di assentire.
Joe tornò a occuparsi delle sue scarpe, e si concesse il tempo necessario per indossare anche l'altra, soltanto per avere un modo come un altro per evitare quello sguardo di ghiaccio che aveva il raro potere di metterlo in difficoltà: «Io...», alzò lo sguardo verso il suo ospite «Io...»
«E' buffo.»
Joe lo guardò perplesso: «Cosa sarebbe tanto buffo?»
«Sei tanto bravo a prendere decisioni in battaglia quanto non lo sei mai stato nella vita reale.»
«Credi che quella che mi hai chiesto sia una scelta facile?»
Ivan sorrise: «Credo che quella sia solo una parte del problema.», disse scostandosi dalla finestra e avvicinandosi a lui «Comunque, te li farò vedere.»
Joe finì di legarsi anche la seconda scarpa e alzò gli occhi colmi di speranza verso di lui: «Dici davvero?»
Ivan annuì: «Ma c'è una regola, Joe, Una sola.», gli disse alzando il dito ad indicare il soffitto, come un maestro rivolto al proprio alunno «Ma la dovrai rispettare e dovrai giurarmi che la rispetterai.»
Parte della speranza negli occhi dell'altro fu sostituita da un misto di timore, angoscia e perplessità: «Quale regola?»
Ivan colse un profondo respiro, e lo guardò intensamente negli occhi prima di rispondere alla sua domanda: «Non potrai interagire con loro, in nessun modo.», disse «Potrai osservarli, potrai vedere come stanno e come vivono. Ma non potrai parlare con loro, non potrai toccarli né sfiorarli.»
Joe restò in silenzio per un lungo momento, cercando di metabolizzare quelle parole. Gli tornò alla mente ciò che Ivan gli aveva detto poco prima...
«Non è possibile... nel modo in cui vorresti tu.»
e pensò di cominciare a capire cosa intendesse dire.
«Perché?», gli chiese.
Ivan non rispose per qualche istante: «Te l'ho detto, Joe. Tu non fai parte di questo tempo.», disse «Se tu interferissi con le cose di questo tempo, il tuo gesto potrebbe avere conseguenze catastrofiche sulla vita dei nostri amici. Conseguenze che tu non puoi nemmeno immaginare. Qualcosa che sicuramente tu non vorresti, e che soprattutto non vorrei io. Quindi, sappi che se cercherai di contravvenire alla condizione che ti ho posto, io te lo impedirò a tutti i costi.»
Joe restò a guardarlo in silenzio, cogliendo nel suo sguardo la gravità e la sincerità di quanto aveva detto. E, no, sicuramente lui non aveva nessuna intenzione di recare un qualunque danno ai suoi amici. E se ciò significava non poter interagire con loro, sarebbe stato al patto. Sarebbe stato straziante, ma avrebbe rispettato la condizione che Ivan gli aveva posto.
«... Tu non fai parte di questo tempo...»
“E allora perché sono qui?”
Si alzò dal letto, e cominciò a camminare lentamente verso la finestra davanti alla quale Ivan era stato poco prima. Vi si fermò davanti, con le mani in tasca: una spessa coltre di neve ricopriva di bianco il suolo, i tetti delle case lontane e le forme degli oggetti e delle piante dell'enorme giardino della casa di Ivan sulle quali si era posata.
Era novembre, ed era a Mosca. Non era una cosa insolita. E aveva visto un paesaggio simile altre volte. Eppure, ancora, uno scorcio del genere fece riaffiorare in lui sentimenti di malinconia, tristezza e un senso di nostalgia strano per lui che era cresciuto in una città in riva al mare.
«... Tu non fai parte di questo tempo...»
Il ramo di un albero simile a un abete cedette sotto il peso della neve che lo ricopriva e la lasciò cadere su una panchina, che si era salvata dalla neve proprio per il fatto di essere al riparo sotto l'albero.
«E poi che cosa è successo?»
«004 ha sparato un missile contro il velivolo che ti ha sparato, e l'ha distrutto... Tu non fai parte di questo tempo...»
Abbassò gli occhi a terra, come a ricacciare indietro il ricordo e il pensiero che aveva generato. Pochi secondi dopo li rialzò, di nuovo rivolti verso ciò che poteva ammirare fuori da quella finestra. Ma il candore della neve, stavolta, gli dette come la sensazione di accecarlo, e istintivamente ritrasse lo sguardo, lateralmente, incontrando quello di Ivan, che lo osservava silenzioso, con le braccia dietro la schiena. Quasi aspettasse che gli facesse una domanda. Che gli facesse “quella” domanda, espressamente, chissà da quanto, senza dargli la possibilità di avere una risposta che anticipasse le sue parole che erano già ben formate nella sua testa e che si trovavano già sulla punta della lingua. E che pure non riusciva a riempire di voce.
«Se tu interferissi con le cose di questo tempo, il tuo gesto potrebbe avere conseguenze catastrofiche sulla vita dei nostri amici.»
“Perché?... Forse perché...”
«Io sono morto, Ivan?»
Lui abbassò il capo, a guardare chissà quale listello del pavimento di legno scuro, come se la risposta a quella domanda si trovasse sotto di esso. Ma le sue labbra non si mossero, e Joe fu sicuro di vedere passare sui suoi occhi un velo di tristezza, mentre un brivido gli percorse la schiena nel realizzarne il possibile significato.
«Ivan, rispondimi.», gli chiese con una voce tremante e flebile, che non riusciva a soddisfare il suo desiderio di urlare «Quel giorno in cui salvammo Mombaad, in cui quella parete di pietra praticamente mi crollò addosso… quel giorno io sono morto?»
Ivan alzò gli occhi cerulei su di lui. Quegli stessi occhi che così tante volte aveva visto simili a lame di ghiaccio, adesso gli sembravano invece caldi e liquidi ed ebbe la certezza che quel velo di tristezza e malinconia fosse reale, e non la sua semplice impressione.
Improvvisamente sentì le gambe incredibilmente deboli, come se fossero tronchi svuotati dall’interno che si reggevano solo su un sottile strato di corteccia secca: «Sono morto, vero?»
Ivan sospirò: «La realtà è che… non posso rispondere a questa domanda.», gli disse. E per la prima volta da quando lo conosceva, Joe sentì l’incertezza nella sua voce.
«Perché non puoi rispondere?», gli chiese rendendosi conto, soltanto in quel momento, che si reggeva in piedi solo perché si stava sostenendo al davanzale della finestra «Credi che abbia paura della verità?»
«Non è così semplice, Joe.»
L’altro scosse la testa: «E’ estremamente semplice. Quanto dire un sì o un no.»
Ivan si prese qualche secondo, alzando gli occhi al soffitto come a volervi leggere le parole che voleva dire: «In fondo tu credevi di essere morto molto tempo prima di allora…»
«Non azzardarti a cercare di sviare il discorso.», lo avvertì Joe, ma sentiva la sua voce così debole che sembrava ridicola in quel tentativo di dare un tono minaccioso alle sue parole.
Ivan scosse la testa, facendo ondeggiare i suoi capelli biondo cenere: «Non sto cercando di sviare il discorso. Ma, davvero, non posso rispondere alla tua domanda.»
«No, tu non vuoi rispondere alla mia domanda.», gli ribatté «E’ estremamente diverso.»
La testa dell’altro si mosse di nuovo in un segno di diniego, e la tristezza nei suoi occhi divenne compassione: «Joe, non è così davvero.», di nuovo con quel tono di voce che si rivolge a un bambino che sta facendo un capriccio «Non posso risponderti, e non dipende da me.»
Joe continuò a fissarlo, mentre sentiva il bisogno di deglutire quel groppo di saliva che gli si era formato in bocca. Avrebbe voluto ribattere ancora, ma non trovò in sé la forza per farlo, schiacciato dalla consapevolezza non gli avrebbe detto niente.
Senza nemmeno accorgersene, si lasciò andare al desiderio delle sue gambe di cedere, e accompagnò il suo corpo fino a sedersi per terra, con la schiena appoggiata al muro, e le gambe distese davanti a lui, come un burattino lasciato accuratamente in posizione dal suo marionettista.
«In fondo tu credevi di essere morto molto tempo prima di allora…»
Per uno strano istinto alzò le mani per guardarle, e quasi si sorprese nel non trovarle trasparenti come immaginava dovessero essere quelle di un fantasma: «Sai, è vero… quello che hai detto prima.», disse continuando a guardare le sue mani. Poi alzò gli occhi verso di lui «Io credevo di essere morto tanto tempo prima. Quando ho scoperto di essere diventato poco più di un robot evoluto… un cyborg chiamato 009.»
Ivan restò a guardarlo per qualche istante, sempre con quegli occhi compassionevoli incastonati nel volto. Dopo qualche secondo, fece qualche passo verso, e si lasciò cadere anch’egli a sedere sul pavimento, proprio accanto a lui, con la schiena appoggiata al muro e le gambe incrociate: «Che cosa… ti ha dato la forza per continuare a vivere?»
Joe alzò gli occhi al soffitto, come se lì avesse potuto leggere le sue parole: «La vendetta… inizialmente è stata la vendetta. Volevo… vendicarmi per quello che mi era successo.», disse abbassando poi lo sguardo verso le sue mani, ora abbandonate sulle sue gambe «Credo che fosse una forza vitale comune a tutti noi… quel desiderio di vendetta. Ma poi… è subentrato altro.» alzò lo sguardo per fissare qualcosa sul muro opposto, senza nemmeno vederlo «Non ho trovato solo dei… “compagni d’armi”. Ho trovato qualcosa a cui appartenere… io che mi ero sentito un escluso per tutta la vita. E ho capito quanto fosse importante appartenere a qualcosa. Ho trovato in Gilmore quel padre che non avevo mai avuto. E negli altri affetto, amicizia vera e…»
«E cosa?»
Joe chiuse le labbra che gli erano rimaste socchiuse su quelle ultime parole inespresse, e scosse la testa: «Ormai… non ha più importanza.», le sue labbra formarono un sorriso ironico, di cui sentì il sapore amaro pervadergli la bocca «E’ passato, ormai.»
Ivan restò in silenzio alcuni istanti, concedendogli il tempo di metabolizzare i suoi pensieri: «Vuoi ancora vederli?»
Joe si voltò verso di lui, ma non rispose immediatamente. Quando Ivan gli aveva detto a quale condizione avrebbe potuto vedere i suoi amici, gli era sembrato ingiusto e crudele. Adesso, da quel nuovo punto di vista da cui aveva cominciato a vedere il mondo da qualche minuto a quella parte, rispettare quella condizione gli sembrava la cosa più logica e naturale. Si riteneva anzi fortunato che gli fosse concessa anche solo la possibilità di rivederli.
«Certo.», disse «Adesso lo desidero anche più di prima.»
Ivan accennò un sorriso: «E chi vorresti vedere per primo?»
Joe sospirò, guardando avanti a sé: «Io vorrei…», sentì una fitta all’altezza dello stomaco e le labbra serrarsi, mentre le parole gli ritornavano in gola. Per sempre «Decidi tu Ivan. E’ indifferente.»
Ivan aspettò qualche secondo: «Sei sicuro?»
Joe si voltò verso di lui, concedendosi qualche secondo per elaborare un pensiero che però troncò sul nascere: «Sì, ne sono sicuro.»
4
Beijing era una città molto diversa da quella che ricordava.
Alle biciclette si erano sostituite migliaia di automobili, e gli hutong, i quartieri tradizionali formati dai bassi siheyuan, erano stati in gran parte sostituiti da moderni palazzi e grattacieli.
Anche l'aria era estremamente diversa. Il cielo perennemente velato da una coltre grigia tradiva ciò che entrava nei polmoni. Dopo poco più di un'ora che si trovavano lì, Joe aveva come la sensazione che gli stessero bruciando.
«Sai, qui ci sono state le olimpiadi quest'anno.», disse Ivan alzando gli occhi verso quel cielo grigio, nonostante il sole che vi si stagliava. Poi indicò davanti a sé e la direzione del suo dito andò ad indicare una enorme struttura visibile in lontananza, dal loro punto di osservazione dal quale potevano abbracciare con lo sguardo una buona porzione dell'immensa metropoli che era diventata Pechino. La struttura indicata da Ivan sembrava vagamente ovoidale, ed era caratterizzata, all'esterno, da linee metalliche ricurve che andavano a intrecciarsi le une con le altre «Quello è lo stadio nazionale dove si sono svolti i giochi. Lo hanno chiamato “Nido d'uccello”. Un nome appropriato, non credi?»
Joe restò a osservare lo stadio in silenzio, per qualche secondo: «Sì, direi che è un nome adatto.», rispose «E' maestoso, ma ha qualcosa di... non saprei come definirlo.»
«Inquietante?», suggerì Ivan.
Joe lo guardò con le labbra serrate, in una smorfia di perplessità: «Forse. Dimmi, la Cina è sempre una repubblica socialista?»
Ivan annuì: «Oh, sì. Non l'avevi intuito da solo?»
«Beh, sono cambiate molte cose...», rispose l'altro guardandosi attorno, come se avesse bisogno di ulteriori conferme.
«Qui il controllo governativo è strettissimo.», disse Ivan «Comunicazioni, stampa, ritmi di lavoro, la vita dei cittadini... perfino il numero massimo di figli è stabilito per legge.»
Joe piegò le labbra in una sorta di smorfia: «Sapevo di qualcosa del genere.»
Ivan scosse la testa: «Quelle che conosci tu sono semplici politiche di controllo, più che altre volte ad incentivare una pianificazione familiare più controllata.», disse «Ma ebbero poco successo. D'altra parte non fu Confucio a dire che “più bambini significa più felicità”? E lo stesso Mao Tse Tung aveva a suo tempo avviato politiche a favore della natalità, che portò a una sorta di baby-boom tra gli anni '50 e '60. Le politiche di controllo di cui parli tu non potevano avere il potere di cambiare concetti tanto radicati nella testa delle persone. »
«E quindi?»
«Nel 1979 circa un quarto dell'intera popolazione mondiale viveva in Cina, ma poteva disporre solo del 7% della superficie coltivabile. Una situazione che avrebbe finito con il portare all'implosione del paese. Quindi, proprio in quell'anno, fu introdotta una legge che vietava alle donne di avere più di un figlio. Ma è un cane che si morde la coda...»
Joe aggrottò la fronte: «In che senso?»
Ivan sorrise, voltandosi verso di lui: «Beh, cominciamo dal fatto che ci sono troppi uomini e poche donne.», disse «Si predilige avere un figlio maschio, quindi si verificano molti casi di aborti selettivi.», roteò un attimo le pupille negli occhi, come se stesse cercando di cogliere qualcosa che gli stava sfuggendo «Ah, già. Ma forse tu non sai che oggi è possibile sapere in anticipo il sesso di un nascituro. Miracoli della medicina e dell'ecografia. Ma c'è di più.»
«Ovvero?», chiese Joe, che ormai aveva smesso di farsi e fare troppe domande su tutte le cose che potevano sembrargli incredibili e inaudite, che ogni tanto comparivano nei discorsi del suo “amico del futuro”.
Ivan sospirò: «Come ti ho detto prima, è vero che la Cina è ancora uno stato socialista. Ma in questo momento è forse anche lo stato più capitalista del mondo.»
La perplessità sul volto di Joe aumentò. Non riusciva a concepire i termini “capitalista” e “socialista” nella stessa frase, se non in contrapposizione l'uno all'altro.
Ivan, per qualche secondo, si limitò a studiare il suo volto, forse divertendosi per la sua espressione. Quindi allargò il braccio, quasi a voler abbracciare tutta la città davanti a loro: «Guardati intorno a Joe. E' tutto sotto i tuoi occhi, o sopra la tua testa. I grattacieli, le auto, l'inquinamento. Questo è un paese industrializzato.», disse «Quella cinese è la terza economia del mondo, ormai. E tra non molto scalzerà il Giappone in quella classifica. L'apertura del mercato ha fatto sì che numerose aziende occidentali venissero qui in cerca di mano d'opera a basso costo.»
«Ma una volta la Cina era un paese chiuso e isolato...»
Ivan scosse la testa: «La svolta avvenne nei primi anni '90. Nella primavera del 1989 un gruppo di studenti occupò Piazza Tian'anmen, protestando contro il regime e invocando la democrazia. L'esercito represse il tentativo di rivolta nel sangue, ma il partito si rese conto che, nell'epoca della comunicazione globale che stava appena iniziando, non poteva pensare di isolare la popolazione dalle influenze derivanti dalle ricche e prosperose culture occidentali.», disse «Così furono avviate delle riforme economiche che di fatto hanno introdotto una sorta di capitalismo nel paese. Un capitalismo che, però, è fortemente controllato dal partito. Come ogni cosa qui. Perfino le Olimpiadi... sono state un enorme spot per il paese. Poco importa se per... realizzare i migliori giochi di sempre migliaia di poveri sono stati sfrattati dalle loro case per nasconderli agli occhi del mondo. Perché il mondo doveva solo vedere la faccia bella e pulita di questo paese. Per non parlare del concetto di rispetto dei diritti umani che hanno da queste parti.»
Joe voltò gli occhi verso la città sotto di loro. Il Nido d'uccello si stagliava in lontananza, nel rossore del pomeriggio, con il suo aspetto maestoso eppure, come lo aveva definito Ivan, a suo modo inquietante: «Allora non è cambiato niente da quel punto di vista...»
«Oserei dire che la situazione è peggiorata rispetto a quella che conoscevi tu.», rispose Ivan, riattirando lo sguardo di Joe su di sé «Nell'era della comunicazione globale quale siamo oggi, il governo ha stretto ulteriormente le maglie della censura e il controllo sulla stampa, nel tentativo di controllare ogni informazione che arrivi in Cina, e ogni informazione che ne esca. Le Olimpiadi sono state l'occasione per dimostrare che... qui tutto è bellissimo e meraviglioso. Perfino le fabbriche sono state fermate, per far diminuire il tasso di inquinamento durante i giochi. Ed effettivamente... sono state delle belle Olimpiadi. Però si sa pochissimo dei dissidenti e dei difensori dei diritti umani che sono stati incarcerati, in modo che, come i poveri, non si vedessero. E, per quanto forse l'economia si sia aperta al mondo esterno, per molti aspetti la Cina resta un paese chiuso ed isolato. E controverso. Fonti non ufficiali affermano che ci sono almeno 68 diversi reati per cui è prevista la pena di morte, inclusi reati finanziari e non violenti. Alcuni ritengono che siano ancora di più.»
Joe tornò a guardare la città che si estendeva davanti a lui e gli mostrava le sue luci sfavillanti che illuminavano la sera entrante: «E Chang dove si trova, in tutto questo?»
Ivan lo fissò per qualche secondo, senza rispondere subito. Poi anche i suoi occhi si rivolsero a quella enorme distesa di edifici e persone: «Ti porto da lui.»
Pochi secondi dopo Joe sentì di nuovo la sensazione che il suo corpo diventasse incredibilmente leggero, fino a levitare. Aveva avuto la stessa sensazione quando erano partiti dalla casa di Ivan alla volta di Pechino. Un viaggio da qualche ora di aereo che si era ridotto alla durata di qualche battito di ciglia. Tutto ciò che aveva intorno scomparve alla sua vista, confondendosi in un quadro a tinta unica.
Il tutto durò solo pochi istanti, quando il suo corpo riprese peso e consistenza, ma in un altro posto rispetto a dove erano appena pochi attimi prima.
Joe si guardò le mani, e di nuovo si stupì di sentirle nella loro sostanza. Ivan gli aveva spiegato in che modo avrebbero viaggiato.
Tramite i suoi poteri ESP, Ivan lo avrebbe portato in varie parti del mondo, ove si trovavano i loro compagni. Ma ciò che avrebbe viaggiato di Joe sarebbe stato qualcosa di assimilabile al suo spirito, e non il suo corpo. Questo suo status non gli avrebbe permesso di interagire con le cose, né con le persone, semplicemente perché nessuno avrebbe potuto vederlo.
A meno che Ivan non l'avesse voluto, con l'abilità che gli era concessa di riunire lo spirito al corpo di Joe, rimasto come addormentato a Mosca.
«Perché mi hai fatto promettere di non cercare di interagire con loro, se sapevi già che non avrei potuto.»
«Ho i miei buoni motivi.»
Era stata la sola spiegazione che Ivan gli avesse dato, e ben presto si era reso conto che sarebbe stata una delle tante sfuggevoli e oscure risposte di Ivan di cui si sarebbe dovuto accontentare.
«Ivan, posso farti una domanda?», gli chiese volgendo gli occhi verso di lui.
L'altro attese qualche secondo, quasi stesse valutando se rifiutare la sua richiesta: «Sentiamo.»
«Se il mio corpo non è qui... perché respiro l'aria che è qui.»
Ivan sorrise: «Non fai mai domande banali, Joe.», disse «Gilmore aveva ragione: con la tua intelligenza, una vita diversa ti avrebbe dato tante opportunità.»
Joe piegò le labbra in una smorfia di amarezza: «Non intendi rispondermi?»
Ivan annuì: «Certo. La risposta è che respiri l'aria che è qui, per lo stesso motivo per cui puoi sentire i rumori che sono qui, e gli odori.», rispose «E questo perché, modestamente, sono molto bravo a utilizzare i miei poteri. I tuoi sensi hanno viaggiato insieme al tuo spirito...»
«Ma non posso toccare le cose.», disse «Mi rendo conto che anche la stessa impressione di camminare sulla terra è poco più di un'illusione.»
Un accenno di rimprovero passò negli occhi di Ivan: «Stavo precisando: quelli che ti sono necessari.», disse cadenzando ogni singola sillaba «E adesso andiamo.»
Joe sospirò, capendo che la conversazione era finita lì, che lui lo volesse oppure no.
Alzò gli occhi al cielo, e le luci dell'insegna quasi ebbero un effetto accecante sui suoi occhi, tanto che sentì l'impulso di chiuderli. Li riaprì lentamente, permettendo loro di abituarsi gradatamente alle luci intermittenti. Era un'insegna quadrangolare, a sfondo rosso, con il contorno delineato da una linea al neon di colore chiaro. In mezzo all'insegna, a grandi caratteri, una scritta in ideogrammi indicava semplicemente “da Chang”. La scritta veniva poi ripetuta in inglese poco sotto, ma con caratteri più piccoli.
Sotto l'insegna, una enorme porta a vetri consentiva l'ingresso al locale, attraverso un corridoio che dava su una scalinata ricoperta da una guida rossa. Facendo un passo indietro, Joe poté notare che il locale era parte di un alto grattacielo, di cui doveva occupare tutto il piano terra e il primo piano.
«Che te ne pare?», gli chiese Ivan dopo avergli dato il tempo di farsi un'idea.
Joe spalancò gli occhi, a sottolineare ciò che stava per dire: «Che il nostro amico ha fatto le cose in grande.»
Ivan sorrise: «Questo è solo il primo.»
«Il primo?», chiese Joe voltandosi verso di lui.
«Sì, il primo ristorante che ha aperto.», spiegò «Dopo essere ritornato in attività. In realtà prima era in un'altra zona della città. Adesso è stato portato qui. Questo è uno dei quartieri più esclusivi di Pechino, e quello di Chang è considerato uno dei migliori ristoranti della città, se non di tutta la Cina. Ma ha aperto altri locali, in varie città del mondo.»
Ivan si avviò quindi verso l'entrata, e Joe lo seguì, attraverso la porta a vetri e su per la scalinata, che li portò a un'enorme sala, dominata da tonalità di rossi e gialli. C'erano parecchi tavoli, tutti pieni, tra i quali si rincorrevano camerieri rigorosamente in divisa, facendo la spola tra quella che doveva essere la cucina e i clienti. Di questi, nessuno era vestito con quelli che potevano definirsi abiti casual, ma tutti gli uomini indossavano la cravatta, o eleganti e tradizionali changshan. Anche le donne erano vestite con eleganti vestiti di gusto occidentale oppure con i loro migliori qi pao.
Una buona seppur minoritaria parte degli avventori era chiaramente occidentale. Joe riconobbe anche qualche giapponese, e la cosa gli strappò un sorriso, ricordandosi come fosse difficile per i suoi compagni ravvisare le differenze somatiche tra i due popoli, che a lui e allo stesso Chang sembravano così evidenti.
«Presumo che non sia un luogo per tutte le tasche.», considerò Joe.
Ivan annuì: «No, effettivamente non lo è.», rispose «Ma...»
«Ma?»
«Quello che avanza in cucina, viene donato alle mense dei poveri.», continuò Ivan «E tra l'altro Chang ne gestisce alcune, sparse un po' in tutto il paese. E anche dei ristoranti a buon prezzo.»
«I signori hanno prenotato?»
La voce femminile colse Joe di sorpresa, tanto gli era vicina, e per un attimo pensò che avesse chiesto a lui, tanto che fu quasi per risponderle. In realtà la giovane ragazza, nel suo perfetto abito tradizionale e con il suo perfetto sorriso, per il quale chissà quanto poteva essersi allenata allo specchio, stava accogliendo altri due clienti, due cinesi, anche questi vestiti di tutto punto.
«Ma Chang avrà più di 80 anni in questo tempo.», disse Joe «Se ne sta ancora dietro i fornelli?»
«Oh, sì.», rispose Ivan accompagnando la sua risposta con una mezza risata «Però è molto più propenso di una volta a lasciarsi aiutare da altri cuochi. Insomma, il ristorante porta pur sempre il suo nome e lui lo deve tutelare.»
Detto questo, Ivan si avviò adagio verso l'interno della stanza, lasciando che Joe lo seguisse e continuasse a guardarsi intorno in quell'ambiente enorme, eppure dal gusto intimo e tranquillizzante.
«Il cibo è un'esperienza che merita la piena attenzione dei cinque sensi. Mentre mangiamo non dobbiamo essere disturbati o distratti dai nostri problemi, dai rumori estranei né si può farlo in fretta.»
Sì, quell'ambiente sembrava proprio l'espressione materiale di quelle parole che aveva sentito uscire dalla bocca di Chang chissà quanto tempo prima... nel “suo” tempo.
Per poco un cameriere con in mano due scodelle colme di riso alla cantonese non lo urtò, e Joe si scansò istintivamente appena in tempo per evitare l'incidente. Restò immobile in mezzo alla stanza a fissare l'uomo, che aveva continuato la sua corsa verso chissà quale tavolo, come se nulla fosse successo. Come se non lo avesse nemmeno visto.
“Effettivamente è così.”, si ravvedé Joe, scuotendo la testa “Non mi possono vedere, e non mi possono toccare. Al limite, mi sarebbe passato attraverso... come se fossi un fantasma. Niente più che un fantasma... che lo sia davvero?”
Lasciando il cameriere e i suoi piatti al loro destino, Joe si voltò dalla parte opposta, dove incontrò gli occhi cerulei di Ivan, e il suo sorriso onnisciente e indecifrabile.
«Ti va di vedere la cucina?», gli chiese.
Joe ci pensò su un attimo, come se veramente pensasse di avere la possibilità di declinare quell'invito, e non di essere una specie di novello Dante che altra possibilità non aveva che seguire il suo Virgilio: «Certo.»
Ivan si avviò, dandogli la schiena, alla base della quale si intrecciavano le sue mani. Joe esitò ancora qualche secondo, prima di seguirlo oltre un'entrata senza porte in una parete.
Questa, dopo aver costeggiato per un bel tratto, una parete dava su un corridoio ben illuminato. Non molto lungo, ma abbastanza largo da permettere il passaggio di almeno sei persone contemporaneamente. Persone, per lo più camerieri e cameriere, che passavano in continuazione, in un caos a suo modo ordinato, lasciando le richieste a un'apertura nella parete sinistra del corridoio, e raccogliendo vivande già pronte in un'apertura che prendeva quasi tutta la lunghezza della parete opposta. Dalle aperture proveniva l'intenso odore di cibi e spezie che riempiva l'ambiente, insieme a un rumore composto di voci che si frapponevano fra loro e ai rumori di stoviglie e piatti. In fondo al corridoio una doppia porta automatica, non trasparente, se non per due finestrelle di vetro, doveva essere quella che conduceva in cucina.
Quando Ivan arrivò a pochi centimetri dalla porta, come se il sensore sopra di essa avesse avvertito la sua presenza, fece scorrere le ante.
Entrambi furono dentro la confusione dell'enorme stanzone appena prima che le stesse si richiudessero. Gli odori che nel corridoio erano appena avvertibili, assalirono violentemente le narici di Joe, così come il calore di un numero incredibile di fornelli accesi fece con la sua pelle, mentre le orecchie si colmavano un trambusto di voci, stoviglie, posate e coltelli che sbattevano.
Joe si guardò intorno, spaesato, mentre uomini e donne gli passavano accanto di buon passo, schivandolo, come se lo potessero vedere. O forse era lui che ancora si ostinava a cercare di scansarli. In quella confusione perse di vista Ivan, e si sentì perduto nel realizzare che era il suo unico punto di riferimento in quel caos primordiale.
«Ehi, vuoi fare attenzione con la pelle di quell'anatra?! Non stai mica sbucciando una mela!»
La voce proveniva dalle sue spalle, e la sua familiarità lo indusse a voltarsi.
«E tu, con quelle verdure, non le devi tagliare così grossolanamente! Anche l'occhio vuole la sua parte.»
Joe sorrise: i capelli erano nascosti parzialmente dal cappello, ma poteva intuire il loro ingrigimento, anche se non tale da far loro perdere l'originario colore corvino; il volto era segnato da qualche ruga, e la pelle sotto occhi stava leggermente cadendo a formare delle borse. Era sempre bolso e tozzo come lo ricordava.
Ma in sostanza non aveva l'aspetto che si poteva pensare appartenere a un uomo sugli 80 anni. Chi non conoscesse Chang, vedendolo così, avrebbe tranquillamente potuto dargliene almeno una trentina di meno.
«Guarda, ti faccio vedere.», stava dicendo prendendo di mano il coltello al suo aiutante che poco prima stava rovinando maldestramente una grossa anatra laccata, appena uscita da chissà quale forno. Forse dal grosso forno a legna, appena poco dietro di loro.
«L'anatra laccata va cotta nel forno a legna. Non esiste che la si cuocia in un indegno forno elettrico!»
Joe sorrise del suo ricordo, senza rendersi conto che si stava avvicinando.
Vide il coltello in mano a Chang applicare un'incisione netta e precisa sulla pelle glassata dell'animale, tanto che questa venne via quasi da sola «Vedi, non è difficile. E adesso continua con le altre.», disse rimettendo il coltello in mano all'allievo.
Questo annuì con timorosa riverenza e riprese il lavoro da dove l'aveva lasciato Chang: «Sì, signore.»
«Signor Chang!»
Chang si voltò verso la voce che proveniva da qualche metro alla sua destra, inducendo Joe a guardare nella stessa direzione. Un uomo sulla cinquantina, che era chiaramente un cameriere, ma meglio vestito degli altri, stava cercando di attirare la sua attenzione con un cenno del braccio.
«Che cosa c'è, mio fedele direttore di sala?», chiese Chang all'uomo.
L'uomo sorrise, accompagnando le sue labbra con un cenno di riverenza: «E' per quella cosa che mi aveva chiesto, signor Chang.», rispose l'uomo «La cena nella sala privata 9... si è quasi conclusa.»
Chang corrugò la fronte per un attimo: «Oh, capisco.», disse «Ti ringrazio, Han. Arrivo subito.»
L'uomo sorrise, di nuovo con un segno di riverenza, e quindi voltò le spalle, tornando sui suoi passi fino a uscire dalla cucina.
Quando l'uomo fu uscito, Chang si rivolse a qualcuno dietro di lui: «Xiang!»
Un uomo sulla quarantina si voltò verso di lui, lasciando stare per un attimo la salsa che stava preparando: «Sì, signore?»
Chang si avvicinò a un lavandino, e raccolse un po' di sapone da un dispenser, per poi prendere a lavarsi le mani: «Devo assentarmi per qualche minuto.», disse rivolto a Xiang, che era evidentemente il suo vice lì dentro «Fai in modo che non succedano disastri.»
Xiang annuì: «Certo.», rispose «Non si deve preoccupare.»
Chang si asciugò le mani a un canovaccio, e annuì: «Grazie.», disse «Torno appena possibile.»
Si tolse il cappello da cuoco e se lo mise in una tasca, mentre si incamminava verso l'uscita della cucina, con aria assorta e pensierosa, insensibile alla confusione e al tumulto di voci che lo circondava.
Joe riconobbe quell'espressione sul volto del vecchio compagno. Gli attraversava i lineamenti quando il suo amico lasciava per un attimo da parte la sua indole ironica e gioviale, perché doveva dire o affrontare qualcosa di serio, che lo preoccupava o che gli premeva in particolar modo.
Chang attraversò le porte basculanti, e continuò a camminare lungo il corridoio, in mezzo a camerieri che gli passavano accanto per lasciare ordini o prendere pietanze pronte da portare ai tavoli. Prima di arrivare all'ingresso della sala principale, svoltò a destra, inerpicandosi per una larga scalinata coperta, in quasi tutta la sua larghezza, da una guida di moquette rossa con cuciture gialle che risaltavano ai lati. La rampa di scale conduceva evidentemente al piano di sopra, che, come Joe aveva notato all'esterno, era anch'esso completamente parte del ristorante.
La scalinata si divideva a metà salita, come spesso accade, e ivi, sul pianerottolo, sostava un uomo, con una divisa del ristorante, che salutò Chang con un cenno di riferenza del capo, quando questo gli passò davanti.
Il maitre, quando aveva chiamato Chang in cucina, aveva parlato di una sala privata e probabilmente era lì che Chang si stava dirigendo in quel momento. Forse quell'uomo era sorta di guardia.
Il vecchio cuoco lo salutò con un cenno della mano, e continuò la sua salita per l'altra mezza rampa di scale. A non sapere che si trattava di un cyborg, ci si sarebbe davvero inevitabilmente stupiti della facilità e la naturalezza con cui quell'ultraottantenne saliva gli scalini a uno a uno.
Seguendolo, Joe, si ritrovò a camminare dietro di lui lungo un altro corridoio, sempre ben arredato e decorato, così come la sala al piano terra, sul quale si aprivano diverse porte a doppia anta.
Chang passò davanti alle porte chiuse. Joe si fermò davanti alla prima e non poté fare a meno di notare il numero, composto da forme di legno laccato, che evidentemente la contrassegnava: 001.
Sorrise e riprese a seguire Chang, notando che ogni porta era contrassegnata da numeri simili e progressi: 002, 003 e così via. Non si stupì di scoprire che l'ultima era la 009, ed era proprio quella davanti alla quale Chang si era fermato. A modo suo, aveva dedicato un angolo del suo ristorante a ognuno di loro.
Chang esitava davanti alla porta chiusa, e si lisciò i baffi, sempre con quella sua espressione pensierosa e assorta disegnata dai suoi lineamenti. Raccolse un lungo sorso d'aria, che riemise fuori in un altrettanto lungo respiro. Quindi bussò alla porta, tre volte.
Un'anta di quest'ultima si aprì quasi immediatamente, e dietro di essa comparve un uomo vestito con un giacca e cravatta recanti il logo del ristorante. Doveva essere una sorta di cameriere predisposto solo a servire quella sala.
L'uomo fece lo stesso segno di riverenza col capo che Chang aveva ricevuto dall'uomo sul pianerottolo poco prima: «Buonasera, signor Chang.»
«Buonasera, Chen.», rispose l'altro, entrando in quella che sembrava una sorta di piccola anticamera alla sala principale, che doveva trovarsi oltre la tenda davanti a loro «Cortesemente, vuoi annunciarmi agli ospiti.»
«Certamente.», disse l'uomo, accompagnando la sua voce con un altro segno di reverenza del capo.
Quindi si mosse per andare nella stanza che si trovava aldilà della tenda. Poco dopo si sentì la voce del cameriere da dietro la tenda: «Signori, il signor Chang in persona vorrebbe incontrarvi.»
«Il signor Chang in persona?», disse la voce di un uomo «Ma certo, lo faccia venire pure.»
Il cameriere tornò nell'anticamera dopo pochi istanti, e lasciò la tenda aperta per Chang. Mentre la attraversava, quest'ultimo si fermò davanti al cameriere e gli indirizzò con un cenno del capo: «Grazie Chen. Adesso puoi lasciarci soli per qualche minuto. Ti chiamerò, se avrò bisogno di te.»
Chen assentì silenziosamente, e lasciò andare la tenda, non appena Chang l'ebbe completamente attraversata.
Si ritrovarono in una stanza dal gusto elegante e raffinato, dalla cui finestra si abbracciava una bellissima visuale sulle luci della città. A Joe non sfuggì che le pareti erano adornate con riproduzioni di alcune famose illustrazioni di Hokusai.
In mezzo alla stanza, ovviamente il tavolo da pranzo, al quale sedeva una coppia di persone, un uomo e una donna, entrambi sulla cinquantina e vestiti con eleganti abiti occidentali. Chang si avvicinò a loro adagio e quindi si fermò, accennando un breve inchino: «Buonasera signor ministro.», disse rivolgendosi all'uomo, e quindi si voltò verso la donna «Signora Yuang, la trovo più bella ogni volta che la vedo.»
La donna sorrise, accompagnando il gesto con un cenno del capo: «Lei è un adulatore, signor Chang, oltre che il miglior cuoco di tutta la Cina.», disse «Anche stasera era tutto perfetto. Anche questa sala è molto bella. Abbiamo cenato altre volte qui da voi, ma non ero mai stata in questa sala.»
Chang sorrise: «Sì, signora. Questa, come le altre, è dedicata a un mio caro amico.»
La donna sorrise: «Già, mi ha raccontato la storia. E vedendo le pitture alle pareti, presumo che questo suo amico provenga dal Giappone.»
«Sì, è così.», annuì Chang.
«E a cosa dobbiamo la sua visita, signor Chang?», intervenne l'uomo.
Chang si voltò verso di lui, esitando qualche decimo di secondo: «Dovrei discutere una cosa importante con lei, signor ministro, se me lo consente.»
«Ma certamente, signor Chang.», rispose l'altro. Quindi fece un cenno alla donna.
Quest'ultima si alzò in piedi: «Presumo che vogliate rimanere soli.», disse «Ne approfitto per rinfrescarmi.»
La donna prese la sua borsetta e si incamminò verso l'uscita della sala con una camminata sicura e elegante, nonostante i lunghi e sottili tacchi a spillo delle scarpe che calzava.
Entrambi gli uomini aspettarono che fosse uscita dalla sala e di sentire il rumore della porta che si chiudeva. Quindi fu l'uomo al quale si rivolgeva come “ministro” a parlare.
«Che cosa ha di tanto importante da discutere con me, signor Chang.», chiese, sistemandosi sulla sedia con quel fare sicuro delle persone che sanno di essere potenti, e amano che la gente intorno a loro lo sappia.
«Ho bisogno del suo aiuto, signor ministro.»
L'uomo strinse gli occhi su Chang, aggrottando la fronte: «Volentieri... ma... io sono ministro degli esteri. Come potrei aiutarla?»
Chang aspettò qualche istante, prima di rispondere: «Li Shao Ping.»
Le rughe sulla fronte dell'uomo si fecero ancora più profonde: «E chi sarebbe?», chiese scuotendo leggermente la testa.
«E' un pescivendolo, la cui moglie è morta circa due anni fa, schiacciata da un pilone di cemento in uno dei cantieri per le olimpiadi. La madre di Li è molto ammalata, e ha bisogno di cure costose e continue. E lui è l'unico ad essere rimasto al mondo per prendersi cura di lei, come della figlioletta di 4 anni.»
Il “ministro” scrollò le spalle: «Una famiglia sfortunata.», disse «Questo ragazzo ha per caso... bisogno di un posto di lavoro?»
Chang scosse la testa: «Sì, anche. Ma a quello posso pensarci io...», rispose «... Ma prima dovrebbe uscire di prigione.»
L'espressione sul volto del ministro passò dalla perplessità a un principio di irritazione: «Se si trova in prigione ci sarà un motivo.», disse «Di che cosa è accusato esattamente questo suo... conoscente?»
«L'accusa ufficiale credo sia “intralcio all'ordine pubblico”.», rispose Chang «La verità è che ha soltanto difeso un uomo da un poliziotto... diciamo un po' troppo ligio al dovere e che ha travisato un po' la situazione.»
Il ministro sorrise, di un sorriso beffardo. Appoggiò i gomiti sul tavolo e giunse le mani davanti a sé: «E questa... “verità”... da dove salta fuori?»
«Ho visto la scena con i miei occhi.», rispose Chang, risoluto, ma senza alzare la voce «Ero al mercato, per comprare le materie prime per il mio ristorante. L'uomo che Li ha difeso era stato erroneamente accusato di furto ad uno dei banchi della frutta. Il poliziotto che è intervenuto non ha voluto credergli, e quando l'uomo ha cercato di fare spiegazioni, muovendo le mani semplicemente come si fa quando si parla, il poliziotto ha voluto intendere quello come un gesto di minaccia, e ha preso a picchiarlo con il suo manganello. Li si è frapposto fra lui e l'uomo, prima che quest'ultimo fosse letteralmente ammazzato a bastonate.»
Il ministro restò qualche secondo in silenzio. Poi allargò le braccia: «In ogni modo non saprei come aiutarla.»
«Sono convinto che una sua buona parola può fare molta differenza.», rispose Chang «Quel ragazzo rischia la pena di morte, signor ministro. Solo per aver difeso una vita umana.»
Il ministro sospirò: «E ci sono altri testimoni a supporto della sua versione?»
Chang sorrise: «Anche ci fossero, lei sa benissimo che non parleranno.»
«E perché lei lo fa?»
«Perché io non ho niente da perdere...»
«Ha il suo ristorante.», disse il ministro, sorridendo di nuovo in quel modo beffardo.
Chang sorrise. Un sorriso che Joe riconosceva. Stava per fregare il suo interlocutore: «Mi scusi, signor ministro, ma io non avevo finito.», disse «Stavo per dire che... io non ho niente da perdere, ma lei sì.»
Il volto del ministro divenne un misto di sorpresa e irritazione: «Che cosa vorrebbe dire?»
Chang si prese qualche minuto, per farlo cuocere al punto giusto, come avrebbe fatto con un bello e succulente pezzo di carne: «Diciamo che sono per caso entrato in possesso di alcune fotografie che la ritraggono in... atteggiamenti diciamo... equivoci... con una persona che non è sua moglie. E non è nemmeno una donna, anche se lo sembra.»
La sorpresa era scomparsa dal volto ormai pallido del ministro, e l'irritazione si era trasformata in collera allo stato puro: «Lei sta mentendo.»
Chang scosse la testa, con quel suo modo fintamente stupido, che sembra voler prendere in giro se stesso, e in realtà vuole canzonare il suo interlocutore: «»No, no, no. Signor ministro, io non mento mai. Forse è lei che non ricorda bene.», disse «Le posso dire anche dove è successo: a Londra, durante la sua recente visita ufficiale. Vuole che le ricordi il nome dell'hotel e il numero della stanza. Se vuole... so anche il nome... diciamo della persona che era con lei quella sera.»
Il ministro sembrava un vulcano sul punto di esplodere, più che di eruttare. Nascondeva la bocca dietro le mani adesso chiuse e strette come in un pugno, ma si poteva comunque indovinare la sua rabbia dai lineamenti distorti dall'ira e dal senso di impotenza a cui non era evidentemente abituato.
«Ah, dimenticavo.», continuò Chang «Non sono l'unico a essere in possesso di quelle foto. E le altre persone che le hanno si trovano al di fuori di questo paese, e hanno precise istruzioni di inoltrarle agli organi di stampa, nella malaugurata ipotesi che mi succeda qualcosa. Non credo che ci farebbe una bella figura, come ministro degli esteri.», disse. Poi si prese ancora qualche secondo «Tra l'altro le assicuro che potrei trovare il modo di farne avere qualche copia a sua moglie. E ai vertici del partito, che non credo gradirebbero... Non pensa anche lei? In fondo...»
«Basta. Va bene.», sibilò il ministro.
Chang lo guardò fintamente sorpreso: «Mi scusi, non ho sentito cos'ha detto.»
Il ministro sospirò, esasperato: «Va bene, signor Chang.», disse scandendo ogni singola sillaba «Metterò una buona parola per il suo amico. Sono sicuro che, come dice lei, si è trattato di un tragico equivoco.»
Chang sorrise, stavolta in modo sincero, tradendo un po' della gioia che lo pervadeva: «Ero sicuro che un uomo magnanimo come lei avrebbe compreso.», disse «E non le dispiacerebbe... mettere subito quella buona parola. Magari con una telefonata? Può usare quello del ristorante, se vuole.»
Il ministro scosse la testa, e si mise una mano in tasca, estraendone uno di quei telefoni portatili che Ivan aveva chiamato “cellulari”: «Non si preoccupi. Ho il mio.»
L'auto si lasciò il traffico della città alle spalle, per avventurarsi in una zona di case popolari, ognuna uguale all'altra. Chang guardava quella parte di Pechino immersa nella notte scorrere fuori dal finestrino, mentre parlava al telefono, anche lui utilizzando uno di quei cellulari, con una persona dall'altra parte del mondo, Una persona che anche Joe conosceva bene.
«Non saprò mai come ringraziarti abbastanza, Bretagna.», disse «Hai fatto un lavoro eccellente. Potresti fare un favore al mondo dell'arte liberandolo di un pessimo attore quale sei, e riciclarti come fotografo scandalistico... Ah, siamo quasi arrivati. Adesso ti devo lasciare... Grazie ancora. Ti devo una cena... Come dici? Ti sei stancato di mangiare cinese? Sarà, ma io vedo che apprezzi sempre di buon gusto la mia cucina... Allora buonanotte, vecchio mio... Ah già, da te è pomeriggio... Che è successo?! Cos'era quell'urlo?!... Ti sei scottato con l'acqua per il tè?! Sei il solito disadatto cronico. Alla prossima.»
Joe “seduto” accanto a lui sul sedile posteriore di una lussuosa Mercedes Benz, stava ridendo, immaginandosi la scena fin troppo bene. Poi gli sopraggiunse il pensiero che verosimilmente l'attore di quella scena potesse essere diverso da come lo ricordava, e sentì quasi la malinconia avvolgere i suoi sentimenti e quel fuggente istante di ilarità.
Cercò di soffocare quell'idea di disagio, facendo sì che l'appassionato di automobili che era in lui tornasse ad apprezzare le finiture e gli interni di quel salotto mobile nel quale si trovava, e le sue meraviglie tecniche, come quel “navigatore” che pochi istanti dopo avvertì che erano giunti a destinazioni.
«E' qui, signore?», chiese l'autista.
«Sì, accosta qui, grazie.», rispose Chang «Non stare a disturbarti a venirmi ad aprire la porta. Faccio da solo.»
«Va bene, signore.»
Si trovavano in un hutong, sul quale si affacciavano le caratteristiche sehiyuan.Chang si gurdò intorno ed emise un sospiro colmo di malinconia.
«Signor Chaaaaaaaaang.»
Chang non fece in tempo a voltarsi, che una bambina gli saltò letteralmente addosso, aggrappandosi alla sua veste.
Il voltò di Chang si illuminò: «Ehi, Pai, stai attenta, così mi fai cadere.», disse alla bambina «E così rischi di far cadere anche la frutta caramellata che ti ho portato.»
La bambina spalancò gli occhi colmi di gioia: «Davvero hai portato la frutta caramellata?»
Chang sorrise, mostrandole il contenitore che aveva in mano: «Certo. E' qui dentro.»
«Signor Chang.»
Chang si voltò verso l'uomo che l'aveva chiamato e che si stava avvicinando a lui: «Li, vedo che ti hanno già liberato. Sono stati di parola.»
Gli occhi dell'uomo divennero lucidi: «Io non so come ringraziarla, signor Chang. Non doveva esporsi così.»
Chang scrollò le spalle: «Ma io non mi sono esposto. Ho solo fatto ciò che era giusto.», disse «Vuoi sapere come ringraziarmi. Pensa a tua figlia, e a tua madre. E passa dal mio ristorante domattina. Potrei trovarti qualcosa da fare.»
«Ma... come potrei aiutarla?»
Chang scrollò le spalle: «Io non ho più l'età per andare al mercato. Mi sa che sto rimbambendo. Da domani mi accompagnerai al mercato, e sarai il mio consulente per l'acquisto del pesce. Chi meglio di te?»
L'uomo rimase in silenzio qualche secondo: «Signor Chang...»
«Guarda che ti pagherò bene. Quindi ti aspetto domattina presto. Gli ingredienti migliori sono quelli che finiscono sempre per primi sui banchi.», disse Chang, mettendogli in mano anche il contenitore con la frutta caramellata dentro «Intesi?»
Li annuì, sorridendo: «Va bene. Grazie, signor Chang.»
«Allora buonanotte, Li.», disse all'uomo. Poi si voltò verso la bambina, che adesso stringeva un lembo dei pantaloni del padre, e gli accarezzò il capo con una mano «E anche a te, piccola Pai.»
La bambina sorrise, aggrappandosi ora alla gamba del padre: «Buonanotte, signor Chang.»
Chang restò a contemplarla ancora qualche secondo. Quindi si diresse di nuovo verso la sua auto.
Joe fece per seguirlo, ma sentì una mano prenderlo per la spalla.
«E’ ora di andare, Joe.»
«Ivan!», esclamò l’altro «Dove diavolo eri finito!?»
Ivan gli fece quel suo sorriso ieratico, che sembrava quasi prenderlo in giro: «Ma io non ti ho mai perso di vista, Joe.», disse «Ricordi? Devo accertarmi che tu non ti metta in mente strane idee.»
Joe strinse le labbra, nel ricordare la sua non-libertà. Quindi volse lo sguardo verso Chang, che ormai stava risalendo in auto. Un pensiero gli balenò nella mente, che non aveva ancora realizzato fino ad allora: quella poteva essere forse l’ultima volta che lo avrebbe visto, e così sarebbe potuto essere per tutti gli altri.
Quel pensiero gli serrò lo stomaco come due tenaglie. Guardò Ivan, chiedendosi se avesse intuito la sua angoscia. E rendendosi allo stesso tempo conto che non c’era niente da chiedersi. Ovviamente l’aveva intuita. Ovviamente aveva anche preso nota della sua domanda. Un’altra domanda che non avrebbe mai avuto il coraggio di esprimere. Cercò di convincersi che il motivo era perché sapeva che Ivan non gli avrebbe mai risposto. Ma era solo l’ennesima menzogna a se stesso. La verità era che aveva semplicemente paura della risposta.
«L’importante è che stia bene.», disse con un filo di voce, rendendosi conto della fragilità del suono che gli usciva dalle labbra. Come una corda che sta per spezzarsi.
Ivan gli concesse ancora qualche secondo, mentre le luci posteriori della Mercedes di Chang erano ormai soltanto dei puntini rossi che si perdevano nella notte di Pechino.
5
Non era la Monument Valley, con la sua terra rossa, e i rilievi di roccia scolpiti dal tempo e dagli elementi. Quel posto non aveva niente in comune con quel luogo, eppure poteva altresì essere lo scenario di un qualunque film con John Wayne, o diretto da Sergio Leone. Era un alternarsi di radure brulle e macchiate di erba, con alture irregolari, sullo sfondo di piccole mese frastagliate e grigie, disegnate dagli elementi atmosferici e dal tempo.
Il sole batteva sulla pietra, esaltando i colori del paesaggio come la tavolozza di un pittore. E un cavallo galoppava sulla distesa d'erba, guidato da un ragazzo, poco più che ventenne a giudicare dall'aspetto.
«Narsimha, avanti. E' ora di tornare a casa.»
La voce risuonò potente nella radura e il ragazzo fermò il suo cavallo, che nitrì, come a voler protestare per essere stato costretto tanto improvvisamente a fermare quel gesto di correre per cui era nato, e che gli era avvinghiato nell'istinto.
«Ma è ancora giorno.», protestò il ragazzo, girando il suo cavallo verso il suo compagno di cavalcata, rimasto in lontananza.
«No, non lo sarà per molto.», rispose l'altro.
«Ma volevo arrivare almeno fino al fiume!»
«Tra poco verrà a piovere.», rispose l'altro «Muoviti.»
Il ragazzo alzò gli occhi contrariati al cielo, azzurro tanto da sembrare finto: «Ma se c'è il sole, e neanche uno straccio di nuvola!», protestò, restando poi in silenzio, in attesa di una risposta che non arrivò mai e che lo indusse a voltarsi, per vedere il suo compagno ormai lontano «Ehi, Geronimo! Ma mi stai ascoltando?!»
Ma l'altro aveva già ripreso la strada verso casa, e non fece nemmeno segno di voltarsi alle parole di protesta del ragazzo, che ormai conosceva fin troppo bene l'uomo da sapere di non avere altra scelta che seguirlo. E per raggiungerlo dovette mandare il cavallo al galoppo per qualche decina di metri.
«Almeno mi vuoi spiegare come fai a dire che tra poco verrà a piovere?!», chiese il ragazzo, quando lo raggiunse sulla radura brulla ed erbosa che stavano attraversando.
Geronimo restò impassibile e in silenzio qualche istante, tanto che Narsimha, così lo aveva chiamato, sembrava già essersi rassegnato all'idea che non gli avrebbe risposto.
«So che pioverà.», disse infine l'uomo, laconico e sintetico come era sempre stato.
Il ragazzo lo fissò per qualche istante, per poi scrollare le spalle e scuotere la testa: «E magari te l'ha detto una qualche divinità.»
Lo sguardo di Geronimo rimase impassibile al tono ironico della voce del ragazzo, come se stesse solo elaborando le parole, estrapolandole da ogni elemento superfluo: «Magari un giorno riuscirai a sentirla anche tu.»
«Che cosa? Ah!» il ragazzo scosse la testa, sconsolato: «Certo, come no... La natura!»
Geronimo non rispose, né sembrò notare l'occhiata torva e ironica del ragazzo
«E' vero che ci azzecchi sempre, ma secondo me tiri a indovinare.», disse quest'ultimo, ancora più ironico «E stavolta hai toppato di brutto.»
Anche stavolta Geronimo non rispose, ma fermò improvvisamente il proprio cavallo e alzò appena la testa, come se volesse afferrare un odore o un suono, nell'aria secca dell'Arizona.
«E adesso che ti prende?», chiese Narsimha, fermando a sua volta il proprio cavallo «La natura ti sta parlando ancora?»
«Ssst!»
Geronimo alzò una mano, a significare ulteriormente la sua richiesta di silenzio, ma non fece un suono, alzando lievemente il capo e stringendo gli occhi. Il ragazzo contrasse il viso in una smorfia, ma restò in silenzio come gli chiedeva l'uomo.
«Non cambia mai, eh?»
Ivan scosse il capo alla domanda di Joe: «A volte, ti confesso, stupisce anche me.»
Joe scrollò le spalle: «Beh, sei un essere umano anche tu, allora.», disse rendendosi conto di parlare quasi sottovoce, come temesse di rovinare il silenzio richiesto da Geronimo.
Improvvisamente quest'ultimo fece partire a trotto veloce il suo cavallo, dirigendosi verso una fitta radura di alberi e muovendosi così inaspettatamente che il ragazzo insieme a lui ci mise più di qualche secondo a rendersene conto.
«Ehi, ma dove accidenti stai andando?!», disse il ragazzo , facendo partire il suo animale all'inseguimento.
Geronimo non rispose, e non si voltò nemmeno indietro, ma proseguì per il suo cammino, fino a inoltrarsi dentro il bosco, attraverso sentieri impervi e accidentati, controllando il suo cavallo con superba maestria in quel percorso brullo e pieno di ostacoli e insidie, dove sarebbe bastato niente, perché il cavallo mettesse uno zoccolo in fallo, rischiando di spezzarsi una gamba. Narsimha aveva molta più difficoltà a controllare il proprio, che, mal guidato, gli dava degli scossoni per mantenersi in equilibrio. E il ragazzo imprecava quando questo faceva sì che Geronimo si allontanasse troppo da lui, lasciandolo isolato in un territorio che evidentemente non conosceva ancora bene. Arrivarono nei pressi di un torrente, e il ragazzo imprecò per l'ennesima volta, quando vide Geronimo buttarvisi dentro, insieme al suo cavallo.
«L'acqua dev'essere gelata!», urlò, come se questo potesse servire a far cambiare idea a Geronimo «Non vuoi proprio dirmi dove stiamo andando?!»
L'altro continuò a ignorarlo, proseguendo la sua cavalcata e reinoltrandosi fra gli alberi, per poi rallentare il passo, cominciando a guardarsi intorno. O forse a cercare di captare suoni e odori. O tutte queste cose insieme.
«Ah, più ti conosco, meno ti capisco.», disse Narsimha, con qualcosa che assomigliava alla rassegnazione dipinta sul volto.
Ma non fece in tempo a finire la frase, che Geronimo aveva ripreso un passo più svelto, in un'altra direzione.
«Ma...?»
Narsimha rimase con la bocca socchiusa qualche istante, scuotendo la testa, forse ormai arresosi al fatto che qualunque domanda non avrebbe mai ottenuto risposta. Per cui si limitò semplicemente a far riprendere il cammino al cavallo, affinché seguisse Geronimo.
«Mi ricorda qualcuno.», disse Joe, guardando significativamente Ivan accanto a lui.
L'altro lo degnò appena di uno sguardo, continuando a spostare i loro corpi o qualunque cosa essi fossero in relazione ai movimenti di Geronimo.
Quest'ultimo si era adesso fermato, e il suo giovane compagno lo raggiunse pochi istanti dopo, lì dove il bosco si inerpicava su per un'altura, fino a diventare una parete di pietra lunga poco meno di un centinaio di metri.
«Siamo arrivati?!», chiese Narsimha, a dir poco spazientito.
Geronimo non gli rispose, ma un miagolio acuto alle spalle di Narsimha lo fece quasi sobbalzare sulla sella, tanto che il cavallo, innervosito a sua volta, si imbizzarrì e il ragazzo ebbe il suo daffare per farlo calmare e poter vedere la fonte di quel suono che l'aveva spaventato.
«Oh, merda!»
Geronimo scese dal suo cavallo, e cominciò ad avvicinarsi lentamente al leone di montagna che aveva miagolato e che ora mostrava loro i denti aguzzi e affilati a quei due intrusi che invadevano il suo spazio.
«Ehi, ma sei impazzito?!», disse Narsimha, cercando di trattenere il suo cavallo, che continuava a muoversi innervosito, risentendo dell'influsso dello stato d'animo del proprio cavaliere «Quello ti sbrana. E poi sbrana me.»
«E' un cucciolo.», rispose Geronimo, continuando imperterrito «Ed è ferito.»
Narsimha spalancò gli occhi, notando forse solo in quel momento la chiazza rossa che si allargava sulla coscia della zampa posteriore dell'animale. Forse era per questo che non era fuggito e se ne stava fermo, mostrando le zanne e miagolando. Ma non c'era solo lui.
«E l'altro?!», chiese Narsimha, atterrito.
«Dev'essere sua madre. Ed è morta.», rispose Geronimo, continuando ad avvicinarsi alla coppia di puma, che giaceva ormai a pochi passi da lui.
«Che cosa vuoi fare?», chiese il ragazzo, mentre lo guardava inginocchiarsi davanti all'animale vivo.
Era chiaramente atterrito, e allo stesso tempo ipnotizzato dalla sicurezza con cui Geronimo si muoveva incontro a quella belva. Come se quello che aveva davanti a sé non fosse un feroce animale selvatico capace di strappargli un arto con un solo morso, ma un qualunque gatto domestico, che proteggeva solo il suo cibo.
Geronimo allungò il braccio, e gli occhi di Narsimha si spalancarono nel terrore quando vide l'animale affondare le zanne nella manica di pelle della giacca dell'uomo. L'enorme nativo americano non fece una piega, né un accenno di dolore venne a contorcere quella sua impassibilità nel volto, che si mantenne fermo, a tenere i suoi occhi fissi in quelli felini e furiosi dell'animale.
Se Narsimha non l'avesse visto, probabilmente non avrebbe creduto a quello a cui assistette in quel momento. Le mascelle del puma, a poco a poco, allentarono la loro presa, fino a riaprirsi, e a lasciare libero il braccio di Geronimo, su cui solo la pelle lacerata della giacca mostrava un segno visibile di quanto appena successo.
Geronimo continuò a fissare l'animale negli occhi per qualche secondo, e poi si mosse, per andare a controllare l'altro puma, che giaceva inerte accanto al cucciolo. Come aveva supposto, si trattava di un'esemplare femmina di leone di montagna, ed era ormai morta, come lasciava supporre il suo collo completamente macchiato di sangue fuoriuscito dal foro di un proiettile che doveva aver preso in pieno la giugulare. Forse partito dallo stesso fucile che aveva ferito la zampa di quello che doveva essere il suo cucciolo, che Geronimo tornò a esaminare.
«Non avrà più di dieci mesi.», disse, mentre a controllare la ferita sulla coscia della zampa posteriore.
Il puma ormai sembrava aver capito di potersi fidare di quell'enorme essere umano che lo toccava con fare esperto, e se ne stava fermo e impassibile, come un gatto accarezzato dal suo padrone.
«Non posso fare più niente per tua madre.», disse Geronimo, rivolgendosi alla bestia, come se potesse capirlo «Ma per te c'è ancora speranza, anche se hai perso parecchio sangue. Devi essere terribilmente debole.»
«Hai parlato più con quel puma adesso, che con me in un'intera giornata.», commentò Narsimha velatamente ironico, ma ancora visibilmente inquietato dalla vicinanza di Geronimo al leone di montagna e alle sue zanne «Che cosa vuoi fare adesso?»
In tutta risposta, Geronimo si alzò, con una facilità e un'agilità che dovevano sembrare sorprendenti per chi l'avesse ritenuto un comune essere umano della sua età e della sua mole, e si diresse nuovamente verso il proprio cavallo, sotto gli occhi ancora spalancati e ipnotizzati di Narsimha.
«Pensi di rispondere a una mia domanda, prima o poi?»
Geronimo rimase nel suo silenzio e si tolse la giacca di pelle, posandola sulla sella del suo cavallo, e quindi la camicia. I suoi muscoli guizzavano sotto la sua pelle tonica, a ogni piccolo movimento. E l'enormità dei suoi arti veniva ancora maggiormente esaltata dalla nudità. Sembravano i tronchi di due querce.
Joe non poté fare a meno di notare come il suo fisico imponente fosse ancora asciutto e privo della benché minima traccia di grasso o carne molle. Calcolò che Geronimo doveva avere intorno a una settantina d'anni ormai, ma, come Chang, ne mostrava qualche decina meno.
Ma non si stupì, come forse stava succedendo al ragazzo che Geronimo chiamava Narsimha, nel vedere che il braccio che il suo vecchio compagno aveva lasciato mordere dal puma non presentava nessun segno delle zanne affilate dell'animale, che ora seguiva i movimenti di Geronimo incuriosito e in attesa. Come un qualunque gatto domestico in attesa che il suo padrone gli porti da mangiare. Sembrava quasi che, se non avesse avuto la zampa ferita, avrebbe potuto alzarsi e andargli a fare le fusa.
Geronimo, incurante dello sguardo attonito del ragazzo che non riusciva a staccarsi dal suo braccio ancora incredibilmente integro, raccolse la sua borraccia d'acqua e la scorta di carne di bufalo salata che portava con sé, e si ridiresse verso l'animale.
Si accovacciò accanto a lui, e gli mise davanti al muso la carne. Il puma la annusò un paio di secondi nella sua mano, che la lasciò poi cadere a terra, dove l'animale cominciò a mangiare, tenendo i pezzi di carne con le zampe anteriori e strappando i bocconi con i denti, mentre Geronimo gli puliva la ferita utilizzando la propria camicia imbevuta di acqua. Poi l'uomo controllò il foro di entrata del proiettile, agendo su di esso con le proprie mani e solo allora una smorfia gli contrasse il viso.
«E' grave?», chiese Narsimha, usando un tono di voce che tradiva il suo timore di parlare, ma anche la sua nascente preoccupazione per la sorte del felino.
Geronimo restò in silenzio ancora qualche secondo, continuando ad analizzare la ferita dell'animale: «Dovremo portarlo con noi.»
Narsimha spalancò di nuovo gli occhi: «Cosa?!»
«Non posso estrarre il proiettile qui.», disse Geronimo, facendo a brandelli la propria camicia con la stessa facilità con cui avrebbe strappato un foglio di carta e cominciando a fasciare con i pezzi di essa la zampa dell'animale «E se lo lasciamo qui, morirà. Non può muoversi con questa ferita, ed è molto debole. Probabilmente è scappato, quando l'hanno colpito, e muovendosi ha peggiorato le cose e ora non riesce a camminare. Si sarà trascinato fino a qui, per stare accanto alla madre.», sospirò «Ma adesso non riesce più nemmeno in quello.»
«Ma non puoi portarlo a casa!», protestò Narsimha «E' pur sempre un animale selvatico, nato per uccidere! Non sai come può reagire!»
«Nessun animale è nato per uccidere.»
«Cosa?!»
Geronimo sembrò ignorarlo, finendo di fasciare l'arto del puma. Poi si tolse il cappello e vi versò dentro un po' d'acqua dalla sua borraccia, avvicinandolo poi al muso della bestia, che aveva già divorato la carne e che tirò fuori la lingua e bevve avidamente, sotto lo sguardo di Geronimo, che mostrava una dolcezza rara per lui, ma non sconosciuta agli occhi di chi lo conoscesse un po' più che superficialmente.
«Se anche riuscirai a guarirlo, poi non potremo certo tenerlo in casa!», protestò nuovamente Narsimha.
«Non ho nessuna intenzione di tenerlo con noi.», disse Geronimo, accarezzando la testa dell'animale, che continuava a bere «Una volta guarito lo lascerò libero. Deve tornare alla sua vita selvatica.»
«Non hai detto che è un cucciolo?», chiese il ragazzo.
Geronimo annuì, versando altra acqua nel cappello: «Avrebbe dovuto stare con sua madre ancora molto a lungo.», rispose, anticipando anche la successiva domanda del ragazzo «Forse aveva appena cominciato a insegnargli a cacciare.»
«Quindi non è ancora pronto a vivere da solo. E anche se guarisce, se lo lascerai libero, molto probabilmente morirà.», disse Narsimha «A cosa serve allora?!»
«Non siamo noi che dobbiamo decidere, Narsimha.», disse Geronimo, alzandosi in piedi e mettendosi il cappello al collo, tenuto dal suo laccio «Sarà a natura a decidere.»
Narsimha sospirò: «E cosa c'è di naturale in quello che stai facendo? Non stai forse andando contro natura?»
Geronimo sembrò non ascoltarlo, e si rimise il cappello ormai vuoto al collo, lasciandolo pendere dietro di sé come un cappuccio. Si alzò e raccolse il puma con le sue braccia, come se fosse stato davvero un gattino, anziché un grosso felino selvatico di qualche decina di chili. Ed effettivamente, in braccio a quell'uomo enorme, quel puma sembrava davvero poco più grande di un gatto.
«Porta tu il mio cavallo a casa, per favore.», disse Geronimo.
Narsimha spalancò gli occhi: «Che cosa? Non vorrai portarlo in braccio fino a là? Sei grande e grosso, ma sei un essere umano anche tu... anche se a volte dubito di questa cosa.»
Geronimo aggrottò la fronte, senza rispondere.
«Ehi, ehi. Non te la prendere.», disse Narsimha, scuotendo le mani «Stavo scherzando. Era una battuta, ok? Il senso dell'umorismo... si chiama così.»
Il volto di Geronimo si distese, tornando alla sua naturale impassibilità: «A piedi posso prendere una scorciatoia che i cavalli non possono percorrere.», disse «Ci vediamo a casa. E muoviti. Verrà a piovere.»
«Ancora con questa sto...»
«Vai!»
Narsimha rimase per qualche secondo con le labbra ancora dischiuse nella sua protesta, soffocata dal tono che non ammetteva repliche utilizzato da Geronimo. Poi le serrò, scuotendo la testa, mentre si avvicinava al cavallo dell'altro: «Va bene! Come vuoi.», disse prendendo le briglie sciolte dell'animale «Ci vediamo a casa. Fa' attenzione.»
Geronimo non rispose, limitandosi ad aspettare che il ragazzo se ne andasse, prima di muovere il suo primo passo. Ma il puma, in quel preciso momento, emise un miagolio che sembrava quasi un lamento disperato.
L'uomo guardò l'animale che aveva fra le braccia, e poi la carcassa della femmina che lo aveva messo al mondo, e quindi di nuovo il cucciolo: «Non c'è più niente che possiamo fare per lei.», disse «Avrà sacrificato la sua vita, per salvarti. Non avrebbe voluto che tu morissi accanto a lei. Ma da animale libero.»
Geronimo riprese il cammino, arrampicandosi su per la collina con l'animale tra le proprie braccia, mentre il puma emise ancora due miagolii lamentosi, quasi in segno di ultimo saluto a colei che, fino ad allora, doveva essere stato il suo unico punto di riferimento nel mondo.
«Che cosa c'è?»
Joe aveva sentito la domanda di Ivan, ma ci mise qualche secondo prima di riuscire a staccare gli occhi dalla carcassa del puma, ormai rimasta sola ai piedi dell'albero: «Lo sai benissimo che cosa c'è.»
Ivan alzò le sopracciglia: «Hai detto che non vuoi che ti legga nel pensiero.»
«E tu hai detto che non puoi fare a meno di farlo.», gli ricordò Joe «Quindi, dimmelo tu che cosa c'è. A cosa sto pensando?»
Ivan sospirò: «Stai pensando a tua madre.»
Joe si limitò ad annuire, mentre si avvicinava alla carcassa del puma, per accovacciarsi accanto a lei. Non avrebbe mai finito di stupirsi di quanto fosse facile distinguere un corpo addormentato da uno morto. Quello flessuoso e un tempo agile di quel felino era ora contorto in una posizione innaturale a dir poco. Non c'era solo il foro del proiettile sul collo. A una visione più ravvicinata si potevano notare segni di denti.
«Deve aver provato a trascinarla via da qui...», commentò Joe «Ma in quelle condizioni...»
«Che tu ci creda o no, ti capisco meglio di quanto tu non pensi...»
«Lo so.», rispose Joe «Anche tu hai perso tua madre. Non l'ho certo dimenticato... Hai qualche ricordo di lei?»
Ivan strinse le labbra: «Mio padre mi aveva appena operato... quando... mia madre tornò per portarmi via... e mio padre la uccise. Ero in braccio a lei... il mio cervello era ancora... mezzo addormentato. Ho un vago ricordo del suo odore e... del suo volto.»
Joe accennò un sorriso, ma non c'era gioia in esso: «E' molto più di quello che ricordi io... di mia madre.», disse amaro «Ovvero, assolutamente niente.»
Ivan sospirò: «Ti confesso che... a volte preferirei non avere nessun ricordo.», disse «Perché questi sono legati anche al ricordo della sua morte. Come vedi... non sono esattamente nella posizione di essere invidiato.», sospirò «Mia madre è morta nel tentativo di salvarmi. Come questa femmina di leone di montagna ha fatto per il suo cucciolo.»
Joe lo fissò per qualche istante, per poi stringere le labbra nella sua malinconia: «Non intendevo dire che ti invidio.», disse, non avendo il coraggio di muovere il braccio verso la carcassa dell'animale, per la certezza che non avrebbe sentito niente sotto le sue mani. E la sgradevolezza dell'idea di quella sensazione «Però io non so nemmeno... se mia madre... sia morta, o sia viva. Se mi abbia abbandonato... o se sia rimasto orfano, in seguito alla sua morte. Almeno... se sapessi come è andata... potrei smettere di farmi domande.»
Geronimo aveva ragione quando aveva affermato che i cavalli non avrebbero potuto percorrere quella strada. Ma anche per un essere umano sarebbe stata un'impresa quasi impossibile, tanto più con un animale tra le braccia, e quindi senza l'ausilio di esse per mantenere l'equilibrio. Il sentiero era brullo, instabile ed estremamente irto, e ogni tanto anche Geronimo finiva per mettere un piede in fallo, anche se non faceva una piega, e continuava imperterrito per la sua strada.
Come aveva previsto, tra l'altro una decina di minuti dopo che era partito dal luogo in cui aveva raccolto il puma, si cominciarono a sentire i primi tuoni in lontananza, a preannunciare la pioggia che era arrivata puntuale di lì a poco. Questo rese il terreno ancora più instabile e melmoso, ma Geronimo continuò il suo cammino, imperturbabile, mentre grossi rivoli di pioggia scendevano dalla tesa del suo cappello e lungo la sua pelle, seguendo i rilievi formati dai suoi muscoli in tensione.
Con le gambe sporche di fango fino al ginocchio e i pantaloni e il cappello calato in testa ormai zuppi di acqua, era arrivato al piccolo ranch isolato che sorgeva all'interno di una radura erbosa.
Narsimha era giunto prima di lui a casa, e quando l'aveva visto comparire in lontananza, nella pioggia battente, era andato a prendere lui e l'animale ormai allo stremo con un carro. Geronimo aveva portato il puma in un piccolo fienile, dove lo stese su un pagliericcio su cui aveva steso una vecchia coperta di fattura indiana.
«Vai a prendere il mio coltello.», disse Geronimo, rivolto a Narsimha, accanto a lui, ma ancora a distanza di sicurezza.
«Quello con cui intagli il legno?»
Geronimo annuì: «Avrò bisogno anche di una dose di sedativo.», aggiunse «E quel fornello da campo che usiamo quando passiamo le notti fuori con la mandria.»
«Va bene.»
Narsimha si diresse velocemente verso l'uscita del fienile, lasciando Geronimo e il puma da soli.
«Si salverà?», chiese Joe a Ivan, osservando Geronimo che esaminava nuovamente la ferita dell'animale.
«Non lo so.», disse Ivan «Te l'ho detto. Io non predico il futuro.»
Geronimo si fermò di scatto in quello che stava facendo, e si voltò in quella che sarebbe stata la loro direzione. E per un istante Joe fu sicuro che li avesse visti, tanto che perfino Ivan ebbe un irrigidimento delle proprie membra e trattenne il fiato, come se temesse di poter essere sentito anche per quel flebile rumore.
Il nativo rimase immobile ancora qualche istante rivolto verso di loro, mentre nel silenzio che si era creato, il puma emise dei rantoli sordi e gutturali, che spinsero Geronimo a guardarlo.
«Li senti anche tu?», chiese l'uomo all'animale, tornando a guardare nella direzione di prima.
Joe si rese conto che stava anch'egli trattenendo il respiro, mentre sentiva gli occhi di Geronimo rivolti verso di lui sempre più penetranti, al punto che poteva quasi sentirli scavare nella sua anima. Ma in quell'istante il rumore della porta del fienile aperta da Narsimha riattirò l'attenzione del suo vecchio compagno che si voltò verso il ragazzi che si avvicinava a grandi passi verso di lui, con in mano ciò che gli aveva chiesto.
«Che cosa c'è?», chiese Narsimha a Geronimo, forse notando la sua espressione strana.
«Uhm?»
«Per quello che ti conosco... quella potrebbe essere la tua espressione del tipo “merda, ho visto un fantasma!”»
Geronimo scosse la testa: «Niente, niente di speciale.», disse «Mi è sembrato di sentire una voce familiare.», scosse nuovamente la testa «Ma non è possibile.», disse mentre preparava una siringa di anestetico.
«Ti starà mica venendo la febbre, con tutta la pioggia che ti sei preso? O forse sarà la stanchezza...»
Geronimo sospirò: «Probabilmente hai ragione.», disse, posando una mano sulla mascella del puma, mentre con l'altra gli somministrava l'anestetico.
Ivan sospirò, probabilmente di sollievo: «Fiuu... C'è mancato poco.», disse «Dimenticavo che Geronimo... è fuori dal comune. Devo stare più attento con lui.»
Joe lo fissò, per nulla stupito di quello che gli aveva appena sentito dire. Piuttosto era altro quello che gli premeva: «Sono davvero un fantasma, Ivan?»
Ivan voltò verso di lui i suoi occhi cerulei e ieratici, insieme a quel sorrisetto laconico e inespressivo: «Ti ho già detto che non posso rispondere a questa domanda, Joe.», disse, di nuovo con il tono di un padre che si rivolge a un bambino capriccioso e insistente.
«Io ho bisogno di saperlo, Ivan.», insisté Joe, con la voglia di prenderlo per il bavero e scuoterlo fino a fargli espellere la risposta di bocca. Ma si limitò a stringere le mani in due pugni «Che cosa è stato di me?»
Ivan lo guardò sospirando di nuovo, con uno sguardo velatamente triste e melanconico, che per un attimo Joe interpretò come la volontà pietosa di rispondergli, sentendo l'ansia di conoscere quella risposta, e allo stesso tempo rendendosi conto di temerla.
«Non posso risponderti, Joe.», disse infine Ivan, scuotendo la testa.
L'altro sentì l'impotenza e la collera fondersi nell'espressione che gli contorse il volto: «Ma perché?! Perché non vuoi rispondermi!? A cosa serve tenermi...?!»
«Io non “posso” risponderti, Joe.», lo interruppe bruscamente Ivan «Non c'entra niente la mia volontà! Non dipende da me!»
Joe sbuffò come un oni infuriato, cercando di calmare il suo respiro e se stesso e quella voglia irrefrenabile che aveva di prenderlo a pugni: «E da chi dovrebbe dipendere, allora?!», chiese «A chi dovrei chiedere delle risposte... in questo mondo?!»
Ivan strinse le labbra, andando a crepare per una rara volta quel suo volto impassibile e neutro: «Forse non sono le risposte il tuo problema.»
Joe spalancò gli occhi, senza saper interpretare se quello che sentiva era rabbia, impotenza, perplessità o un misto di tutte e tre: «Che cosa vorresti dire?», chiese esasperato «Vuoi finirla di parlarmi per enigmi e di prendermi in giro?!»
Ivan volse gli occhi verso Geronimo: «Calmati, o si accorgerà di nuovo di noi.»
Joe fu per protestare di nuovo, ma lo sguardo che Ivan gli rivolse aveva un che di irresistibilmente persuasivo e autoritario, che gli ricacciò le parole in gola e lo spinse a distogliere i propri occhi per spostarli su Geronimo. Che ora stava aspettando che la dose di sedativo facesse effetto e l'animale si addormentasse, mentre lui lo accarezzava dalla testa al collo con una dolcezza che sembrava impossibile poter essere espressa da quelle mani enormi che Joe sapeva in grado di spezzare l'acciaio.
«Come mai si fida così tanto di te?»
Gli occhi di Geronimo seguirono la voce di Narsimha, per poi tornare a guardare il puma, che ormai faceva sempre più fatica a tenere le palpebre aperte: «Perché sa che non gli voglio fare del male.»
Narsimha si strinse nelle spalle: «E come fa a saperlo?», gli chiese «Il suo istinto...»
«Il suo istinto gli dice che lui deve attaccare per due motivi.», lo interruppe Geronimo, mentre il movimento della sua mano sul pelo del puma si faceva sempre più lento, accompagnando la sua caduta nel sonno indotto dall'anestetica «Per fame e per difendersi. Loro interpretano la paura nell'uomo come l'intenzione di quest'ultimo di far loro del male. Nella loro logica, se non vuoi fare del male a nessuno, non c'è niente di cui tu debba aver paura... Fammi luce, per favore.»
Il puma si era ormai addormentato, e Geronimo prese il proprio coltello e lo fece arroventare sulla fiamma del fornello da campo che Narsimha gli aveva portato, mentre quest'ultimo faceva luce con una torcia.
«In fondo... non è molto diverso da me allora.», disse il ragazzo.
Geronimo alzò le pupille verso di lui, prima di togliere il coltello dal fuoco, con la lama ormai arroventata: «Un mio amico una volta mi disse che... a volte le azioni sbagliate sono giustificabili. Ma ciò non le rende meno sbagliate.»
Joe sussultò, riconoscendo le sue parole.
«Qualche vecchio saggio della riserva?», chiese Narsimha, con un'ironia offuscata dalla voce tremante che dette suono alle sue parole.
Geronimo affondò cautamente la lama nella ferita del puma, muovendola con delicatezza, fino a che non riuscì ad estrarne un proiettile di grosso calibro, che osservò alla luce della torcia: «No, un giapponese.», disse «Anche se... suo padre era probabilmente un americano di stanza in Giappone, dopo la guerra. Non l'ha mai conosciuto. In ogni modo... si vedeva che era per metà occidentale.»
«Da cosa?», disse «In città ho visto un sacco di... mezzi-jappo, e si riconoscono al volo.»
Geronimo lo guardò con una smorfia di disgusto: «Avrai visto un sacco di persone che avranno origini miste orientali e caucasiche.», lo corresse «Comunque era il colore dei capelli.»
Narsimha spalancò gli occhi, incuriosito: «Tutti i... mezzi orientali che conosco hanno i capelli neri.»
Joe sorrise amaramente: «L'ho sempre trovato beffardo anch'io.»
Geronimo annuì: «Sì... I suoi connazionali lo discriminavano proprio per quello. Per le sue origini miste.», disse, rigirandosi il proiettile fra le mani «E anche lui ne soffriva. Come te.»
Narsimha spalancò ulteriormente gli occhi, stavolta sorpreso: «Come sai che...?»
«Conoscevo tua madre.», rispose Geronimo, a quella domanda inespressa «Era la figlia di uno che viveva nella riserva. Un burbero e orgoglioso Apache, che non avrebbe mai accettato che sua figlia si innamorasse di un bianco. Come poi successe.»
Narsimha si inginocchiò accanto a lui, osservandolo mentre medicava la ferita dell'animale, apprestandosi a fasciarla e steccare l'arto perché non lo muovesse una volta risvegliatosi: «Non so praticamente niente di mio padre, se non che morì prima che io nascessi.», disse «So che mia madre tornò alla riserva... incinta di me, ma fu... ripudiata. E si ritrovò senza un posto dove andare...», i suoi occhi si spostarono sull'animale, e si strinsero nel tentativo di trattenere forse delle lacrime «Perché è ritornato da sua madre?... Il puma...»
«Per proteggerla e perché era il suo unico riferimento nel mondo.»
«Ma hai detto che in realtà è ancora piccolo e, se lo liberiamo, rischia di morire.», disse il ragazzo.
«Abbiamo fatto tutto quello che è in nostro potere per lui.», disse Geronimo «Adesso dipende da lui, e dalla natura.», si voltò verso il ragazzo «Non lo possiamo tenere con noi. Non è nato per essere prigioniero dell'uomo.», disse anticipando la sua domanda «Lo uccideremmo una seconda volta..»
Narsimha sospirò: «Ma a cosa è servito salvarlo, se poi bisogna mandarlo incontro a morte quasi certa?!», gli chiese, quasi urlando «Non è un modo di ucciderlo anche questo?!»
«Abbiamo risolto un errore commesso dagli uomini.», disse Geronimo, rigirando di nuovo il proiettile estratto dal puma nella sua mano, e porgendolo poi al ragazzo «Se anche morirà, sarà una morte dignitosa per lui. O magari potrebbe trovare una femmina che decida di fargli da madre e prendersi cura di lui fino a che non sarà completamente autonomo e indipendente. A volte succede. Ma se l'avessimo lasciato lì, sarebbe morto di fame o di sete, o dissanguato.»
Narsimha fissava il proiettile che adesso aveva in mano, e poi tornò a guardare l'animale addormentato: «Una cosa che non ti ho detto... è che anch'io restai insieme a mia madre... due giorni e due notti, prima che qualcuno sentisse la puzza e mi trovasse insieme al suo cadavere.», sospirò, mentre la sua mano andava ad accarezzare il manto del puma «Così mi ritrovai solo, intrappolato nella morsa degli affidamenti... Ma questa parte te l'ho già raccontata.»
«Non mi dai fastidio, se la racconti di nuovo.», disse Geronimo «Io sono un buon ascoltatore.»
Il ragazzo lo guardò, con uno sguardo malinconico e in qualche modo pieno di gratitudine: «Hai detto che conoscevi mia madre, ma... Ma come hai fatto a riconoscermi, in quel vicolo puzzolente di Phoenix? Ero ridotto a un barbone ubriaco e io non ti avevo mai visto in vita mia.»
«Nemmeno io.», disse Geronimo, finendo di steccare l'arto del puma e controllando la qualità del suo lavoro «Ma avevo visto quel ciondolo di legno che porti al collo.»
Narsimha spalancò gli occhi sorpreso, andando istintivamente a stringere nella mano il pendaglio.
«Tua madre lo vide mentre lo intagliavo, e le piacque così tanto che glielo regalai.», disse l'altro «Era solo una bambina, e io già un omone talmente grande e grosso, e burbero... che nessuno dei bambini si avvicinava a me. Avevano tutti paura.», scrollò le spalle «Tua madre no. Rimaneva per ore accanto a me, a guardarmi intagliare il legno. Così le regalai quel ciondolo.»
«E' l'unica cosa che mi è rimasta di lei.», disse «Insieme ai miei ricordi.»
«C'è chi non ha nemmeno quello.», disse Geronimo «Sai cosa vuol dire il tuo nome?»
Il ragazzo spalancò gli occhi, come colto sul vivo. Poi si posò le mani sulle ginocchia, stringendosi nelle sue spalle: «Sai bene che non ne ho la più pallida idea.», disse «E' stata mia madre a darmi questo nome, ma non mi ha mai detto che cosa volesse dire, e io non gliel'ho mai chiesto.»
«Leone tra gli uomini.»
Narsimha si voltò verso di lui, interdetto: «Cosa?»
«“Narsimha” significa “leone tra gli uomini”.», ripeté Geronimo. Poi accennò all'animale «In fondo è come se fosse un tuo simile.»
Il ragazzo deglutì di nuovo, tornando a guardare il leone di montagna, a cui probabilmente si riferiva anche il suo nome di cui ora conosceva il significato.
«Se la caverà?», chiese, fermando la sua mano lì dove il respiro gonfiava il ventre del puma.
«Adesso deve solo riposare e guarire.», disse Geronimo, alzandosi «Adesso andiamo a mangiare. E' stata una lunga giornata, e domani lo sarà ancora di più.»
Narsimha si alzò a sua volta, dando un'ultima occhiata all'animale che ancora stava mangiando: «Ashagoteh.»
Geronimo, che si era già incamminato, si voltò verso di lui, guardandolo con una lieve e rara espressione di sorpresa negli occhi: «Mi avevi detto che non conoscevi la nostra lingua madre.»
Narsimha annuì, quasi imbarazzato: «Ricordo solo poche parole.», disse, quasi imbarazzato «Vorrei impararne altre... Forse è troppo tardi?»
Geronimo scosse la testa: «No, non è mai troppo tardi.», disse «Comunque l'espressione esatta è “ahee-ih-yeh”.»
Il ragazzo strinse gli occhi perplesso.
«Quando vuoi ringraziare qualcuno, per qualcosa di importante o che hai particolarmente in considerazione, o che è più vecchio di te, per dirgli grazie la parola è “ahee-ih-yeh”.», gli spiegò Geronimo «“Ashagoteh” è un'espressione molto informale. Comunque, da domani comincerò a darti qualche lezione. Se conosci qualche parole, vuol dire che hai già le basi e questo renderà le cose più facili. Infatti la tua pronuncia è buona.», poi fece cenno verso la porta di uscita «Adesso andiamo. Lasciamo solo quel puma. Ha bisogno di riposo.»
Narsimha annuì, avviandosi verso l'uscita dell'edificio per raggiungerlo e poi uscire insieme a lui.
Joe non si sorprese di sentire una mano posarsi sulla sua spalla, e non si voltò nemmeno, sapendo bene di chi si trattasse: «E' ora di andare anche per noi, vero Ivan?»
«E' proprio così, Joe.»
L'altro annuì, osservando la porta della stalla ormai chiusa e volgendo i suoi occhi all'animale, che adesso sembrava addormentato, come un enorme gatto domestico e chiedendosi se la storia sua e di quell'animale non fossero più simili di quello che sembrava: «Ma non risponderai alla mia domanda, vero?»
Ivan comparve accanto a lui, frapponendosi fra i suoi occhi e il puma: «Non posso risponderti, Joe. Te l'ho detto.», gli disse «E' una risposta che dovrai trovare da solo. Non me lo chiedere più.»
Joe sospirò. Ma non per la collera o l'esasperazione. Era semplice e pura accettazione di uno stato di fatto che gli era impossibile cambiare: «Dove andiamo adesso?»
6
Il ragazzo avrebbe anche potuto avere talento, ma gli mancava quel poco che trasforma quel talento in qualcosa in più di un dono caduto dal cielo ed elargito ai più fortunati fra gli uomini. Il cosiddetto salto di qualità. D'altra parte era giovane, poco più che adolescente, e probabilmente inesperto. A vederlo a prima vista, sembrava caduto lì per caso. Ma una volta che saliva sul palco e cominciava a recitare la sua battuta, quel talento innato che aveva lo trasformava.
Ma, per l'appunto, gli mancava quel qualcosa che nel suo futuro avrebbe potuto fare la differenza tra il diventare un grande attore, o rimanere un eterno incompiuto, o più semplicemente un perfetto sconosciuto qualunque.
E questa sua mancanza era evidente a palese anche all'occhio inesperto di Joe, forse anche perché Great la faceva risaltare ancora di più, quando recitava la battuta al posto del ragazzo, per mostrargli come avrebbe dovuto fare e in cosa sbagliava: dalla gestualità all'uso, e alla tonalità della voce, e delle parole a cui essa dava suono.
«Avanti, prova ancora.», disse Great al ragazzo, dopo avergli fatto l'ennesimo appunto.
Il ragazzo sospirò, forse scoraggiato dal fatto che il suo maestro, per quanto lui si sforzasse, trovasse sempre e comunque qualcosa da ridire, su quello che faceva: «Non ne sarò mai capace.»
«Ma sì che ne sei capace.», gli disse Great, incrociando le braccia sul petto e inclinando la testa d'un lato «Mica si nasce con l'arte infusa.»
«Ho visto come lo faceva lei e ho visto come lo faccio io.», disse il ragazzo «Non c'è paragone.»
Great contorse il viso in una smorfia: «Ragazzo, ma la prima volta che hai fatto o che farai sesso con una ragazza, pensi di essere stato o di essere subito un amante impeccabile?»
Il ragazzo sussultò con tutto il corpo, arrossendo visibilmente: «Io...»
Great sospirò scuotendo la testa: «Hai appena iniziato.», gli disse.
«Ho.. ho appena iniziato?»
Joe rise, e Ivan con lui. Era evidente che il ragazzo pensava che Great si riferisse al sesso, piuttosto che alla sua carriera di attore. E forse era stato proprio questo l'intento di quella vecchia volpe inglese. Un modo come un altro per scaricare la tensione.
Anche Great rise, dopo aver mantenuto un volto impassibile per quasi mezzo minuto: «Non pretenderai di poter fare confronti fra te e il più grande attore che sia comparso sulla scena negli ultimi sessant'anni?»
L'altro strinse le labbra, sollevato forse che l'argomento non fosse la sua esperienza con le donne, ma anche più scoraggiato: «Ma io ho sempre avuto lei, come mio modello.», disse «Io ho cominciato... perché la ammiro. Ed è lei che cerco di imitare...»
«Stop!», lo interruppe brusco Bretagna, sottolineando la sua parola con un gesto della mano «Accetto con piacere l'ammirazione. Ma non l'imitazione.»
«Co... cosa?»
Great sospirò: «Ragazzo... “il mondo io lo tengo in conto solo per quel che è: un palcoscenico sul quale ognuno recita la parte che gli è assegnata”...»
«“Quella mia è triste.”», completò il ragazzo, accennando un sorriso.
Great sorrise a sua volta, ma le rughe di espressione rimasero serie: «Sì, ma più che altro... ognuno interpreta la propria parte a modo suo.», disse, scuotendo lievemente il capo «Non devi cercare di imitare qualcuno. Non è il “mio” Romeo, o il “mio” Antonio, o il mio “Amleto” o il “mio” Enrico IV” che devi cercare di imitare.», sospirò «Io ti faccio vedere come faccio io, per darti una traccia, uno spunto. Ma poi... devi trovare il “tuo” Romeo, o Antonio, o Amleto o chicchessia.», continuò battendogli il dito contro il petto «La magia della recitazione non sta nella parte in sé, nel personaggio. Ma nell'interpretazione. Se tutti cercassimo solo di imitare qualcuno... saremmo tutti copie. Dove sarebbe la fantastica unicità di ognuno di noi.», allargò le braccia, per ricomporle poi sul petto « Avanti, Michael, riprova.»
«Ma...»
«Avanti.», lo incitò Great, con un cenno del capo «Ti assicuro che non starei qui a perdere tempo con te, se non avessi un minimo di fiducia nelle tue capacità. Trova il “tuo” Romeo.»
Il ragazzo che Great aveva appena chiamato Michael, si voltò e alzò gli occhi verso un balcone improvvisato su una struttura di legno e tralicci, evidentemente provvisoria, in attesa della scenografia definitiva.
«Ti do un altro suggerimento.», disse Great, riattirando la sua attenzione «Prova a immaginare che su quel balcone», disse indicando la struttura «ci sia la ragazza di cui sei innamorato.»
Il volto del ragazzo prese il colore del fuoco: «Io non...»
«Oh, sì.», disse Great, annuendo «Non capisco perché voi giovani dobbiate sempre temere di ammettere i vostri sentimenti. Non c'è mica niente di male. Anzi, è la cosa più bella del mondo...»
«Non è come...»
«Com'è che si chiama... Masha, Misha...»
«Aisha...», lo corresse Michael, strascicando l'ultima sillaba, mentre stringeva i denti e l'espressione sul suo volto, nel rendersi conto di essere caduto come un pollo nella trappola che l'altro gli aveva teso.
Great stava sorridendo, compiaciuto e divertito: «Visto? Non era difficile.», disse. Poi la sua allegria si trasformò in serietà e apprensione, sulla scia di ciò che di simile stava succedendo sul volto del ragazzo «Che cosa c'è?»
Il ragazzo lo guardò, dischiudendo appena le labbra sullo slancio di quello che sembrava un istinto. Ma poi richiudendole e stringendole, mentre scuoteva il capo: «Niente...»
Great lo fissò per qualche istante, forse cercando il bottone giusto: «Sai... sono abbastanza esperto di... storie d'amore complicate.»
Michael accennò una risata, che però non modificò la malinconia che pervadeva i suoi lineamenti: «Qui non siamo a teatro, Sir Great.», disse «Intendo dire... questa è la vita reale.»
L'altro annuì in un modo strano, come se non fosse convinto: «Il mondo è solo un grande palcoscenico su cui ognuno recita una parte.», disse Great, inclinando la testa d'un lato «Lo abbiamo detto prima, no?»
«Sì, ma...»
«Comunque non mi riferivo al teatro.», continuò Great «La so anch'io la differenza tra qui,» disse, indicando con un dito la superficie del palco che calpestava «e là fuori.», concluse, puntando il dito verso un'ideale porta di uscita.
Michael restò qualche attimo interdetto, trovando poi il coraggio di formulare la domanda: «Esperienza personale?»
Great scrollò le spalle, annuendo: «In prima e in terza persona.», disse.
«Beh, questa non è forse così complicata.», disse Michael, sospirando «A suo padre non sto... “molto simpatico”, se così si può dire.»
L'altro strinse le labbra, in un'espressione incerta: «Differenze... “culturali” e di religione?»
«E' così scontato?», chiese il ragazzo.
Great alzò le spalle: «Aisha è un nome di origine araba.», disse «Non c'è bisogno di conoscere il mondo per saperlo. Londra basta e avanza.»
Il ragazzo annuì: «Pakistan.», disse, sospirando «Il padre non apprezza che lei abbia... amici “occidentali”. Figurarsi un ragazzo!»
L'altro sospirò, roteando la testa per guardarsi intorno, come a cercare le parole: «Non mi permetto di insegnarti niente, però... Ti direi di... prendertela con calma... prima di fare mosse avventate.»
Michael corrugò la fronte, sorpreso e forse un po' sconcertato.
«Sì, lo so che voi giovani... non avete la pazienza tra le vostre principali virtù.», riprese Great, scuotendo la testa «E non metto in dubbio i tuoi sentimenti per lei, e non ti dico di rinunciarci, sia ben chiaro.», disse «Ma sei ancora giovane, e facilmente entusiasmabile. Se... fossi tuo padre ti direi di prenderti il tempo di capire quanto siano profondi i tuoi sentimenti e se siano tali da... far sì che valga la pena che lei rischi tutto per te.»
«Però...»
«Però, per capirlo, dovrai frequentarla.», continuò Great, stringendo un occhio «Magari basta farlo con un po' di discrezione, e magari tutto si aggiusterà da solo... Magari scoprirete che non siete due persone che possano stare insieme, o forse il contrario.»
Il ragazzo restò in silenzio, nella sua perplessità, qualche istante. Fino a che sorrise e annuì: «Sì, credo di aver capito.», disse «Non ha tutti i torti.»
Great sorrise, annuendo a sua volta: «Su, adesso vai.», disse «Provaci ancora... », respirò, e chiuse gli occhi, per riaprirli subito dopo. Ma la sua espressione era già un'altra «“Come sei potuto venir qui, dimmi, e perché? I muri del giardino sono alti e difficili a scalare, e per te, considerato chi sei, questo è un luogo di morte, se alcuno dei miei parenti ti trova qui.”»
«Accidenti.», sussurrò Ivan «Non si può giudicare da una sola battuta, ma è una delle migliori Giuliette che abbia sentito in vita mia.»
Joe era rapito quanto lui, ma scosse la testa: «Ammetto di non aver mai vita un “Romeo e Giulietta” a teatro.»
«Strano. Pensavo che i balletti si tenessero a teatro.», rispose Ivan «Non ce n'è uno che è ispirato proprio a questa tragedia? Su base musicale di Prokofiev, se non erro.»
Joe non poté fare a meno di sentirsi irritato da quella battuta e dal suo tono ironico, ma non fece in tempo a rispondere a quella che sentì come una frecciata, e forse non era nemmeno pronto a farlo. E in ogni modo, non aveva voglia di discutere con lui.
La voce del ragazzo, ora rivolto verso il balcone fittizio, tornò a dargli una scusa per sviare la sua attenzione e lasciar perdere.
«Con le leggere ali d’amore ho superato questi muri, poiché non ci sono limiti di pietra che possono vietare il passo ad amore...»
«E ciò che amore può fare, amore osa tentarlo.»
Sia Joe che Ivan si voltarono verso la voce proveniente dalle loro spalle, al lato opposto rispetto alla loro posizione, così come fecero i due che erano sul palco.
«Scusatemi, non ho resistito.», disse l'uomo a cui essa apparteneva, scendendo gli scalini della piccola sala teatrale, fino ad entrare nel cono di luce, ed arrivare subito sotto il palco.
Gli occhi di Michael si spalancarono, come se non credesse a quello che essi vedevano: «Ma quello è...»
«Razza di canaglia!», disse Great, muovendosi velocemente per andargli incontro fino ad abbracciarlo «Che diavolo ci fai da questa parte della Manica?»
Il nuovo arrivato alzò le spalle, tutto ciò che Joe e Ivan potevano vedere di lui: «Sono a Londra di passaggio e ho pensato di venire a trovare il mio primo maestro.»
«Il suo primo maestro?», chiese Michael, passando gli occhi dall'uno all'altro.
I due si voltarono verso il ragazzo, che arrossì violentemente, forse imbarazzato nel pensare di essersi intromesso in una conversazione di cui non faceva parte.
«Sì, questo vecchio rimbambito è il mio primo maestro.», disse l'uomo appena arrivato, indicando Great «Ascolta i suoi consigli e arriverai lontano. Ma ho visto che sei già sulla buona strada.»
Il ragazzo arrossì ancora di più, mostrando un sorriso incerto: «Grazie, ma...»
«Aspetta un attimo.», lo interruppe Great, rivolgendosi all'altro con il volto contorto in una smorfia «Chi sarebbe il rimbambito?»
«Eddai, stavo scherzando.», rispose l'altro, dandogli una pacca sulla spalla.
Great lo guardò poco convinto, per poi rivolgersi al ragazzo: «Michael, ti dispiace se chiudiamo qui oggi?»
L'altro scosse la testa: «No, ma...», guardò l'ultimo venuto «Potrei chiederle un autografo, e magari una fotografia. O non ci crederanno mai, quando lo dirò a scuola.»
«Certamente.», disse, con un cenno del capo.
Michael non se lo fece ripetere una seconda volta, e corse a recuperare il suo zaino lasciato a un lato del palco, dal quale estrasse un quaderno e uno di quegli aggeggi che Ivan chiamava cellulari. Una delle cose che l'avevano stupito meno del mondo dove Joe era stato catapultato, anche se ancora gli sfuggiva perché quello che era fondamentalmente un telefono dovesse servire anche per fare fotografie. Non era la macchina fotografica in sé a renderlo perplesso. Operando anche in missioni di spionaggio, aveva avuto modo di vederne anche di più piccole. Era proprio il nesso tra fotocamera e telefono a sfuggirgli. Non riusciva a considerarle come due cose che potessero stare insieme.
Michael usò il suo telefono proprio per farsi la foto con lo sconosciuto, che, evidentemente, tanto sconosciuto non era. E non solo per lui, e poi si fece fare il suo autografo, prima di salutare e andare via, con un'espressione sul viso tale e quale a quella che avrebbe potuto avere se avesse incontrato il suo eroe. E forse era stato proprio così.
«Chi è quello, Ivan?», chiese Joe, tornando a guardare Great e lo sconosciuto, che ora, rimasti soli, stavano parlando fra di loro come due buoni vecchi amici.
«Uhm... un collega di Great.», rispose Ivan «Un attore. Anche se, dopo gli inizi a teatro, ha fatto fortuna nel cinema. Non mi stupisco che per quel ragazzo sia una specie di mito.»
Joe strinse gli occhi, a cercare di vedere meglio. Ma era troppo lontano, e riusciva appena a carpirne il profilo allungato. Eppure non ricordava di avere tante difficoltà, anche da distanze molto superiori. Perfino le voci dei due non gli giungevano così chiaramente, ora che le avevano abbassate, come se temessero che qualcuno li sentisse.
«Qui non funzionano le tue capacità cibernetiche.»
Si voltò verso Ivan, con gli occhi spalancati: «Come hai detto?»
«Scusami.», disse Ivan «Ti ho letto ancora nel pensiero. E' solo che non ti avevo avvertito che... in questo tuo stato, non funzionano i tuoi poteri di cyborg. Non è il tuo corpo a essere qui, ma il tuo spirito. E come tu ben sai, non c'è niente di meccanico in esso.», si alzò «Per questo ti sembra di vedere e di sentire peggio. Perché è effettivamente così. Ma forse te ne eri già accorto prima.», disse, facendo poi un cenno verso gli altri due «Avviciniamoci.»
Così dicendo, si avviò e cominciò a scendere le scale, che erano subito accanto alle poltrone dove si erano accomodati, in fondo a una delle ultime file della sala.
Joe si prese ancora qualche istante per metabolizzare il significato di ciò che Ivan gli aveva appena rivelato, guardandosi le mani e vedendole ora sotto una luce diversa. Gli venne in mente lo strano desiderio di avere in mano una sbarra di metallo per vedere se davvero non sarebbe stato capace di piegarla in due come se fosse fatta di gomma.
“Joe Shimamura è morto.”
Era la prima volta dopo tanto tempo che gli tornava alla mente quel pensiero. Inizialmente, quando aveva scoperto di non essere più un essere umano, ma una sorta di robot evoluto, a cui la scienza aveva dato il nome di cyborg aveva voluto credere che fosse davvero così. Che Joe Shimamura fosse morto, con tutto ciò che era significata la sua miserabile e inutile vita. In un angolo remoto del suo animo, forse ne era stato addirittura sollevato. Ma con il tempo aveva metabolizzato l'impossibilità di un'eventualità del genere. Con il tempo si era reso conto che Joe Shimamura non era affatto morto.
Joe Shimamura, o almeno i suoi ricordi, ciò che era stato come uomo e essere umano a tutti gli effetti, avevano continuato a vivere nitidi nella mente di un cyborg chiamato 009. All'interno del quale condizione meccanica e natura umana lottavano continuamente fra di loro, cercando al contempo di restare unite e tollerarsi in un equilibrio quantomai instabile e folle, nella sua contraddizione intrinseca.
Adesso, in quel momento, non c'era più il fardello della sua condizione meccanica e il suo perfetto corpo d'acciaio. Non esisteva 009. C'era solo Joe Shimamura, e la sua natura squisitamente e assolutamente umana e imperfetta.
“Eppure non sento la differenza.”
«Joe?»
Rialzò gli occhi, trovando Ivan di nuovo lì dove le scale erano alla sua altezza, come se non si fosse mai mosso. Egli gli fece un cenno verso le due figure di Great e del suo amico, che adesso stavano uscendo da una delle porte della sala, diretti chissà dove.
Si alzò e insieme a Ivan seguì i loro passi, giungendo all'esterno del piccolo teatro, e quindi fino a quella che sembrava una classica sala da tè londinese, a poco più di un isolato di distanza.
Great e il suo compagno si sedettero a uno dei pochi tavoli liberi, dato che era proprio l'ora in cui gli inglesi consumano la loro personalissima “cerimonia del tè”. Joe e Ivan rimasero a osservarli in disparte, rimanendo in piedi a un angolo della sala, ad appena qualche metro da loro.
Da lì Joe poteva cogliere più particolari del volto dello sconosciuto, anche se i lineamenti allungati e quasi delicati del volto dello sconosciuto. Un bel viso, per quello che poteva essere il suo giudizio. Su cui si incastonavano occhi affilati e scuri, come i suoi capelli neri di media lunghezza, né troppo corti, né troppo lunghi, accuratamente pettinati all'indietro.
«L'ultima volta che ti ho visto avevi i capelli lunghi un millimetro.» disse Great all'altro «Hai litigato con il barbiere, per caso?»
L'altro rise: «L'ultima volta che mi hai visto, avevo la parte di un militare.», gli ricordò.
Joe cercava di capire da dove venisse l'altro, ma il suo inglese era praticamente perfetto, per quanto si sentisse che non era la sua lingua madre. Ma non aveva nessuna inflessione particolare.
Aveva già capito che non era inglese quando Great gli aveva chiesto che cosa ci facesse “da questa parte della Manica”. Quindi... francese? Tedesco? Qualche altra nazione d'Europa. Nemmeno il suo aspetto aiutava molto a comprenderlo.
Ah, già certo Sai, com'è... a me non hanno mai chiesto di tagliarmi i capelli.», disse, mentre una cameriera si avvicinava a loro «Per me il solito Earl Grey.»
«Avete del tè Houjicha?», chiese l'altro alla cameriera.
La cameriera gli sorrise: «Certo.», disse «Volete anche qualcosa per accompagnare il tè.»
«Per me sarà sufficiente il tè, grazie.»
«Un po' dei vostri fantastici biscotti andranno benissimo.»,disse Great, congedandola. Poi si rivolse all'altro «Davvero ti basta il tè. Hanno dei dolci meravigliosi in questo posto.»
L'altro alzò le mani, scuotendo la testa: «Te l'ho detto.», disse «Sono a dieta ferrea.»
«Come vuoi.», disse «Che cosa hai in programma di bello?»
L'altro rise: «Mi spiace, non posso rivelarti niente.», disse «E' ancora tutto top-secret.»
Great scosse la testa, ridendo a sua volta: «Ah, il cinema.», disse «E' per questo che preferisco ancora il teatro. Ci sono meno segreti industriali.»
«Beh, anche tu hai recitato al cinema e mi sembra che ti piacesse.», disse «Ti ci diletti ancora, ogni tanto.»
Great alzò le spalle: «Sì, ma resto un uomo da palcoscenico.», disse «Mi esalto al contatto con il pubblico. E' la mia linfa.»
L'altro annuì, sorridendo: «A proposito, che ci fa un membro benemerito della Royal Academy in un teatrino di periferia?»
«Mi diverto.», rispose Great «Ho messo su una piccola compagnia di giovani. La maggior parte di loro rimarranno solo dei buoni attori dilettanti, parecchi si perderanno per strada ma... grazie...», disse con un cenno alla cameriera, che tornava con le loro ordinazioni, aspettando che le posasse sul tavolo e se ne andasse «Di alcuni di loro, ti dicevo, potremmo sentir parlare un giorno.»
«E quel Michael presumo che sia uno di essi.», disse «O non ti attarderesti a dargli ripetizioni private.»
«E' un po' grezzo e un po' ingenuo... ha qualche problema personale più grande di lui... come tutti gli aspiranti attori.», disse Great, giungendo le mani davanti al suo mento «Ma ha talento. Ma, come ogni persona dotata di talento, questo va... scovato all'interno del guscio, e portato alla luce. Un po' come Michelangelo faceva con i blocchi di marmo e la pietra.», prese la sua teiera e ne verò delicatamente il contenuto all'interno della propria tazza, aggiungendo poi due zollette di zucchero «Lui diceva che... non creava nulla. Ma si limitava a tirare fuori quello che la materia aveva già dentro di sé.», concluse, mentre portava la tazza al suo volto, limitandosi solo ad aspirarne l'odore «E tu, Ken, cosa mi dici? Ho saputo anche che hai rifiutato un ruolo di un certo rilievo qualche tempo fa?»
L'altro aggrottò la fronte: «Chi te l'ha detto?»
Great scrollò le spalle: «Ho le mie fonti, mio caro.»
Ken, così l'aveva chiamato, annuì: «E ti hanno anche detto che film era?»
L'altro sgranocchiò un biscotto, mentre si concedeva il tempo di pensarci: «No, questo non me l'hanno detto.»
L'attore più giovane sorrise annuendo: «Il prossimo Terminator.»
Great ebbe un sussulto sulla sua sedia: «Woah!», esclamò «Capisco che tu non l'abbia accettato.»
«Buon per Christian Bale.», rispose l'altro, versandosi il proprio tè «Per il resto me la cavo.»
«Tutto qui?», chiese Great, assaggiando il suo primo sorso di tè, e accompagnandolo con un altro pezzo di biscotto.
«Che cosa vorresti sapere?», gli chiese il suo commensale, incuriosito.
Great scrollò le spalle: «Non so... Come stai... Come stanno i tuoi... cose di questo genere.», disse «Insomma, amo queste genere di notizie sempre uguali.»
L'altro rise, posando la sua tazza fumante: «E' molto probabile che tu lo sappia meglio di me.», disse.
«Oh, capisco.», disse Great, mangiando l'altra metà di biscotto e accompagnandola con un altro sorso di tè «E tu? Ti sei deciso a mettere la testa a posto?»
L'altro aggrottò le sopracciglia: «Che cosa intendi dire?»
Great scrollò le spalle, guardandolo come se non capisse come facesse a non capire la domanda: «Sarebbe anche l'ora che tu ti sistemassi, non credi?»
L'uomo alzò gli occhi al cielo, come se non fosse la prima volta che qualcuno gli faceva un discorso del genere: «Non ti ci mettere anche tu.», disse «Avrò ventotto anni fra poco più di un mese. Sono ancora tremendamente giovane.»
«L'età è una questione tremendamente relativa, Ken.», disse «Non hai tutto il tempo del mondo. Sciupa il tempo, e il tempo sciuperà te.»
L'altro lo fissò per qualche istante, stringendo le labbra, mentre cercava di nasconderle con il bordo della tazza di tè.
«Problemi?», chiese Great.
Ken posò la tazza ancora fumante sul suo piattino, osservando l'altro per qualche istante.
«Dai, tanto oggi sono in vena di risolvere problemi di cuore.», disse «Sempre che lo siano veramente...»
«Qualcosa del genere...», rispose l'altro, quasi di colpo. Come se non aspettasse altro che un'occasione del genere per sputare fuori quella risposta «A volte... Sembra come non avere fiducia in me. Sai come si dice... Il cuore delle donne è come il cielo autunnale.»
Great bevve un lungo sorso di tè, prima di rispondere: «Beh, anch'io non mi fiderei di uno che si fa pizzicare con una diversa su ogni giornale scandalistico del globo terracqueo.», disse, posando la sua tazza sul tavolo e poi sfidando lo sguardo torvo che gli lanciò l'altro «Lo sai che ai nostri tabloid non sfugge niente. Sono i peggiori del mondo, e questo li rende i migliori sotto altri punti di vista.»
Ken lasciò evacuare un lungo respiro: «Lo so, ma non immaginavo che tu li leggessi, e che, soprattutto gli dessi credito.»
Great sorrise da un lato all'altro del volto: «Oh, io non li leggo. Mi ci cade l'occhio sopra.», disse «Però la gente li legge, e... parla.»
«Anche troppo.», assentì l'altro.
«Mica tutti ti conoscono bene come me.», disse Great «Equivocare è facile, e la versione peggiore di una persona è sempre la più gettonata. Perché permette di parlare male di lei. E la gente ama sparlare e pensar male. Non sai nemmeno quanto.», concluse, alzando le sopracciglia.
Ken sospirò, scuotendo la testa, mentre giocava con il liquido che faceva roteare nella sua tazza: «Comunque non è questo. Lo sa che per me non esiste nessun'altra...»
«Forse ha a noia il fatto che ancora tu non abbia reso pubblica la vostra relazione?», chiese «E' vero che hai solo ventotto anni suonati, ormai, ed è tanto che state insieme... Quanti sono... dieci anni?»
«Docici.», lo corresse l'altro.
Great spalancò gli occhi: «Dodici!?», ripeté, facendo poi un fischio tale, che Ken si guardò intorno, temendo che avesse attirato l'attenzione su di loro.«Allora è proprio vero che “gli uomini sono come l'aprile quando fan la corte e come dicembre quando sono accasati.”»
«Ma non sai parlare senza citare Shakespeare?», gli chiese l'altro, esasperato.
Great lo ignorò: «Dodici anni insieme e dici che non è ancora ora di sistemarti? Fossi in lei, mi sarei stancata da un pezzo di aspettare.», disse, sospirando «Ma forse non mi dovrei stupire... »
«Che cosa intendi dire?», chiese l'altro perplesso, e forse intimorito da quella che sarebbe stata la risposta.
Great alzò le spalle, scuotendo la testa: «Potrebbe anche pensare che... un famoso attore come te si... imbarazzi a rivelare che sta con la stessa ragazza sconosciuta e comune con cui stava ai tempi del liceo.»
«Lei non è affatto comune.», lo corresse.
Great alzò le mani: «Sì, lo so.», disse «E tu sai che cosa intendessi davvero.»
L'altro sbuffò, annuendo: «Comunque, no, non è nemmeno questo.», disse «Il fatto di... aver nascosto la mia relazione con lei, che tu ci creda o no... l'ho fatto per proteggerla.», strinse le labbra «E a quanto pare, ci sono riuscito molto bene. Nessuno sa di lei.»
«Sì, lo so.», disse Great, divorando un biscotto «Proteggerla dalle luci della tua ribalta.»
«Già.», convenne Ken «Lo trovi così sbagliato?»
«Dipende.», disse lui «Le hai mai chiesto se volesse essere protetta? O te lo ha mai detto?»
L'altro lasciò cadere le parole in mezzo a loro, così a lungo che sembrava di poterle sentire rimbalzare sul tavolo come palline di gomma, che lentamente perdevano la loro inerzia, fino a fermarsi: «Non lo so... Cioè, no...», disse l'altro, bevendo un sorso del suo tè «Io l'amo, ma... forse non riesco a dimostrarglielo come vorrei... O forse si è davvero stancata di condividermi con il resto del mondo...»
«Glielo hai mai detto?», lo interruppe l'altro, mangiando un altro biscotto con un solo boccone.
Ken rimase con le labbra dischiuse sulla sua frase interrotta, mentre l'altro lo fissava, muovendo vistosamente la sua mascella nel gesto di masticare, quasi in modo provocatorio.
«Detto cosa?»
Great sbuffò, mandando giù un altro sorso di tè: «Che la ami.», rispose allargando le braccia, e restando in silenzio in attesa di una risposta. Che non sopraggiunse «Non glielo hai mai detto, vero?»
L'altro mosse la testa in un segno di diniego, stringendo le labbra nel suo senso di colpa
«Non ti preoccupare. Non è importante, come stai pensando.», gli disse Great, sorprendendolo «Conosco chi... non ha mai avuto il piacere di sentirselo dire in tutta la sua vita. E nonostante questo... non ha mai avuto dubbi.
Ken scosse lievemente la testa: «E allora perché...?»
Great sorrise enigmatico: «Perché... Sono i gesti, i fatti, le azioni quelle che rimangono.», disse «Puoi anche non dire a una persona che la ami, per tutto il tempo che state insieme. Ma se sei capace di dimostrarglielo... questo vale più di milioni di parole che domani il vento avrà già portato via.»
L'altro sorrise: «Certo, hai ragione.»
«Però fa piacere sentirselo dire, ogni tanto.», riprese Great, intrecciando le proprie mani davanti al suo naso «Soprattutto se non sono parole vuote.»
Ken annuì, stringendo le labbra: «Sai, sarei potuto tornare a casa, stasera, ma... ieri abbiamo litigato così furiosamente che... ho pensato fosse meglio... e forse ora...»
«Gli incendi vanno fermati subito, prima che trasformino tutto in cenere. La cenere... vola via.», lo interruppe, con quella che era probabilmente l'ennesima citazione incamerata nella sua memoria.
«Lo so ma...»
L'altro sospirò: «Cosa accidenti ci fai qui con me?», gli chiese «Ok, questo locale serve il miglior tè di Londra, la mia compagnia è ottima, ma... non vale così tanto. Torna a casa.»
L'altro rimase perplesso qualche istante, per poi scoppiare a ridere mentre scuoteva la testa: «Oh, cielo. Hai sempre voglia di scherzare. Ormai...»
«Io non sto affatto scherzando.», disse Great, scuotendo la testa e con l'espressione più seria che Joe gli avesse mai visto in volto. Tanto che si chiese se stesse recitando «Prendi il primo volo e va' da lei. Ormai, da qui a casa tua è come andare nel parco dietro casa. E in ogni caso, non credo ti manchino i fondi per prenotare un volo privato, eventualmente.»
L'uomo davanti a lui lo guardò, forse considerando seriamente il suggerimento che quel suo vecchio maestro gli aveva appena dato. Ma poi scosse la testa: «Io non so se...»
Great scosse la testa: «“Ciò che amore può fare, amore osa tentarlo.”», ripeté, con un'enfasi da attore consumato qual era «Ma siamo e restiamo noi i suoi strumenti. Strumenti con una volontà.»
«Forse non sono bravo a suonare, come credevo.»
«Forse ti devi solo accordare.», gli disse Great, alzando le sopracciglia «Su, vai da lei o... prenderò le tue sembianze e ci andrò io a parlare.»
L'altro aggrottò le sopracciglia, quasi sconvolto: «Lo faresti davvero?»
Great sorrise: «Lo sai che mi sono preso una caterva di pugni una volta, solo per far riappacificare due testoni orgogliosi. Prendendo prima le sembianze di uno e poi dell'altro.», gli disse, mostrando un sorriso enigmatico, ma significativo «Puoi giurarci che lo farei.»
Joe sussultò, ricordando bene l'episodio a cui si riferiva Great. Ovvero a quando era riuscito a far riappacificare Jet e Albert, uscendone anche malconcio. Ma ancora più sorprendente trovò il fatto che l'altro non sembrasse assolutamente stupito da quella rivelazione, come se sapesse già tutto della condizione di Great, e anche del fatto specifico in sé.
«Tra l'altro... cosa rischio?», continuò Great «Di prendermi un paio di schiaffi o... di concludere piacevolmente la serata.»
Lo sguardo dell'altro si infiammò: «Tu non lo faresti mai...»
«“Io oso fare tutto ciò che può essere degno di un uomo, chi osa di più non lo è.”», disse Great «La carne è debole, Ken. E non credere che sia troppo vecchio. Ti assicuro che funziono ancora alla perfezione.», concluse alzando le sopracciglia.
Ken lo fissò per qualche istante, ancora allibito. Poi, lentamente, il suo stupore si trasformò in un'ilarità che lo portò a ridere, mentre si sfilava dalla tasca uno di quei cellulari, sullo schermo del quale armeggiò con due mani.
«Che cosa stai combinando con quell'affare?», gli chiese Great, incuriosito, mentre finiva la sua tazza di tè.
«Controllo gli orari dei voli.»
Great si mise a ridere, mentre dava un'occhiata al suo orologio: «Ce ne dovrebbe essere uno dal London City alle 7.25.», disse «Se ti muovi, potresti anche farcela.»
«Ora conosci anche gli orari dei voli a memoria?», chiese ironico l'altro.
«Solo quelli che mi interessano.», rispose Great.
«Appena prenotato.», disse l'altro, sorridendo «Adesso devo scappare.»
Great annuì: «Ovviamente.», disse «Porta i miei ossequi.»
«Sarà fatto.», disse Ken, alzandosi e dandogli una pacca sulla spalla «Alla prossima.»
«Alla prossima.»
Great alzò la mano, in segno di ultimo saluto, e lo seguì con gli occhi, fino a che non fu uscito fuori dal locale. Poi sospirò e scosse la testa, mentre andava a cercare qualche banconota dentro il suo portafoglio, per poi lasciarle sul tavolo: «Ah, i giovani... “Se non ricordi che Amore t'abbia mai fatto commettere la più piccola follia, allora non hai amato.”»
Si alzò e reindossò il proprio soprabito e il suo cappello sulla testa nuda, prima di uscire dal locale e ritrovarsi in strada, immerso nel grigio e umido autunno londinese, melanconico e affascinante come sempre, anche se “terribile per le ossa”, come aveva sempre detto lui.
Camminò adagio, per un paio di isolati, con l'aria di uno che ha tutto il tempo del mondo a sua disposizione, mentre attorno a lui passavano innumerevoli persone che avevano l'aria di chi stesse per perdere il treno, imprigionate nella frenesia delle loro vite. A un certo punto, Great si fermò davanti al negozio di un fruttivendolo, sostando a osservare la merce esposta all'esterno con aria interessata.
«La posso aiutare, signore?»
Great alzò gli occhi verso la giovane ragazza dai tratti medio-orientali che era apparsa sulla soglia del negozio: «Queste mele sembrano ottime.», disse indicando i frutti che stava osservando «Ne potrei avere una decina?»
«Certamente.», disse la ragazza, raccogliendo un sacchetto di carta da un contenitore.
Great si fece da parte, per dar modo alla ragazza di raccogliere i frutti, e intanto continuava a squadrarla: «Tu devi essere... Aisha.», disse, inclinando la testa d'un lato.
La ragazza alzò gli occhi, sorpresa, squadrandolo. Poi il suo volto si illuminò: «Oh, ma certo. Lei dev'essere... quel famoso attore.», disse «Michael mi ha parlato di lei.»
Great sorrise: «Sì, anche lui mi ha parlato di te.»
La ragazza sorrise, sul suo volto dalla pelle di ambra, contornato da lunghi capelli neri e ondulati, raccolti in una coda di cavallo: «Davvero?», chiese «E che cosa le ha detto?»
Great dette un'occhiata furtiva all'interno del negozio, prima di tornare a guardare la sua interlocutrice: «Oh, in realtà gli ho dovuto strappare le parole con le pinze dal fondo della gola.», disse «Sai, “so resistere a tutto, tranne che alle tentazioni”, e una di esse è impicciarmi dei fatti degli altri. E' nella mia natura.», sorrise «Ma mi ha detto che... tuo padre non vede di buon occhio il vostro rapporto.»
La ragazza alzò gli occhi verso di lui, rimanendo con una mela in mano: «Le ha detto così?», gli chiese, con un'aria quasi rassegnata.
Great annuì: «Sì, ma... a dire il vero, non mi sembrava un'interpretazione molto convincente.», disse «Non è ancora così bravo a recitare, da riuscire a ingannare una vecchia volpe del palcoscenico come me.»
L'altra accennò una risata, mentre metteva un altro paio di mele dentro il sacchetto, richiudendolo e stringendolo poi forte fra le mani: «Signor...»
«Great.», disse «Il mio nome d'arte è Great Britain. Ma mi chiami pure Great. Credo che nemmeno Sua Maestà sappia il mio vero nome, benché mi abbia nominato baronetto.», contorse il viso in una smorfia «Se lo sa, lo ha già dimenticato. E comunque non è importante.»
La ragazza rise, ma la sua ilarità svanì subito, spentasi in un'espressione assorta: «Sir... Great.», disse «Quando mio padre venne qui dal Pakistan, sapeva a malapena qualche parola d'inglese. E' sempre stato... un buon musulmano. Ma non è “quel tipo” di musulmano... Quelli di cui la gente ha paura. Non so se mi intende...»
Great scosse le mani: «Non sono il tipo che fa di tutta l'erba un fascio, Aisha. Non devi spiegarmi la differenza. So riconoscerla e... ho imparato molto tempo fa che... i pregiudizi sono solo bende che mettiamo ai nostri occhi.», disse «E il più delle volte servono solo a nasconderci quelle verità... che preferiamo ignorare. Ci è più comodo,è più facile... O semplicemente perché è complicato e destabilizzante smettere di credere in qualcosa in cui si è creduto così tanto a lungo. O a cui ci hanno fatto credere. Ma...», scrollò le spalle «Come mio solito, finisco con il divagare.»
La ragazza accennò un sorriso: «No, ha centrato perfettamente il punto.», disse «Da quando è qui, mio padre è rimasto un buon musulmano. Ma ha fatto tutto quello che era possibile per integrarsi e... far sì che anche noi ci integrassimo.», annuì, accennando una specie di sorriso malinconico «Come vede...», continuò passandosi idealmente una mano sui capelli «Non indosso lo hijab, e nemmeno le mie sorelle. Mia madre lo indossa, ma è una sua scelta. Non sono promessa sposa di nessun uomo sconosciuto della comunità o in Pakistan, e non mi è mai stato impedito di avere amici “non musulmani”. Anzi, i nostri genitori ci hanno sempre... incoraggiati a interagire con gli altri e a passare sopra le differenze. E certo... ammetto che non so come reagirebbero se dicessi loro che mi piace un non musulmano. Ma ora come ora...», scrollò le spalle «Non è un problema a lungo termine, perché... non credo che Michael sia... intenzionato a darci una possibilità.»
Great aggrottò la fronte, turbato, ma non sorpreso da quelle parole: «Certo, è antipatico da dirsi, ma è innegabile che occorra andarci con i piedi di piombo... in certe situazioni.», disse «Eppure... non mi sembra tu gli sia indifferente.»
La ragazza scosse la testa: «Non credo di esserlo.», disse «Ma forse... la paura che ha di suo fratello, ora come ora, è molto più forte di quello che prova per me.»
Stavolta il volto di Great si era contratto in una smorfia: «Suo fratello.. Già...»
La ragazza strinse le labbra: «Che cosa sa di Michael?»
Great scrollò le spalle: «A dirti il vero, poco o niente.», disse, scuotendo la testa «E' un ragazzo estremamente chiuso e riservato. Ermetico. So solo che... sì, ha un fratello ed è orfano di padre. Ma non conosco i particolari. Non ne parla mai o... cambia discorso, quando questo ci cade sopra.»
Aisha sospirò: «Quindi non sa com'è morto suo padre?»
Great strinse le labbra: «Gli attentati del 7 luglio. Si trovava in un convoglio della metropolitana... in quel... maledetto giorno del luglio del 2005», disse, scuotendo la testa «E suo fratello adesso ce l'ha con la vostra gente.»
Aisha annuì: «E' diventato una sorta di neonazista convinto che... noia siano tra le cause di tutti i mali del Regno Unito.», disse «E non le nascondo che... a volte mi sembra che anche Michael abbia pensieri del genere.»
Great sospirò: «Io lo vedo solo a teatro e... beh, difficilmente parliamo dei suoi problemi personali.», disse «E' molto triste tutto questo. E tragico.»
Aisha annuì: «Già, è così.»
«Ho molti amici non britannici, e sono i miei migliori amici.», disse Great, inclinando la testa d'un lato, ridendo «Pensa, ho anche un amico americano con cui tra un po' mi capirei meglio se parlassi in sanscrito. Hanno un modo di parlare l'inglese a dir poco terrificante.»
Aisha rise di nuovo.
«Però con loro ho imparato che... se i popoli riuscissero a raccogliere... il meglio dalle altre culture...», sospirò «Il mondo sarebbe un posto migliore dove vivere, e l'umanità sarebbe molto più... ricca. Non da un punto di vista materiale... o non solo quello... Ma soprattutto spirituale.»
La ragazza annuì: «E' quello che ho imparato anch'io, vivendo qui.»
Great sorrise: «Allora... “Imparerai che le vere amicizie vanno crescendo nonostante le distanze. Che non importa quello che si ha, bensì chi si ha nella vita. Che i veri amici sono la famiglia che noi abbiamo scelto. Imparerai che non dobbiamo cambiare gli amici se siamo disposti ad accettare che gli amici cambino. Ti renderai conto che potrai passare bei momenti con il tuo miglior amico facendo qualsiasi cosa oppure nulla, solo per il piacere di sfruttare la sua compagnia.”»
Lei parve colpita: «Allora è proprio vero che lei conosce Shakespeare a memoria.»
L'altro annuì, e sorrise, ma non di compiacimento: «Sì, ma... non ho mai capito il senso di quel passo, il vero senso di quel passo... fino a che non ho... incontrato questi miei amici.» accennò al sacchetto ormai chiuso che ella teneva in mano. «Quanto ti devo per quelle mele?»
La ragazza scosse la testa, porgendogli il sacchetto: «Per oggi gliele offro io.»
Great prese il sacchetto di mele dalle sue mani, e lo alzò, in segno di ringraziamento: «Allora a buon rendere.»
«Parlerà a Michael di questa nostra conversazione?»
L'altro scrollò le spalle: «Non so se ne vale la pena.», le disse «Come, per quello che mi hai raccontato, non so se valga la pena che... tu ci stia dietro, in quel senso almeno.»
La ragazza sospirò: «Credo di essere giunta alla stessa conclusione molto tempo fa.»
Great sorrise: «Sai... che cosa stiamo preparando adesso? Insieme a Michael e agli altri?»
«Il “Romeo e Giulietta”.», rispose lei.
L'uomo annuì: «E' l'opera di Shakespeare che preferisco.», disse «Racconta l'essenza dell'amore, senza se e senza ma. Qualcosa che... se ne frega dei limiti, degli ostacoli e delle convenzioni. Una forza che semplicemente osa tentare ogni cosa che gli sia possibile, per realizzarsi. Fino a sfidare la morte.», scosse la testa «Ma se esso non ti dà... la forza di superare... quei limiti, forse non è veramente lui. Forse non è... amore.»
Aisha accennò un sorriso malinconico: «A me piace il teatro... ma è finzione, Sir Great. Resta finzione.», disse «Mi chiedo se possa esistere un amore così... nella realtà. Capace di superare tutti gli ostacoli.»
«Oh, sì che può esistere.», disse, alzando poi il sacchetto «Grazie. Se mi piaceranno... ripasserò volentieri.»
L'altra restò interdetta, per poi sorridere, quasi imbarazzata: «Si figuri.», disse «Sono sicura che ripasserà. Quindi... alla prossima.»
«A presto, allora.», rispose lui, avviandosi di nuovo per la sua strada.
Joe fece per seguirlo, ma sentì una mano bloccarlo per la spalla, e non si voltò nemmeno, conscio a chi appartenesse: «E' ora di andare, Ivan?»
«Già.», rispose il suo cicerone, facendo un passo per mettersi accanto a lui «E' ora di andare.»
«La diversità fa ancora... così paura... in questo secolo»
Era strano usare quell'espressione.
Ivan si voltò a incontrare i suoi occhi, e di nuovo gli mostrò quel suo sorriso ieratico e magnetico: «Certe cose non cambiano mai, Joe.», disse «Credi che... se noi nove non avessimo trovato qualcosa che ci rendeva simili, più di quanto fossimo diversi, saremmo diventati amici?»
Joe strinse le labbra, voltandosi di nuovo a guardare il suo vecchio amico inglese, che era ormai diventato una figura lontana che si stava per perdere all'orizzonte: «No.», disse, scuotendo la testa «Io odiavo perfino me stesso. Ancora prima di... diventare un cyborg.»
«Io non ho mai creduto che tutti gli uomini siano nati uguali.», disse Ivan, guadagnandosi lo sguardo perplesso di Joe, che egli andò a cercare con i suoi occhi di ghiaccio «Io credo che ciò che veramente può far sì che gli uomini vivano in pace, in eterno, non sia l'uguaglianza. Ma il rispetto.», raccolse un profondo respiro, alzando gli occhi verso il cielo di una tonalità grigia e malinconica «Il rispetto che porta ogni singolo individuo ad accettare che possa esserci qualcuno diverso da lui. A partire da quello che gli piace mangiare a colazione, fino ad arrivare a razza, cultura e religione.»
Joe lo fissò per qualche istante, e poi tornò a guardare avanti a lui, senza più riuscire a distinguere la figura di Great. Sentiva una grossa malinconia pervadergli l'animo e sentiva che non era solo la consapevolezza che quella sarebbe potuta essere l'ultima volta in cui i suoi occhi avrebbero visto il suo amico attore. Anzi, era ormai quasi certo che si trattasse dell'ultima volta. Ma non era solo questo a riempirlo di un'angoscia rassegnata. C'era qualcos'altro, che non sapeva definire. Un misto di emozioni troppo variegato e eterogeneo, per poterle riconoscere a una a una.
7
«Ehi, capo, siamo quasi arrivati.», disse l'uomo alla guida del camion «Svegliati.»
L'altro, seduto sul sedile del passeggero, con le braccia incrociate sul petto, aprì gli occhi a quel richiamo in quella calata strana, che mostrava come quella lingua fosse stata acquisita dal camionista molto dopo la sua infanzia. In quel momento l'autoarticolato stava passando proprio accanto a un'uscita dell'autostrada.
«Michendorf.», lesse a voce alta il passeggero.
«Mi ha detto di svegliarla qui.»
«In realtà non stavo dormendo.», rispose l'altro «Ma grazie lo stesso, Tarik.»
«Si figuri, signor Heinrich.»
«Albert.»
L'uomo chiamato Tarik si voltò verso il suo passeggero: «Mi scusi?»
«Albert.», ripeté l'altro, voltandosi verso di lui «Ti ho detto un centinaio di volte di chiamarmi Albert. E tu ti ostini a chiamarmi “signor Heinrich”.», scosse la testa, mentre guardava il mondo passare fuori dal finestrino «Mi fai sentire più vecchio di quanto già non sia.»
Tarik rise: «Pagherei per arrivare alla sua età in forma come lei, signor...»
Albert si voltò di scatto, a fulminarlo con gli occhi.
«Albert.», si corresse l'altro «Mi scusi.»
«... nel gruppo G, il Porto ha vinto a Kiev 2-1, mentre il Fenerbahçe ha pareggiato 0-0 contro l'Arsenal...»
«Ah, è stata dura ieri sera.», disse Tarik, scuotendo la testa, riferendosi evidentemente a quello che aveva appena detto la radio, riportando evidentemente risultati di calcio «Ma è stata una buona partita.»
Albert si voltò verso di lui: «Tifi per il Fenerbahçe?»
«Hep Destek Tam Destek.», disse Tarik, sorridendo e scandendo ogni parola con il movimento ritmico della mano chiusa a pugno «Sa cosa vuol dire?»
«“Supporto devoto e continuo”... o qualcosa del genere.», rispose Albert, con Joe seduto nello spazio dietro di lui, che istintivamente fece altrettanto.
Un flash gli passò nella mente in quel momento, e si tramutò in una domanda che avrebbe voluto fare a Ivan. Ma quando si voltò verso il suo compagno di viaggio, rannicchiato lì accanto, lo trovò che sembrava quasi dormisse e pensò che forse non era il caso di disturbarlo. Magari quei continui viaggi nello spazio fisico e temporale lo stancavano, e stava davvero riposando in quel momento. Conoscendolo, si era quasi stupito che un uso così intenso dei suoi poteri non lo avesse portato ben prima nel mondo dei sogni.
O anche quello era soltanto un sogno?
«Lei conosce il turco?», stava chiedendo Tarik, sbigottito.
Albert scrollò le spalle: «Qualche parola.», mentì «Può essere utile. Soprattutto per sapere che non stiate parlando male di me, quando parlottate fra di voi.»
Tarik rise, scuotendo la testa: «E pensare che mio figlio Ejder non ne vuole sapere.», disse «Oh, lo conosce e da bambino lo parlava. Ma ora si rifiuta di farlo.»
«E' un peccato.», disse Albert, fissando oltre il parabrezza, attraverso il quale era ormai ben riconoscibile il profilo di Berlino in lontananza «Non si dovrebbe mai dimenticare da dove si è venuti... e le proprie radici.»
L'altro scrollò le spalle: «Ho smesso di litigarci da tanto tempo, ormai. Sa, i ragazzi di oggi...», disse, scuotendo la testa «Comunque nessuno parla male di lei, signor Albert. Glielo posso assicurare.»
L'altro si voltò verso di lui, con sguardo interrogativo: «Davvero?»
«Intendevo dire... fra noi... turchi, che lavoriamo per lei.», si spiegò l'altro «Lei ha dato lavoro a tanti di noi.»
«E' perché costate meno.», disse l'altro.
Tarik sorrise, scuotendo la testa: «Ma se ci paga come gli altri.»
Albert si limitò a guardarlo, senza rispondere, mentre le sue pupille roteavano verso la radio, che ancora parlava di calcio.
«Stasera, invece, in Europa League, impegni in trasferta per Schalke e Hertha Berlino, rispettivamente contro Racing Santander e Benfica...»
«Se avessero giocato in casa, sarebbe anche potuto andare a vedere la partita.», riprese Tarik.
Albert contorse il viso in una smorfia: «Perché sarei dovuto andare a vedere quei rammolliti dell'Hertha?»
Tarik sembrò preso in contropiede: «Lei non è di Berlino? Pensavo che...»
L'altro annuì: «Sì, ma non sono mai stato tifoso dell'Hertha.», disse «Eisern Union!»
Tarik lo guardò perplesso: «Mi scusi... credevo...»
Albert alzò una mano, nel gesto di allontanare le sue parole: «Non ti devi scusare.», disse «Stiamo solo parlando di calcio.», poi si voltò verso di lui, stringendo gli occhi già sottili e ancora naturalmente freddi come il ghiaccio, sotto le sopracciglia «In che anno sei venuto in Germania, Tarik?»
L'altro si voltò al suo indirizzo, per poi tornare a guardare a strada,: «Avevo 17 anni quando mio padre venne qui.», ricordò «Era il 1990. La Germania era già un paese unito, era appena caduto il muro. Ma ammetto di non saperne molto di... come fosse prima.», disse «Soprattutto ad est.», lo guardò con la coda dell'occhio «Lei è... da lì che viene?»
Albert sorrise, tornando a guardare fuori dal finestrino, per poi seguire con gli occhi una bisarca che passò loro accanto, per poi rientrare sulla loro corsia, davanti a loro: «Oh, il calcio è una delle cose più semplici da spiegare, di quell'epoca. Ma è esemplificativo.», disse «Prima del muro, l'Hertha era la squadra di Charlottenburg, della borghesia. Parte ovest... E io vengo da una famiglia di operai. Vivevamo a Köpenick, proprio dove è nata la Union. La parte est.», sospirò, probabilmente in balia dei suoi ricordi «Quella sbagliata. Köpenick è stata una città indipendente, fino al 1920, quando fu creata la Grande Berlino. Allora divenne un quartiere della città. Ma non è questo il punto.», disse «Dopo l'erezione del muro, l'Hertha rimase la squadra dell'ovest, e ha tentato per anni di... condurre una normale esistenza calcistica nei campionati dell'ovest, con le ovvie difficoltà del caso. Nella DDR Oberliga, d'altro canto, molte squadre erano espressione delle autorità del tempo. A Berlino, in particolare c'erano la Vorwärts, che era la squadra dell'esercito e che nel 1971 si trasferì a Francoforte sull'Oder, e la Dinamo, che era la squadra della Stasi.»
Tarik alzò le sopracciglia, continuando a guardare la strada: «Immagino che... essere la squadra della Stasi avesse i suo vantaggi.»
«E' un eufemismo.», rispose Albert «Ti racconto questa. I campionati della DDR furono riformati nel 1954. L'anno prima era stata la Dinamo Dresda a vincere il campionato. E... sai cosa successe?»
Tarik scosse ovviamente il capo.
«La squadra fu trasferita a Berlino, e rinominata Dinamo Berlino.»
L'altro emise un fischio significativo.
«Ogni anno i migliori giocatori del campionato venivano trasferiti alla Dinamo, che tra questo e gli aiuti arbitrali, vinceva a mani basse.», continuò Albert «Tra la fine degli anni '70 e gli anni '80 “vinsero” una decina di campionati di fila.»
Tarik si voltò appena, tornando poi con gli occhi sulla strada: «E l'Union?»
Albert sorrise: «L'Union vinse solo una Coppa DDR, nel 1968. Ma in quegli anni non erano le vittorie quello che ci interessava.», disse «Non eravamo la squadra di qualche autorità politica o statale. Eravamo la squadra del popolo, ancora di più in quegli anni. Tifare Union era una delle poche forme di protesta e malcontento tollerate dal regime.», sospirò di nuovo «Le partite contro la Dinamo non erano... semplici partite di calcio. Erano... il popolo contro la dittatura. Figurati... a volte capitava addirittura che nello stadio si sentissero cori a sostegno dell'Hertha. Una sorta di inno all'ovest, sotto travestito da coro da stadio.»
Tarik sorrise: «Sembra quasi che rimpianga quei tempi.»
Albert scosse il capo, appoggiandolo poi al poggiatesta: «No, non rimpiango niente quei tempi.», sospirò «Quasi niente... Forse solo quello che ero: un giovane che poteva ancora permettersi delle illusioni, e di avere dei sogni.», fece un cenno avanti a sé, dove ancora marciava la bisarca, che trasportava diverse berline a marchio BMW «A quel tempo... quelle, le Mercedes, Porsche, Audi, perfino le Wolkswagen e le Ford... le vedevamo solo in fotografia. La nomenclatura viaggiava in Wartburg, e Il popolo si poteva permettere solo la Trabant», scosse la testa «Se penso al puzzo d'olio che emanavano, a pensarci ora, mi viene il voltastomaco. Motore a due tempi... oggi perfino gli scooter non li usano più.» scosse la testa, ridendo amaramente «Diavolo, se la miscela era troppo grassa, emanavano un fumo talmente denso che sembravano delle ciminiere.», disse «Motore a due tempi, carrozzeria in plastica... alla gente, ora, sembrano un simpatico simbolo di un'era passata. Io...», scosse di nuovo la testa «Non riesco a pensarla allo stesso modo. Mi sembra di risentire quell'odore e mi viene il vomito.»
Tarik lo fissò per un attimo, tornando poi a guardare avanti a sé: «Si è trasferito a ovest dopo... la caduta del muro?»
Albert scosse nuovamente il capo, mentre Joe notò il suo volto naturalmente accigliato immalinconirsi nel riflesso che ne vedeva sullo specchietto: «No, successe molto prima.», disse «Diciamo che... riuscii a fuggire.»
Tarik rimase in silenzio qualche istante, forse per trovare le parole per soddisfare quella curiosità passeggera alimentata da quella conversazione: «Perché non è tornato a Berlino... dopo il 1989?»
Sul volto riflesso di Albert sullo specchietto si formò una smorfia: «Non lo so... Forse... ho fatto così tanto per fuggire... che tornarci a vivere mi sarebbe sembrato un controsenso», disse «Potrei risponderti che... ormai mi ero costruito la mia vita ad ovest e che, a quel punto, non valeva la pena ricominciare da capo in una città che era completamente diversa da come la ricordavo.»
«Non ha più parenti qui?»
Albert strinse le labbra, stringendo gli occhi.
«Mi scusi, sono un impiccione.»
L'altro si voltò verso di lui, sorridendogli: «Ma no, figurati.», disse, tornando a guardare avanti a sé «Comunque no, non ho più nessuno. Ad uno ad uno, se li è portati via la guerra.»
«Mi dispiace.», disse Tarik, costernato
Albert scrollò le spalle, sorridendogli per rassicurarlo: «Ho metabolizzato la cosa molto tempo fa. E... considerando come sono andate poi le cose, è stata una fortuna.», disse, tornando a guardare avanti a sé, con occhi che si facevano seri e malinconici «Sai, ero un bambino quando ho perso i miei genitori. Non ho particolari ricordi di loro... L'unica immagine nitida che ho di mio padre è... lui che mi tiene sulle spalle,tutto esaltato, ad acclamare Hitler a un corteo.», scosse la testa «Non esattamente una foto da album dei ricordi, insomma. Però...», sospirò «Però mi piaceva stare sulle sue spalle. Erano larghe e forti. Mi sentivo al sicuro là sopra... anche in mezzo a tutta quella gente urlante. E in fondo... non ricordo che fosse un cattivo genitore. Nemmeno mia madre lo era... Devi uscire qui.», indicò il cartello stradale sotto il quale stavano passando, che diceva “Postdam-Babelsberg”.
Tarik lo guardò perplesso, spostando poi gli occhi verso una sorta di piccolo monitor che teneva attaccato al parabrezza con un supporto a ventosa: «Il navigatore dice di andare avanti.»
Albert sorrise, ironico: «A volte le macchine sbagliano.», disse «Fidati, devi uscire qui. Non è la prima volta che torno a Berlino. Se vai avanti, ti ritroverai imbottigliato nel traffico, arriverai in ritardo e sarò costretto a decurtarti la tua busta paga.»
Tarik annuì lentamente: «Allora agli ordini.», disse mettendo la freccia, e uscendo dove indicato da Albert.
«All'incrocio, gira a destra.», gli disse poi l'altro «E poi subito a sinistra.»
«Come vuole.», disse Tarik «Sa, le confesso che sono sollevato.»
«Sollevato?», chiese Albert, perplesso.
Tarik annuì: «Sì. Quando mi ha chiesto di venire con me, temevo che lo facesse per controllarmi.»
Albert lo fissò per qualche istante, sorpreso e perplesso: «Perché dovrei fare una cosa del genere?», disse «Sei uno dei miei autisti più efficienti.»
«Beh, dopo quello che è successo il mese scorso... ci sentiamo un po' tutti sul chi vive.», disse Tarik.
«Ti fai anche tu di qualche droga?», chiese Albert.
L'altro scosse la testa: «No, ovviamente no.»
«Bevi... durante o prima del servizio?»
Tarik si limitò a scuotere di nuovo la testa.
«E allora non hai niente da temere.», disse Albert «Non ti drogare, non bere prima e durante la guida, e manterrai il tuo posto molto, molto a lungo.»
Tarik lo guardò un istante, stringendo le labbra: «Samir era un mio amico...»
«Mi è dispiaciuto doverlo mandare via.», disse Albert «Ma è stato beccato a farsi uno spinello in bagno, e non lo posso accettare. Ho delle responsabilità verso i miei clienti e le merci che mi affidano.», si voltò a guardarlo «Vi rendete conto che ciò che trasportiamo può raggiungere il valore di decine di migliaia di euro?»
“Euro?”, si chiese Joe, voltandosi verso Ivan.
Ma se questo, prima, sembrava in uno stato di dormiveglia, ora sembrava il “vecchio” piccolo Ivan, sprofondato nel suo sonno infinito.
Tarik annuì: «Sì, ovviamente...»
«Se il carico va perduto perché uno di voi è sotto l'influsso di qualche droga o dell'alcool, o se vi becca l'autostradale, a rimetterci sono anch'io.», disse Albert «Ho lavorato sodo per mettere su quest'impresa, e non ho intenzione di perdere tutto per... uno spinello.»
Tarik strinse le labbra: «Mi scusi se insisto, ma ho parlato con Samir e è veramente... disperato e dispiaciuto.», disse «Ha detto che non succederà più e lo conosco bene...»
«Forse non così bene.», lo interruppe Albert.
«Una seconda possibilità non si nega a nessuno, signor Albert.»
Albert sorrise:«Era già la seconda possibilità.», disse, scuotendo la testa «Te l'ho detto che non lo conosci così bene, come credi.»
Tarik spalancò gli occhi, e si voltò a guardarlo. Più del dovuto.
«Attento!»
L'autista rigirò il viso di scatto, e piantò il piede sul freno, giusto in tempo per non stamparsi contro la fila di macchine ferma al semaforo: «Intende dire che... era già successo?»
Albert annuì: «Qualche settimana prima.», disse «Stessa cosa. Si è scusato, mi aveva detto che non sarebbe più successo, e io gli ho dato un'altra possibilità. Non se l'è giocata molto bene.»
Il semaforo tornò verde e la fila, lentamente, ripartì.
«Lui diceva che... è stato duro con lui perché... non è un tedesco.»
Albert lo guardò in cagnesco: «Non mi hai appena ricordato che vi pago come tutti gli altri?»
Tarik annuì: «Non mi fraintenda, io non intendevo questo e non gli ho mai dato ragione.», disse «Però mi era sembrato molto duro. Ma... non sapevo che era già la seconda volta. Samir non me l'ha detto.», sospirò «Mi scusi se... ci ho provato.»
Albert scosse la testa: «Non ti devi scusare.», disse «Avrei fatto la stessa cosa per un mio amico. Anche se non sempre la nostra fiducia è ben riposta... Gira a sinistra, alla rotonda.», scrollò le spalle «Anzi, trovo ammirevole il tuo gesto.»
«Cosa?»
«Se al mio posto ci fosse stato un altro... avresti potuto rischiare il posto.», disse, accennando avanti a sé «Guarda là. Siamo arrivati, e parecchio in anticipo sulla tabella di marcia.»
Tarik sorrise: «Allora mi merito un extra...»
«Stai scherzando?», gli rispose l'altro «Se vi dessi un extra perché arrivate in anticipo, finireste per riempirvi di caffeina per guidare per ore di fila senza mai dormi e andare come pazzi sulle strade.»
«Non ha tutti i torti.»
«Lasciami fuori dal cancello. Prenderò un autobus per andare verso il centro.», gli disse Albert, mettendosi il suo cappello fin sopra gli occhi.
«Come vuole.», disse Tarik accostando «Per il ritorno, mi faccia sapere.»
«Sarò qui in tempo per ripartire.», gli promise Albert, prima di uscire dal camion.
Joe si voltò verso Ivan per svegliarlo, ma con sua grande sorpresa, si ritrovò già fuori dal camion, con Ivan accanto a lui che si stirava le membra.
«Non c'era un modo più normale per uscire?»
Ivan raccolse un profondo respiro, lasciando cadere le sue mani nelle tasche del soprabito: «Pensavo che ormai ti fossi abituato.»
Joe sbuffò: «Preferisco passare per le porte, anziché attraverso le pareti. Per non parlare della... smaterializzazione.»
L'altro scrollò le spalle, mentre riprendeva a camminare, seguendo la figura di Albert, ormai distanziato di una ventina di metri: «Uff, quanto sei complicato.», disse «Dai, non è così male...»
Joe si mosse per raggiungerlo ed affiancarlo: «Ivan, ti potrei fare una domanda?»
«Sentiamo.»
L'altro raccolse un profondo alito di respiro, chiedendosi se gli avrebbe risposto: «Se hai detto che le mie funzioni di cyborg non funzionano... come faccio a capire quello che dicono?», gli chiese «Anche... la mia capacità di capire le diverse lingue fa parte delle mie capacità di cyborg. Prima di diventarlo, io non sapevo che un po' di inglese, e di certo non al punto di seguire una conversazione. Ma non conoscevo il cinese e tantomeno il tedesco... o il turco.»
Ivan lo guardò appena con la coda dell'occhio, inclinando poi la testa di un lato mentre quasi scoppiava a ridere e annuiva: «Accidenti, Joe Shimamura. Lei è un'infinita fonte di sorprese, lo sa?»
Joe lo fulminò con lo sguardo, sentendosi raggirato per l'ennesima volta: «Non mi sembra una domanda così idiota.»
Ivan scosse la testa: «E sei sempre il solito suscettibile e permaloso Joe.», disse «Non ho affatto detto che è idiota. Anzi, è una domanda estremamente intelligente.»
Joe sospirò: «E posso sperare di avere una risposta, o, anche in questo caso, devo rinunciarci?»
Ivan sorrise: «No, a questa posso rispondere.», disse «E la risposta è che è tutto dentro di te.»
L'altro alzò gli occhi al cielo, in un gesto di esasperazione per l'ennesima presa per i fondelli di cui si sentiva vittima designata: «Non ricominciare, Ivan!» , disse «Ne ho abbastanza delle tue risposte enigmatiche e di essere preso in giro da te!»
Ivan rise di nuovo: «Oh, ma io non ti stavo affatto prendendo in giro, Joe.», disse «E' davvero tutto dentro di te. Nella tua testolina.», concluse, puntandogli un dito contro la tempia, al punto che sembrava quasi volesse trapanargli il cranio
Joe scostò il capo, neanche gli avesse puntato contro una pistola: «Puoi essere meno criptico?», gli chiese, mentre raggiungevano Albert a una fermata dell'autobus.
Ivan annuì: «Vedi, il cervello umano è come una spugna.», disse «In tutto il tempo in cui esso è stato in simbiosi con il tuo corpo meccanico e con i suoi circuiti, ne ha assorbito le capacità intellettuali.», gli spiegò «In poche parole, non puoi usare la tua forza o il tuo acceleratore, e nemmeno la tua vista e il tuo udito potenziati, perché esse sono capacità fisiche e il cervello non le può “apprendere”. Le può al massimo utilizzare. Ma puoi capire le diverse lingue, perché esse fanno parte delle capacità intellettuali che hai ricevuto con il tuo corpo cibernetico, e di conseguenza il tuo cervello le ha potute fare proprie, e apprenderle»
Joe era quantomeno allibito: «Stai scherzando?»
«Es esmu pilnīgi nopietni.», gli disse Ivan
“Sono assolutamente serio”, tradusse Joe all'istante, rendendosi angosciosamente conto di associare immediatamente quella lingua mai sentita prima alla Lettonia.
Un luogo in cui non era nemmeno mai stato, e che ai suoi tempi era solo una regione di quell'enorme nazione che andava dall'Europa i confini estremi dell'Asia, e che era l'URSS. Ricordava vagamente che Ivan gli aveva detto che ora era uno stato indipendente, nato proprio dalla dissoluzione del regime sovietico.
«Il cervello umano è una cosa portentosa, Joe.», gli disse Ivan «Non lo sottovalutare.»
«Vuoi dire che conosco tutte le lingue del mondo?!»
Ivan scosse la testa: «No, non tutte.», disse «Solo quelle precaricate nella memoria del circuito. Che non comprendono molte lingue locali, come la lingua Apache. Infatti non credo che tu abbia capito quello che Geronimo e il suo giovane amico si sono detti, usando la lingua dei loro antenati.»
Perfino il senso di sollievo che gli dette quell'affermazione lo sorprese, mentre giungeva un autobus a distrarre Joe dal proprio sbigottimento. Joe lesse distrattamente che il numero della linea era M48, prima di montare sopra il mezzo quasi come un automa, seguendo Albert, che andò ad occupare uno dei molti posti liberi a sedere.
Joe ricordò che Albert aveva detto di volersi recare verso il centro, e lì erano chiaramente in una zona industriale di estrema periferia. Calcolò che ci sarebbero volute parecchie fermate, e magari qualche cambio, prima di arrivare a destinazione.
«Ivan, se ho capito bene... Albert ha una ditta di autotrasporti.», chiese Joe, cominciando a sentire il peso del suo silenzio.
L'altro annuì, mentre l'autobus si fermava: «Sì. Ha ripreso la sua attività di camionista, e poi ha fatto fortuna.», disse «Se la passa bene.»
«Ma non è tornato a vivere a Berlino.», disse Joe, malinconico, guardando entrare un gruppo di giovani poco più che adolescenti. Con il cranio rasato, i giubbotti di pelle e gli stivaletti ai piedi, sembravano la caricatura di una falange. A Joe non sfuggì la breve smorfia di disgusto che apparve sul volto di Albert quando questi andarono a prendere posto davanti a lui.
«Lo conosci.», gli disse Ivan, guardando quei giovani nello stesso modo in cui li fissava Albert «Non immagini il perché non sia voluto tornare qui?»
Joe sospirò: «Anche fin troppo bene.»
Ivan si limitò ad alzare le sopracciglia, in un gesto di accondiscendimento.
«Mi avevi già accennato della caduta del muro.», si ricordò Joe «Che cosa è cambiato da allora?»
Ivan scrollò le spalle: «Beh, geograficamente e politicamente la Germania è un paese unito, e Berlino ne è tornata capitale. E non ci sono più due rappresentative nazionali tedesche alle competizioni sportive.», disse, con una nota di ironia «Sempre in tema di sport, per inciso si è “scoperto” che gran parte delle vittorie sportive degli atleti della ex-DDR erano... come si può dire... coadiuvate dal cosiddetto “doping di stato”. Ma questa non è certamente la cosa più importante.», fece un gesto della mano, come se volesse allontanare l'argomento «Comunque, la Germania, dopo un periodo di assestamento... devi considerare le difficoltà di portare il sistema di economia pianificata della DDR sulla linea del sistema capitalista della Germania Occidentale... Dicevo, dopo, un periodo di assestamento, la Germania ha superato brillantemente la fase dell'unificazione, ed ora è di fatto il motore economico dell'Unione Europa.»
Joe corrugò la fronte: «Unione Europea?», disse «Vorrai dire... Europa.»
Ivan fece una smorfia: «Uhm, effettivamente non te ne avevo parlato.»
«Parlato di cosa?»
«Sai cos'è la Comunità Economica Europea... cioè... cos'era?»
Joe si limitò ad annuire, preparandosi all'ennesima rivelazione rivoluzionaria.
L'altro sospirò: «La Comunità Economica Europea non esiste più.», disse «Cioè, si è evoluta.»
Joe restò per qualche secondo con le labbra socchiuse nel suo stordimento: «Ti ascolto.», disse lentamente.
Cos'altro poteva fare?
Ivan roteò le pupille negli occhi, mentre prendeva a parlare: «Nel 1992 venne siglato il trattato di Maastricht, che costituiva l'Unione Europea, con l'intenzione di creare un un'unione economica degli stati membri. Nel 1995, con gli accordi di Schenghen, sono state abolite le frontiere e le dogane tra la maggioranza dei paesi membri dell'Unione. Di fatto i cittadini europei possono muoversi liberamente da uno stato all'altro, senza controlli doganali e con la sola carta d'identità.»
«E l'euro di cui parlava Albert?», chiese Joe, come se avesse paura di gettare una bomba a mano con la sua voce «C'entra qualcosa?»
Ivan annuì: «Se l'Unione Europea è un'unione economica, ha bisogno di una moneta comune.», disse «E questa è l'euro.»
«E il suo simbolo è una E stilizzata con due trattini, tipo quelli degli yen?», gli chiese Joe.
Stavolta Ivan parve sorpreso, ma fu solo un attimo: «Sì.», disse, voltandosi verso uno dei cartelli pubblicitari presenti sull'autobus, dove il simbolo della moneta veniva riportato più volte.
«Una sola moneta... per tutta l'Europa?», chiese Joe, incredulo alle sue stesse parole.
Ivan scosse la testa: «No. Non confondere il continente Europa e con l'Unione Europea.», disse «Non tutti gli stati europei fanno parte dell'Unione Europea. E non tutti gli stati che fanno parte dell'Unione Europea hanno adottato l'euro. Germania e Francia sì, per esempio...»
«La Gran Bretagna?»
Ivan annuì: «Fa parte dell'Unione Europea...»
«Ma Great ha pagato in sterline...»
«E infatti non fa parte della cosiddetta “zona euro”.», disse Ivan, virgolettando idealmente le sue parole «Si sono tenuti la cara vecchia sterlina, con le effigi di Elisabetta II...»
«Elisabetta II è ancora la regina d'Inghilterra?!»
Ivan sorrise, annuendo ad accompagnare quell'ilarità accennata: «Se è per questo, l'imperatore Hirohito è rimasto in carica fino al... 7 gennaio 1989, il giorno della sua morte.»
Joe rimase un attimo interdetto, rendendosi conto che era la prima notizia che riceveva sul Giappone, da che era finito in quello scherzo spazio-temporale: «E...», si prese il tempo di cercare nella sua memoria «Quindi adesso è Akihito l'imperatore?»
Ivan annuì: «Sì, e suo figlio Naruhito è l'erede al trono.»
Joe fece una specie di sospiro, massaggiandosi gli occhi con due dita di una mano, mentre cercava di immaginare che aspetto potesse avere da adulto quel principe, che nei suoi ricordi era appena un bambino.
«Naruhito non ha avuto figli maschi.»
Joe strinse gli occhi sotto le sue dita: «Adesso avrà... quasi cinquant'anni.»
«Quarantotto.», precisò Ivan «E nessun figlio maschio.»
Suo malgrado, si stava ritrovando coinvolto in quella conversazione: «E quindi il prossimo sulla linea di successione sarebbe... come si chiamava?...»
«Akishino.», disse «Il secondogenito di Akihito. Ma non è detto. Naruhito non ha avuto maschi, ma ha avuto una figlia...»
«Da noi non è come in Gran Bretagna.», disse Joe, chiedendosi contemporaneamente se, in quel mondo, avesse ancora senso, per lui, dire “da noi” «Le donne non diventano imperatrici.»
«Infatti stanno discutendo se sia il caso di modificare la legge di successione in tal senso.»
Joe lo guardò perplesso e incredulo, e Ivan quasi si mise a ridere per quella sua faccia, mentre andava a cercare il suo “cellulare” dentro la tasca del soprabito, mettendosi poi a muovere le dita sopra il suo piccolo schermo.
L'altro lo osservò ancora stordito da quella mole di informazioni, almeno la metà delle quali gli sembravano il parto di una mente piena di una fantasia ragguardevole.
Un continente come l'Europa, da sempre diviso da guerre e differenze culturali, in cui non esistevano quasi più frontiere e dove esisteva una sola moneta. Che i tedeschi rinunciassero al marco era difficile da credere, ma lo era ancor di più che perfino i francesi avessero rinunciato al loro franco. Paradossalmente, l'aveva stupito di meno pensare che in Gran Bretagna circolava ancora la sterlina...
«Leggi.»
L'oggetto che si ritrovò sotto gli occhi gli fece quasi paura, nel suo sovrappensiero. Joe ci mise più di qualche secondo a riconoscerlo come il cellulare su cui Ivan stava armeggiando poco prima, e guardò l'amico incerto, quasi gli stesse chiedendo di prendere in mano un tizzone ardente.
«Che è?»
«E cosa vuoi che sia? Il mare magnum delle informazioni: Internet. Per l'esattezza Wikipedia.», rispose «Avanti, leggi.», gli ripeté l'altro, muovendogli l'aggeggio sotto il naso, come se volesse farcelo sbattere contro.
Joe lo prese in mano, e cominciò a scorrere il testo in inglese che si ritrovò sotto gli occhi: «Aiko...», scorse gli occhi a leggere i dettagli della primogenita di Naruhito e della moglie Masako, di cui si sorprese a chiedersi che aspetto a avesse. Apprese che il nome non era stato scelto dall'imperatore, come voleva la tradizione, ma dai genitori.
«Ispirati a Meng-tzu?», disse Joe a voce alta, con una smorfia «Ma non potevano semplicemente dire che piaceva loro il nome?»
Ivan rise: «Continua a leggere.»
Joe obbedì, e più sotto lesse del dibattito sulla modifica della legge di successione di cui gli aveva accennato Ivan: «Ma qui si parla di una proposta fatta più di tre anni fa.», disse, mostrando a Ivan un'altra smorfia e sentendo tutta la stranezza di quel “tre anni fa” riferito a fatti che, secondo quanto aveva letto, risalivano al 2005.
Ovvero, decenni avanti a lui.
Ivan si rimise in tasca l'apparecchio: «Mi rendo conto che nella tua mentalità sia... difficile concepire una cosa del genere.», disse «Una donna imperatrice... Eppure ne avete avute ben sette nell'antichità...»
«Vuoi insegnarmi la storia del Giappone?»[4]
Ivan scoppiò a ridere: «Su quella degli ultimi trent'anni avrei molte cose da dirti, che non sai.», disse «Anche se in realtà, non è successo niente di particolare. Siete diventati la... seconda economia del mondo e adesso state attraversando un periodo di crisi. Ma... siete ancora i migliori nell'elettronica: i migliori televisori, lettori DVD...»
«Lettori DVD?», chiese Joe, che cominciava a sentire un principio di mal di testa fin troppo reale, per essere solo frutto della sua immaginazione.
Ivan sorrise, scuotendo: «Dimenticavo... tu non sai nemmeno cos'è una videocassetta...»
Joe si strinse le labbra, tenendo per sé l'ennesima domanda che temeva potesse portargli solo l'ennesima dose di confusione, da aggiungere al marasma che aveva in testa.
L'altro forse gli lesse nel pensiero, perché scoppiò a ridere, per poi riuscire a calmarsi. Forse anche per la collera che stava contorcendo i lineamenti di Joe. Anche se quest'ultimo dubitava che Ivan avesse in qualche modo timore di una sua reazione.
«Però sai cos'è una... musicassetta, vero?»
Joe sospirò, annuendo, sentendo uno strano sollievo nel sentire un termine che poteva associare a un oggetto conosciuto.
«Bene.», disse Ivan «Una videocassetta è come una musicassetta. Solo che è un po' più grande, e, oltre a registrare e quindi poter riprodurre suoni, può fare la stessa cosa anche con le immagini. Quindi, per esempio, può permetterti di vedere un film sul tuo televisore, con l'ausilio di un apparecchio chiamato videoregistratore. Il DVD è la stessa cosa, solo che è una tecnologia basta su disco ed è più recente... ma stiamo divagando.»
Joe sentì il bisogno di appoggiarsi a uno dei pali di sostegno che andavano dal pavimento al soffitto: «Decisamente...», disse, contollando che Albert fosse sempre al suo posto. Temeva quasi che fosse sceso, e che loro non si fossero accorti di nulla.
«C'è un'altra cosa che esportate in quantità industriale.», riprese Ivan.
«E cosa sarebbe?», chiese Joe, pentendosi della sua domanda nello stesso istante in cui la formulava.
«Manga e anime.», rispose Ivan, accennando a qualcosa alla sua destra.
Joe si voltò in quella direzione, con gli occhi ancora aperti dalla sorpresa per la risposta di Ivan. Notò solo in quel momento il ragazzo poco più che adolescente, che stava leggendo un albo dalla copertina colorata, con su disegnata una figura dalle forme fin troppo riconoscibilmente femminili.
Vide il ragazzo voltare pagina e... strinse gli occhi... c'era qualcosa che non gli tornava. Anzi, che gli tornava, ma che non sarebbe dovuto tornare. Non erano in Giappone... Eppure aveva girato pagina da sinistra a destra, e non nel senso di lettura inverso, utilizzato solitamente in occidente.
Forse fu questo a indurlo a chinarsi quasi in ginocchio sul pavimento, per leggere il titolo dell'albo. Ovviamente non era scritto in giapponese, ma il nome dell'autore, Shirow Masamune, era senz'altro giapponese. Anche se il titolo, “Ghost in the shell”, era scritto in inglese.
Ivan gli aveva fatto intendere che quello fosse un manga, ma nella donna raffigurata in copertina Joe non riconobbe niente dello stile di disegno quasi caricaturale dei vari Tezuka, Fujiko Fujio o le donne quasi eteree Matsumoto che ricordava nella sua memoria.
«Ironico.», disse Ivan, riattirandosi l'attenzione di Joe «Quel manga parla di cyborg.»
Joe strinse gli occhi nel suo stupore sempre più misto a confusione, ma proprio in quel momento l'autobus fece una frenata brusca, quanto improvvisa, per la quale Joe si strinse al palo che aveva a portata di mano istintivamente, mentre Ivan se ne restò con le mani in tasca, eppure attaccato al pavimento. Si vedeva che lui era molto più abituato a quel mondo inconsistente.
Joe non fece in tempo né a realizzare che perfino non avrebbe avuto alcun bisogno di tenersi, ma che il suo era stato un riflesso mentale, né a chiedersi come avesse fatto a non cadere. La figura che vide perdere l'equilibrio a pochi passi da lui attirò la sua attenzione, distogliendolo dai suoi pensieri, e fece il gesto istintivo, quanto inutile, di allungare il braccio per impedire a quella figura di rovinare a terra.
Ma il vecchio gli passò praticamente attraverso il braccio, come se fosse stato quello di un fantasma senza sostanza...
“Già, ma io sono un fantasma...”
… andando a sbattere contro uno dei giovani dalla testa rasata che erano saliti prima, e che erano ancora lì, dove ricordava di averli lasciati.
«Ehi, mai vuoi stare attento!», gli gridò il giovane, spintonandolo e mandandolo proprio addosso ad Albert, che intanto si era alzato.
«Non è stata certo colpa sua.», disse quest'ultimo, accompagnando a sedere il vecchio, che lo guardava frastornato.
«E tu di che ti impicci?», gli rispose il giovane, facendo un passo verso di lui con atteggiamento provocatorio, e fin troppo preimpostato dalla sua alterigia.
Albert si voltò, squadrandolo con i suoi occhi di ghiaccio e un volto impassibile in ogni sua fibra. Joe riconosceva fin troppo bene quella modalità dell'espressione del suo vecchio compagno: collera e disprezzo.
Il ragazzo, nella sua baldanza artefatta, non riusciva nemmeno a immaginare a cosa stesse andando incontro e che cosa stesse rischiando.
«Ho solamente detto che non è stata colpa di questo signore.», disse, Albert con un tono di voce così glaciale, che Joe quasi si sorprese che la faccia del ragazzo non si fosse congelata all'istante «L'autobus ha sbandato.»
La rabbia contorse i lineamenti all'altro, che cominciò a sbuffare come una specie di oni: «Ma chi cazzo ti credi di essere?»
Albert scrollò le spalle, sorridendo beffardo, come chi sa di aver colto l'altro in trappoll: «Non lo so.», disse con quel suo sorrisetto ironico e cinico sulle labbra sottili «Probabilmente qualcuno che conosce la storia meglio di te, e ha letto qualche libro in più oltre al “Mein kampf”.»
«Non lo fare, ragazzo.», sussurrò Ivan, sorridendo, come se fosse in procinto la memorabile scena di un film.
«Io ti...»
Il braccio del giovane rasato si mosse fulmineo per scagliare un pugno, ma quello di Albert lo fu ancora di più a bloccarglielo e a farlo rigirare su stesso sfruttando il suo stesso slancio. Sarebbe bastato un niente perché glielo spezzasse, ma lo bloccò al punto che bastò per fargli sentire un dolore lancinante, che strappò al ragazzo un urlo che sembrò squarciare l'autobus, e che fece sussultare la maggior parte dei presenti.
«Che cosa succede?!»
L'autista si era alzato in piedi nella sua postazione, e stava osservando la scena quantomeno preoccupato, ma probabilmente senza avere il coraggio di intervenire più di così in quella rissa tra i suoi due passeggeri.
«Niente, signore.», disse Albert «Il ragazzo e i suoi amici scendono qui. Potrebbe aprire loro la porta?»
«Vai al diav... Aaaaaah!»
L'osso del braccio cominciò a scricchiolare, strappando al ragazzo un altro grido di dolore e Albert riallentò la presa, avvicinandogli la bocca all'orecchio: «Ti conviene scendere adesso, se non vuoi che te lo rompa.», disse «Tu e i tuoi piccoli amici camerati. Andate a giocare ai soldatini da qualche altra parte. Oppure farò in modo che tu non riesca più ad alzare questo braccio per salutare i tuoi compagni. Per il resto della tua fottutissima vita di merda, da nazista riciclato.»
Il ragazzo emise di nuovo un urlo di dolore, quando Albert gli torse di nuovo il braccio andando vicinissimo al punto di rotture, e strinse le labbra nella collera, mentre faceva un cenno ai suoi compagni, indicando chiaramente loro la porta che era stata aperta davvero. Solo quando gli altri furono scesi, Albert lasciò la presa.
Il ragazzo si voltò tenendosi il braccio all'altezza del gomito. Albert doveva quantomeno avergli provocato una brutta distorsione: «Prega che non ci reincontriamo.», gli sibilò.
Albert rise, come se a minacciarlo fosse stato un bambino con la sua pistola giocattolo: «Scherzi? Io non vedo l'ora.»
Il ragazzo soffiò di nuovo la sua rabbia, prima di correre fuori dall'autobus a raggiungere il suo gruppo.
Le porte si richiusero lasciandoli fuori, e l'autista si affrettò a rimettere in moto e ripartire, allontanandosi in fretta da quegli elementi.
Albert tornò a fermarsi davanti al vecchio, ignorando gli sguardi attoniti degli altri passeggeri, e i loro mormorii «Sta bene?»
Il vecchio, ancora un po' stordito, annuì: «Sì... mi scusi.»
«E di cosa?», chiese Albert, come se il favore che gli aveva fatto fosse stato più o meno come schiacciare una mosca fastidiosa.
L'anziano scrollò le spalle: «Mi sarebbe dispiaciuto se si fosse fatto male per difendere un vecchio come me.», disse «Ha imparato nell'esercito quelle mosse?»
Albert sorrise: «Qualcosa del genere.»
Il vecchio tolse un fazzoletto dalla tasca del suo cappotto, e lo utilizzò per asciugarsi piccole stille di sudore che gli colavano ai lati del capo, sotto il cappello.
«E' stato coraggioso, figliolo.»
«Anche lei.», disse Albert, accennando al suo braccio, su cui spuntavano un paio di cifre appena visibili, tatuate sulla pelle, appena sotto il polso, lasciato scoperto dal gesto di asciugarsi il sudore.
Il vecchio si affrettò ad abbassare la manica, guardandosi intorno come se temesse che qualcun altro potesse essersi accorto di quel particolare: «Sono solo un sopravvissuto.», disse
«E chi non lo è?», rispose Albert.
Il vecchio alzò gli occhi liquidi verso di lui: «Ho vissuto qui la mia gioventù.», disse «Poi... dopo la guerra sono potuto tornare solo dopo il 1989.»
«Ha avuto più coraggio di me.», continuò Albert «Io non sono mai riuscito a ritornare a vivere qui.»
Il vecchio alzò gli occhi liquidi su di lui: «Anche lei è...?»
Albert scosse la testa, intuendo la sua domanda: «No. Anzi, sarei stato il perfetto ariano.», disse «Sono fuggito da Berlino Est molti anni più tardi... da un'altra dittatura. Ma... anche dopo la caduta del muro, non sono mai riuscito a tornare a vivere qui. Troppi ricordi, troppi... fantasmi...»
L'altro annuì, grave: «Il mio non è coraggio. Sono proprio... i ricordi, e i fantasmi a legarmi a questo posto. Alla mia età, si è soli, e fanno compagnia anche quelli, sa?», disse «Mia moglie e mia figlia... morirono prima... del 1933.»
Albert strinse le labbra, in un sorriso malinconico, e anche Joe sapeva il perché e il significato di quella data: l'inizio del regime nazista in Germania.
«Se le portò via la tubercolosi, una dopo l'altra, poco tempo prima...», sospirò «Allora... ero disperato di averle perse. Inutile dire che in seguito ho rivalutato decisamente la loro perdita.»
«Lo posso immaginare.», disse Albert, strascicando le parole in un sospiro.
Il vecchio annuì nuovamente: «Il Signore è stato misericordioso... a risparmiare loro quello che è successo a me e alla mia gente.», sospirò di nuovo, mentre il liquido dei suoi occhi ancora non si decideva a trasformarsi in lacrime «Sono sepolte qui, a Weissensee[5]. ed è per questo che sono tornato.»
Albert accennò un sorriso in cui si mescolavano rispetto e comprensione: «Gliel'ho detto che è stato più coraggioso di me.»
«Sono soltanto un vecchio.», rispose l'altro, scrollando le spalle «Che si aggrappa ai suoi ricordi, dopo aver lottato a lungo... per dimenticare l'indimenticabile. Ma ho capito a mie spese che era una lotta che non potevo vincere... e che forse non volevo vincere.»
Albert annuì: «Credo di capire che cosa intende dire.», disse «Anch'io ho smesso di lottare con i miei ricordi. Un mio amico inglese, citando un suo connazionale, dice sempre che... “in ogni momento singolo momento della vita, si è ciò che si deve diventare non meno di ciò che si è stati”.»
«Oscar Wilde.», disse il vecchio, annuendo.
Albert annuì a sua volta: «Già. In poche parole... dimenticare non serve a diventare un uomo migliore.», disse «Si rischia solo di commettere gli stessi errori. E sono proprio quelli... che ci indicano la strada, ricordandoci quella sbagliata.», sospirò «Adesso lo so. Ma non tornerò a Berlino. Almeno finché non sarò morto.»
Il vecchio sorrise: «Adesso è qui che si trova, no? Ed è vivo.», disse alzando le sopracciglia pelose, e dando un'occhiata fuori dal finestrino e andando a premere poi il bottone per chiamare la fermata «Io scendo alla prossima. La devo salutare, signore. E la ringrazio ancora.»
«Si figuri.»
L'uomo si alzò, con un ultimo cenno di riverenza del capo, a cui Albert rispose allo stesso modo, in un gesto che ricordava molto un'usanza giapponese. Poi seguì il vecchio con lo sguardo fino a quando non fu sceso dal mezzo.
L'autobus riprese il suo cammino, ormai arrivato ai margini del centro città. Albert non si rimise a sedere, lasciando il suo posto a una donna incinta, ma rimase in piedi, per scendere un paio di fermate dopo, allo Spittelmarkt. Non era una zona turistica, né particolarmente attraente.
L'eleganza teutonica di Berlino era appena intuibile dai profili delle guglie oltre le sommità di rozzi e squadrati condomini. Ma Joe immaginava che Albert non fosse venuto lì per fare il turista.
Lo seguì nel suo percorso a piedi, che intraprese appena sceso dall'autobus, attraverso isolati contraddistinti da quei grossi condomini squadrati, fino a quando si fermò su un lato di quello che sembrava un lungo viale, costeggiato dai soliti palazzi, con un quello che sembrava un supermercato sull'altro lato della strada.
Joe alzò gli occhi a cercare un'indicazione: «Heinrich Heine Strasse...»
«Qui c'era un posto di blocco», disse Ivan, anticipando una sua domanda «Quello deputato al passaggio di merci e della posta.»
L'altro si voltò verso di lui, con le labbra dischiuse nel suo stupore e in una miriade di domande inespresse, a cui già stava cominciando a darsi risposta da solo. Poi si voltò verso Albert. Si stava guardando intorno, come se cercasse un punto di riferimento, una prospettiva, una posizione, spostandosi di qualche metro per volta, in cerca di un punto esatto.
« E' qui che è successo?», chiese Joe a Ivan.
«E' qui che è successo.», rispose l'altro. «Fu proprio a questo posto di blocco che... Albert tentò la fuga quel giorno.», disse «E' qui dove è iniziato... ed è finito tutto. Albert forzò il posto di blocco, i soldati spararono e il camion continuò il suo cammino fino a schiantarsi su quei palazzi laggiù.», disse indicando le costruzioni in fondo alla strada che stava seguendo il suo braccio «Poi arrivarono gli scagnozzi di Black Ghost e lo portarono via.», sospirò «Non è mai riuscito a sapere dove sia stata sepolta lei...»
«Per lui è come venire in visita alla sua tomba.», disse Joe, guardando l'amico, che adesso si era seduto sul marciapiede. Guardando verso quella che, un tempo, era la parte proibita di Berlino. Dove sognava di vivere, e invece ove aveva trovato la sua condanna eterna.
Ivan annuì: «Qualcosa del genere.», disse.
Joe continuò a fissare Albert, che a sua volta guardava fisso verso il punto in cui Ivan gli aveva detto essersi schiantato il suo camion. Il luogo dove aveva sempre detto di essere morto.
Non era solo la tomba di Hilda che stava visitando.
«Ci aggrappiamo ai nostri ricordi, Joe.», disse Ivan, ricatturando l'attenzione dell'altro «Perché non vogliamo dimenticare che cosa eravamo, per quanto miserabili potessero essere le nostre vite. Aldilà di tutto, ci sono fatti, cose e persone che non possiamo metterci alle spalle.», sospirò «Ci aggrappiamo ai nostri sentimenti, perché ci fanno sentire umani. E ci aggrappiamo al dolore, perché ci fa sentire vivi. E solo chi ha creduto di essere morto, può apprezzare quanto sia importante sentirsi vivi.», restò qualche istante in silenzio, facendo cadere quelle parole fra di loro, e lasciandole rimbalzare sull'asfalto con tutto il loro fragore «Ognuno di noi, nel corso delle proprie battaglie, si è trovato almeno una volta sul punto di morire. E in quel momento, nonostante tutto, ha desiderato vivere. E questo è squisitamente umano. La voglia di vivere è quanto di più umano ci sia dentro di noi... Proprio per questo sacrificare la propria vita per gli altri è il gesto più nobile che possa esistere.», gli occhi di Ivan si spostarono verso Albert, ancora immobile nella sua posizione e nella direzione del suo sguado «Tutti noi, però, vogliamo vivere quella vita normale che ci è sempre stata negata. Anche se sappiamo che... non potrà mai essere “normale” nel senso proprio del termine. Ma ognuno... ha trovato la sua normalità, in qualche modo. Forse... non è molto diverso da ciò che fa qualunque essere umano. Cosa che io... non so neanche cosa voglia dire, a dire il vero.»
Joe restò a fissarlo per qualche istante, senza parlare né muoversi. Poi tornò a voltarsi verso Albert, conscio che quella era l'ultima immagine che avrebbe potuto avere di lui e cercando di imprimersi ogni più insignificante particolare nella sua mente.
Lui ed Albert avevano caratteri diversi, ma i loro tormenti avevano creato delle affinità che avevano originato legami profondi e inscindibili. Insieme a Jet, era probabilmente stato lui quello con cui aveva legato di più all'interno del gruppo. Senza nulla togliere al rapporto comunque speciale e indistruttibile che si era creato con gli altri.
Certo, poi c'era stata Françoise. Ma quella erano una storia e un legame diversi. Nato, evolutosi e cresciuto alimentandosi delle differenze, piuttosto che nelle poche cose che avevano in comune.
“Françoise...”
Strinse le labbra e i pugni in uno spasmo di dolore.
Ecco, aveva cercato di tenere ai margini quel pensiero per tutto il tempo, e adesso era di nuovo al centro di tutto. O forse era stato lui a tenersi ai margini di esso, muovendosi in cerchio, come un bambino in un ridicolo e inutile girotondo.
E Albert, che ancora tornava in quel luogo per rendere omaggio a Hilda, aveva fatto riaffiorare tutto, e distrutto la sottile pellicola protettiva che aveva messo ai suoi desideri e ai suoi sentimenti.
“Voglio vederla...”
Si voltò verso Ivan, che lo osservava come se aspettasse solo un suo cenno per partire. Aveva già capito tutto?
Lo guardò inclinare la testa, come se si aspettasse una domanda, o una richiesta, e sentì le proprie labbra stringersi, attraverso il suo pensiero.
E poi le dischiuse: “Portami da lei.”
Ma la sua voce non uscì mai dalla sua bocca a dare suono a quel pensiero, che rimase un desiderio inespresso. A soffocarla era giunta la paura. Una paura ancora più inconfessabile, che si attorcigliava intorno al suo cervello come un boa.
«Joe, va tutto bene?», gli chiese Ivan.
Di nuovo come lo avrebbe chiesto a un bambino. Un bambino a cui non aveva bisogno di chiedere niente.
«Sì, va tutto bene.», mentì Joe, rendendosi conto di dover deglutire «Adesso...»
Ivan aspettò per qualche istante che completasse la sua frase, e in quel momento Joe lo odiò per il fatto che non volesse toglierlo dall'imbarazzo di porgli la sua richiesta, che sicuramente gli aveva già letto nel pensiero.
«Adesso.... cosa, Joe?»
Lui deglutì di nuovo, e di nuovo non riuscì ad emettere nessun suono dalle sue labbra improvvisamente secche come il deserto.
Ivan alzò il viso, in un modo che lo rese in qualche modo più alto, e scrollò: «Non so... c'è qualche posto dove vuoi andare, in particolare?», gli chiese, allargando il suo soprabito, insieme alle braccia.
Lo odiò di nuovo, e l'odio gli strinse i pugni in due pietre che avrebbe voluto volentieri stampargli su quel suo sorriso irritante. Sapeva benissimo la risposta esatta a quella domanda, e già da prima che lui la formulasse. Forse lo aveva saputo dal principio.
“Ma lei sarà lì?”
Di nuovo sentì le spire di quel boa che era la sua paura stringersi intorno ai suoi pensieri e ai suoi desideri. Facendoli scricchiolare come ossa umane, e soffocandoli dolorosamente.
E se non fosse stata lì?
Se si fosse rifatta una vita?
Da qualche altra parte?
Con qualcun altro...
«Joe, dobbiamo andare.», lo richiamò Ivan «Se non vuoi decidere tu, decido io.»
“No...”, urlò dentro di sé «Io...»
«Io... cosa?», chiese Ivan, spazientito, inclinando ulteriormente la testa «Andiamo, non posso star sempre qui, a tirarti fuori le cose con le pinze.»
Pechino, Arizona, Londra e Berlino. In fondo la destinazione più logica sarebbe stata quella, e forse era lì che l'avrebbe comunque portato.
Joe strinse le labbra, mordendole per qualche secondo ancora. E poi scosse la testa: «Decidi tu...», disse, aggrappandosi a quel senso logico.
E pentendosene pochi attimi dopo.
Pechino... Arizona... Londra... Berlino...
Le posizionò uno dietro l'altra sulla mappa del mondo e gli fu facile notare l'incongruenza: dall'Arizona a Londra c'era una lunga linea che passava proprio sopra la Statua della Libertà.
Avevano saltato New York a pie' pari.
Dopo l'Arizona, era lì che sarebbe stato più logico andare. Ma non era lì che l'aveva portato.
“Perché magari Jet non è lì...”, cercò di convincersi.
Ma sapeva che non era così.
Jet non poteva essere in altri posti.
Lui si sentiva a casa solo a New York.
Gliel'aveva sentito dire centinaia di volte.
Ma in quel suo percorso intrapreso insieme a Ivan, New York era stata sorvolata in un viaggio intercontinentale che rivelava che non c'era alcun senso logico, nei loro spostamenti.
D'altra parte non viaggiavano con mezzi di trasporto che richiedessero l'ottimizzazione delle distanze. Niente li obbligava, anzi, obbligava Ivan a seguire traiettorie che obbedissero alle leggi della logica e della razionalità. Ivan poteva portarli da un capo all'altro del mondo, nel lasso di un battito di ciglia. E lui era poco più di un bagaglio che Ivan si portava appresso. E magari, anche se gli avesse rivelato dove volesse andare, lui, in quella sadicità ironica che sembrava aver sviluppato, e che ricordava fin troppo quella di suo padre Gamo, non ce l'avrebbe portato.
E nel momento stesso in cui sentì il suo corpo smaterializzarsi, era convinto che la prossima destinazione non sarebbe stata Parigi.
8
Prima della sua vista, si risvegliarono il suo olfatto e il suo udito. L'odore salmastro, e il rumore dei flutti che si infrangevano sugli scogli, e dei versi dei gabbiani risvegliò la sua memoria di un uomo cresciuto in una città costiera quale era Tokyo, pur nella sua vastità. E fu lì che pensava di essere stato portato, prima di alzare le palpebre, che sembravano incollate fra loro. Anche se non vedeva motivo per cui dovesse portarlo lì.
Ma di nuovo ricordò che forse sarebbe stato meglio a smetterla di cercare di pensare logicamente.
Quando riuscì ad aprire gli occhi, la luce del sole glieli ferì, e capì che era mattina. Altrimenti non sarebbe stato così forte e caldo, il sole di novembre. E ci volle più di qualche secondo prima che riuscisse a far abituare le proprie iridi a quel bagliore.
Ma non riconobbe il paesaggio che gli si presentò di fronte. Non sapeva indicare il perché, ma non era il Giappone, e quella distesa d'acqua davanti a lui, su cui il sole del pomeriggio riverberava, non era l'Oceano Pacifico. Non c'era nessun punto di riferimento a dirgli che era così. Aveva semplicemente saputo che era così, appena aveva aperto gli occhi.
Lentamente prese coscienza e consistenza del suo corpo. E realizzò di essere seduto su una sedia di legno, all'interno di quella che sembrava una sorta di terrazza sul mare, annessa alla grande abitazione che vide quando si voltò alle sue spalle. Un'abitazione in legno color azzurro, con rifiniture bianche. In stile nord americano...
«Siamo di nuovo negli Stati Uniti...», disse, con un filo di voce.
«Bravo, hai indovinato, Joe.»
Si voltò in direzione di quella voce, e la figura di Ivan entrò nel suo campo visivo. Era in piedi, a qualche metro da lui, davanti al parapetto della terrazza.
Joe strinse le labbra nel vederlo, cercando di bloccare un istintivo moto di irritazione, che sentiva montargli su dallo stomaco: «New York?», chiese, andando secondo la logica dell'esclusione.
“Ancora la logica...”
Ivan corrugò la fronte, mostrando la stessa espressione che avrebbe riservato a un bambino che avesse commesso un errore stupido: «Ti sembra New York?»
Joe si guardò intorno e, per farlo meglio, cercò di alzarsi in piedi. Ma, nel momento esatto in cui la sua figura fu eretta, sentì le gambe molli come se fossero state piene di acqua e nient'altro, e la testa cominciò a girargli mentre la vista si annebbiava. E fu solo per il fatto di essere ancora vicino alla propria sedia che non rovinò a terra come un sacco di patate.
Una sensazione estremamente simile a quella che aveva provato a casa di Ivan... quando? Sembrava un secolo prima.
Si dette il tempo di ritrovare coscienza del proprio corpo, e delle immagini chiare davanti agli occhi: «Che cosa succede?», chiese, sentendo la sua voce affannata, come se avesse corso una maratona.
Ma fu lo sguardo di Ivan ad angosciarlo ulteriormente. Avrebbe giurato di avervi visto una nota di... preoccupazione?... prima che tornasse a fissarlo con quella sua espressione impassibile ed eternamente sorridente.
«Niente, Joe.», disse, con quel suo tono di voce piatto e tranquillizzante, che però aveva esattamente l'effetto opposto in quel momento «Probabilmente sei solo un po' stanco.»
Joe strinse gli occhi, aspettando che il suo respiro e quello che sembrava il battito del suo cuore si normalizzassero: «Tu eri... preoccupato?»
Ivan alzò le sopracciglia, come se non avesse capito bene: «Ma no, che stai dicendo?», gli disse, muovendo i suoi passi verso di lui.
«Quell'espressione di prima... è stato solo un attimo, ma...»
«Forse sono solo un po' stanco anch'io, Joe.», disse, porgendogli una mano «Sai, il mio corpo adesso è più forte e resistente di prima. Ma... è comunque stancante utilizzare così i miei poteri. Non c'ero più abituato. E... adesso alzati. Dobbiamo andare, prima che sia troppo tardi.»
Joe prese la mano che gli veniva porta, e lasciò che lo aiutasse ad alzarsi: «Troppo tardi.... per cosa?»
Ivan, in tutta risposta, si voltò dalla parte opposta a lui, e Joe seguì istintivamente la direzione del suo sguardo, che si fermò su un promontorio poco distante, sulla sommità del quale si scorgeva un gruppo di alberi isolati e ancora verdi, nonostante l'autunno inoltrato, verso i quali si stava muovendo una figura, che in quel momento stava risalendo il pendio che portava ad essi.
Joe vide Ivan muoversi, ancora prima che potesse fargli qualunque domanda, e non poté fare altro che seguirlo.
«Non mi hai ancora detto dove siamo.», gli ricordò, affrettando il passo per raggiungerlo fino a una rampa di scale che scendeva dalla terrazza a una radura.
«Oh, hai ragione.», disse Ivan, cominciando a scendere gli scalini «In realtà... non è vero che hai sbagliato.»
Joe lo seguiva dappresso sulla rampa, e intanto si guardava intorno ad esplorare con gli occhi quelle porzioni di territorio che si rivelavano ad essi, man mano che scendeva gli scalini: «Quindi siamo a New York?», chiese, abbracciando con gli occhi la vasta e ampia radura erbosa, e ricca di alberi, colori e vegetazione. Sembrava una sorta di grande parco naturale in riva all'oceano.
«Non nella città di New York.», rispose Ivan «Nello stato di New York...»
«Che cos'è quella costruzione laggiù?»
Joe si era fermato e il suo sguardo era puntato verso un edificio piuttosto grande, in muratura, con varie strutture annnesse, che si scorgeva in lontananza, forse a un paio di chilometri in linea d'aria. Di fronte ad esso un grande parcheggio ospitava un certo numero di automobili.
«Benvenuto alla sede della Fondazione Gilmore per la Pace e la Scienza.», disse Ivan, ricatturando l'attenzione del suo compagno di viaggio «Long Island, New York.»
Joe dischiuse le labbra nel suo stupore, fissando a lungo Ivan, in attesa di ulteriori spiegazioni e risposte a quella moltitudine di domande che avevano originato le sue parole nel giro di un nanosecodno.
«Per l'esattezza, ci troviamo nei pressi di Montauk, all'estremità settentrionale di Long Island.», precisò Ivan, sorridendo, senza rispondere nemmeno a una di quelle domande «Siamo a poco più di un centinaio di miglia da New York... a seconda di che cosa si intende per New York. Un paio di ore e mezzo di macchina, in condizioni di traffico ottimali.»
«Fondazione... Gilmore?», ripeté Joe, che non aveva quasi ascoltato le ultime parole di Ivan, ma era rimasto praticamente bloccato a quel nome.
Ivan annuì, mentre i suoi occhi tornarono a seguire la figura che stava risalendo il pendio verso il promontorio con gli alberi: «E' qui che... il dottor Gilmore ha passato gli ultimi anni della sua vita.», disse, tornando a voltarsi verso di lui «Ha vissuto in quella casa fino alla sua morte.», continuò, accennando alla costruzione che si stavano lasciando dietro «E ha continuato a fare ricerche nei suoi laboratori.», ora indicò la costruzione in lontananza «Ricerche volte a un utilizzo pacifico della scienza. La Fondazione si occupa anche di... opere umanitarie, elargisce borse di studio a livello internazionale e finanzia progetti scientifici di terze parti, se in linea con gli ideali della fondazione stessa.»
Joe sentì la voce di Ivan allontanarsi sulle sue ultime parole, e quando si voltò a guardarlo capì che era perché egli si era effettivamente allontanato da lui, per tornare sul suo cammino: «Ehi, aspettami!», disse, muovendosi per raggiungerlo quando era ormai sul sentiero che sembrava portare a quel promontorio.
«Adesso stiamo lavorando, in particolare, su un nuovo sistema di identificazione del DNA.», riprese Ivan, quando Joe lo ebbe raggiunto.
«State... lavorando?», chiese Joe, perplesso.
Ivan si voltò verso di lui, annuendo: «Sì, anch'io partecipo ai progetti di ricerca di questo istituto.», disse «A dire il vero, ora ne sono il direttore. Ma, per ovvie ragioni, non sono sempre presente. Ti sembrerà incredibile, perché, per quello che ne sai, io non ci ho praticamente mai vissuto. Ma... ho sempre sentito che il mio posto è a Mosca. A casa mia.», rise «Anche se, fra una cosa e l'altra... lasciamo perdere.»
Joe strinse le labbra, in un istintivo moto di comprensione.
«Se questo progetto sul DNA andrà a buon fine, sarà possibile identificare le persone anche da resti umani altamente deteriorati o grandi non più di un granello di sabbia.», continuò Ivan.
«Di che accidenti stai parlando?»
Ivan si voltò, annuendo: «Tu lo sai che il DNA è, in pratica, la mappa genetica di ogni individuo, nonché organismo vivente su questa terra.», disse, continuando a camminare «Sono scoperte che risalgono a qualche decennio prima... della tua epoca.»
«Ne ho sentito parlare da Gilmore, ogni tanto.»
«Bene. Oggi è possibile ottenere quella mappa a partire da... un capello, un frammento di pelle, un liquido organico come il sangue, il sudore o la saliva. Identificare da essi a quale individuo unico appartenga», continuò Ivan «Questo può permettere di risalire all'esecutore di un crimine, di dare un volto a un padre o a una madre ignoti, così come di individuare l'identità di una persona a partire dai suoi resti. E poter così restituirli alla famiglia e dare ad essi una sepoltura adeguata, o onorarli in qualunque altro rito funebre.», raccolse un profondo respiro «Ed è soprattutto per quest'ultimo motivo che la Fondazione sta mandando avanti questi studi. Guerre e attentati producono ogni giorno cadaveri senza nome rinvenuti in mezzo al nulla o all'interno di fosse comuni, o resti così piccoli da essere a malapena classificabili come “umani”. Molto spesso troppo deteriorati per poter essere utilizzabili. E poter dar pace a una famiglia.», sospirò «Mi sorprendo ancora quando... vedo famiglie che attendono da anni una risposta... ricevere la notizia che la persona cara di cui non sanno niente da tanti anni è morta. In quel momento uccidi la loro speranza. Eppure... per la maggior parte di loro è una liberazione. E' come se... la speranza fosse una prigione, da cui la verità ti libera.»
«Non è scritto nella Bibbia?»
Ivan lo guardò, solo fintamente sorpreso: «“Conoscerete la verità e la verità vi farà liberi”. Giovanni, 8,32.», confermò Ivan.
Joe si fermò: «E allora perché non vuoi dirmi la verità?»
Ivan si voltò verso di lui, inclinando la testa d'un lato, perplesso. O fingendo di esserlo.
«Non fare finta di non aver capito.», gli intimò Joe «Sto parlando della mia vita... o della mia morte. Non mi hai ancora fatto la grazia di farmi sapere.»
L'altro scosse la testa, sorridendo in quel modo irritante: «Joe...»
«Sono vivo o sono morto, Ivan?»
L'altro restò in silenzio qualche secondo, mentre quel suo sorriso sul volto si accentuava: «Io non posso rispondere...»
«Perché?!», urlò Joe «Perché non puoi rispondere? Perché... mi vuoi lasciare imprigionato?!»
Ivan sospirò, tornando a stringere le labbra in quel suo sorriso: «Perché non ho né la risposta, né le chiavi, Joe.», disse, tornando sui suoi passi, che, ormai era chiaro, portavano verso il promontorio degli alberi.
«Ivan, asp...»
L'urlo gli morì in gola, non appena la figura che poco prima aveva visto risalire il pendio, apparve nel suo campo visivo, distante ormai solo qualche decina di metri. Adesso perfettamente riconoscibile e decisamente poco diversa da come lo ricordava.
“... La speranza di vita di un cyborg dovrebbe essere inversamente proporzionale all'età in cui è avvenuta la trasformazione...”
E lui sembrava proprio lì a dimostrarlo.
«Pyunma...», sentì dire alla sua voce, mentre i suoi occhi ancora stentavano a crederci.
Si voltò per chiedere lumi a Ivan, ma lui era già parecchio lontano. Ormai più vicino al suo vecchio compagno africano, che a lui.
Si mosse per raggiungerlo, e quando questo successe, erano già giunti sul promontorio, dove il gruppo di alberi offriva una gradevole zona d'ombra, costeggiata da un parapetto sull'oceano che creava una sorta di altra terrazza sul mare. All'interno della quale era stata posta una panchina, ove sedevano due persone, che Joe non riconobbe dalla visuale di schiena che esse gli offrivano, ancora distanti una ventina di metri.
Una di loro era senz'altro una donna, a giudicare dalle forma delle spalle, e dai lunghi capelli lisci e corvini che scendevano dal suo capo fin dietro lo schienale della panchina.
L'altro era un uomo, dalla figura tozza e massiccia. Stranamente uniforme nei colori scuri dei capelli e del vestito.
La donna si voltò, e in quello stesso istante Pyunma fermò il suo passo, per poi sorridere quando lei mosse gli occhi verso la sua figura e gli sorrise a sua volta.
«Ciao, Miki.», le disse Pyunma, riprendendo a camminare verso di lei «Come stai oggi?»
«Sto bene.», gli rispose «Come tutti gli altri giorni.»
La ragazza lo seguì con lo sguardo, fino a che Pyunma giunse tanto vicino a lei da potersi sedere. Ma restò ancora in piedi, mentre Joe e Ivan continuavano ad avvicinarsi dall'altro lato, finché non arrivarono a poter vedere in volto la ragazza e l'altro occupante della panchina.
E Joe trasalì nel riconoscerlo, al punto da fare quasi un balzo indietro, che lo portò a sbattere contro Ivan.
«Sì, Joe.», gli disse l'altro, aiutandolo a puntellarsi e ritrovare il suo equilibrio «E' lui... com'era negli ultimi giorni. La scultrice è stata estremamente brava a riprendere i suoi più minimi particolari.»
Joe si voltò verso di lui, con l'ennesima domanda inespressa sulla punta della lingua.
«Passava molto tempo seduto su questa panchina, guardando l'oceano.», gli rispose Ivan «Ed è in questo punto che sono state sparse le sue ceneri.»
A quelle parole, Joe si scostò di scatto, quasi avesse davvero pestato una tomba, ma Ivan gli sorrise, stavolta in modo tranquillizzante.
«No, non ti preoccupare Joe.», gli disse, mettendogli una mano sulla spalla «Non è per terra. E' in mare.», disse accennando all'oceano davanti a loro «Ha voluto che fossero... “date al vento e all'oceano, perché il vento e l'oceano mi possono portare in tutti i continenti e in tutte le nazioni”.», sorrise, ma i suoi occhi, per la prima volta da che lo vedeva in quella forma, tremavano lucidi «Era scritto così nelle sue ultime volontà.»
«Sono per me quei fiori?»
La voce della ragazza riattirò l'attenzione e gli occhi anch'essi lucidi di Joe sulla sua persona. Anche da seduta, si indovinava la sua figura snella, e la posizione non accavallata, ma inclinata delle sue gambe rivelava una donna elegante, che aveva ricevuto una certa educazione.
«No, mi spiace, Miki.», disse Pyunma, alzando il mazzo che teneva in mano, e di cui Joe si accorse solo in quel momento.
E non poté che rimanere colpito dalla sua eterogeneità.
«Un girasole, una rosa... due rose, un giglio, un fiordaliso, un fiore di cactus, una peonia, un'orchidea e fiori di ciliegio.», disse la ragazza, elencando evidentemente i diversi elementi presenti nel mazzo stesso «E' un insieme piuttosto singolare e vario di... forme, generi e colori.»
Pyunma si mise a ridere: «Sì, lo è decisamente.», disse «Lo vuol essere.»
La ragazza sorrise, in un modo che Joe trovò magnetico e meraviglioso: «Vorrei potermi togliere questi occhiali da sole per poter vedere i colori reali, ma... mi hanno detto che... per ora è meglio evitare la luce diretta del sole.»
«Lo immagino.», disse Pyunma «Anzi, mi stupisco che tu già riconosca i singoli fiori.»
Lei sorrise di nuovo: «Oh, ma io li riconoscevo già dall'odore.», disse «E... ti confesso che ho passato molto tempo nella serra del dottor Gilmore.»
Pyunma rise: «E' da lì che li ho presi.»
«Ed è lì che io ho associato a ogni odore che conoscevo una forma e dei colori.», disse la ragazza «Adoro i colori... Ma perché... due rose?»
Pyunma alzò il mazzo a guardarlo, come se si rendesse conto solo in quel momento che, tra i fiori, esso ne conteneva due uguali, perfino nel colore: «Beh...»
«No, aspetta.», disse l'altra, alzando una mano per fermarlo «Vediamo se ci sono arrivata da sola... i fiori di ciliegio sono il Giappone, e il giglio è la Francia.»
Pyunma si limitò a sorridere, inclinando la testa in un silenzioso invito a continuare.
Lei ricambiò quel sorriso: «Il girasole è la Russia, una rosa è gli Stati Uniti e l'altra è la Gran Bretagna. Il fiordaliso è la Germania e la peoniaè la Cina.», raccolse una profonda boccata d'aria, come se adesso arrivasse la parte difficile «Il fiore di cactus... beh, presumo che rappresenti i nativi americani, essendo diffuso in Arizona. E l'orchidea... il Kenya?»
Pyunma annuì: «Non abbiamo un fiore come simbolo nazionale.», disse «Ma se esistesse, sarebbe l'orchidea tropicale.»
La ragazza annuì, sorridendo: «Non lo sapevo.»
Pyunma annuì di nuovo, guardando un'ultima volta il mazzo, prima di donarlo al mare per sempre «Ogni volta che veniamo qua, lanciamo un mazzo di fiori come quello nel mare.»
«Un po' come portare fiori alla sua tomba.»
Pyunma si limitò ad annuire, mettendosi a sedere accanto a lei: «Esatto.», disse «Per ovvie ragioni... sono soprattutto Jet e Ivan a fare questo rituale. Ma... adesso potrò farlo più spesso anch'io. E comunque è un gesto a nome di tutti. Non è mai stato un gesto della singola persona.»
«E' un gesto molto bello.», disse lei.
«E' il minimo che possiamo fare.», replicò Pyunma.
La ragazza annuì: «Per caso sei venuto a prendermi per andare all'aeroporto?»
Pyunma scosse la testa: «No, c'è ancora molto tempo prima del volo.», disse, rilassandosi allo schienale della panchina, quasi a rafforzare le sue parole «Puoi goderti tranquillamente questa bella giornata. Anche se è effettivamente un peccato che tu debba tenere gli occhiali da sole.»
«Non mi dire così, o mi viene la tentazione di toglierli.», gli disse ironica «“So resistere a tutto, fuorché alle tentazioni”.»
Pyunma alzò gli occhi al cielo: «Oh, per favore. Non ti mettere a citare Wilde e Shakespeare a ogni pie' sospinto, come quel matto di un inglese.», disse «E non provarti a togliere gli occhiali.»
La ragazza rise: «Va bene, “papà”!»
L'altro scosse la testa, ridendo: «Magari!», disse quasi ridendo «Ma non credo che tuo padre sia contento che tu mi chiami così. Io mi offenderei.»
Lei scrollò le spalle: «Mio padre l'ho sempre chiamato nel suo modo particolare.», disse «E quello lo riservo a lui.»
Pyunma si limitò ad annuire, tornando a guardare il mare: «Sei sicura di non voler chiamare a casa, per avvertire che stai arrivando?»
Lei scosse la testa: «No.», disse «Voglio fare loro una sorpresa.»
«Come preferisci.», rispose Pyunma, sorridendole «Ma spero che almeno tu abbia chiamato per far sapere loro come è andata.»
«Certo, non sono così cinica.», disse lei, seguendo con gli occhi un gabbiano «Li ho chiamati per dire loro che è andato tutto bene.»
Pyunma accennò un sorriso, in qualche modo malinconico: «Nessun rimpianto?»
Lei si voltò a guardarlo, sorpresa: «Stai scherzando?», gli chiese, quasi incredula «E' stata una mia scelta, e la rifarei... sempre. Tutte le volte.», disse, tornando ad abbracciare l'oceano con gli occhi «Sopratutto adesso che so che... cosa non ho avuto per tutta la mia vita. Sai, si dice che non ci si renda conto di cosa si ha... finché non lo si perde.»
L'altro annuì, sorridendo amaro: «Lo so bene.»
«Già, ma...», si voltò verso di lui e gli posò una mano sulla spalla «E' anche vero che non si sa che ciò che ci manca... finché non lo si ha.»
Pyunma si limitò a voltarsi verso di lei, rimanendo nel suo silenzio.
«Non mi fraintendere.», continuò la ragazza «Sono... Ero cieca dalla nascita e non ho mai sentito il peso della mia mancanza, e non lo sento neanche adesso. E non l'ho fatto perché mi sentivo... diversa. Nessuno mi ha mai fatto sentire diversa. Sono stata la più... fortunata e amata delle figlie. E questo amore include... le facilitazioni che non mi sono mai state date.»
«I tuoi genitori volevano che tu... fossi in grado di vivere autonomamente.», le disse Pyunma, accennando un sorriso.
«Lo so.», annuì lei «E infatti ho imparato a vivere da persona autonoma, nonostante il mio handicap. E anche grazie a questo, non mi è mai pesato essere cieca.», un altro gabbiano passò sopra le loro teste, e entrambi lo seguirono con gli occhi.
«Ma ora... il mio mondo è completo. Tutti i suoni e gli odori di cui esso era composto, adesso possono avere una forma e dei colori.»
Pyunma restò qualche istante in silenzio, fino a sorridere: «Allora... benvenuta fra noi, Miki.»
Lei si voltò a guardarlo, accennando un sorriso: «Andiamo, Pyunma. Lo sai che non ho mai fatto differenza tra “noi” e “voi”. Sinceramente, non mi sono mai nemmeno posta il problema.», sospirò «Che cos'è che ci rende umani?», gli chiese «E cos'è che ci fa smettere di esserlo? Forse questo impianto che ho adesso ho negli occhi mi rende... meno umana di quanto fossi prima?»
Pyunma scosse la testa: «No, certo che no, Miki.»
La ragazza, che Pyunma aveva chiamato Miki, tornò a guardare l'oceano avanti a sé: «Mi rendo conto che per voi sia... più complicato. Siete divenuti quello che siete... contro la vostra volontà, con l'obiettivo di rendervi degli strumenti di guerra.», gli sorrise «Ma... Io sono la dimostrazione che questa cosa può essere utilizzata a fin di bene. Finalmente potrò sapere che volto hanno... la voce dolce di mia madre e le spalle di mio padre.», rise «E quella peste di mio fratello. Perfino il mio cane... E come me, in futuro, altre persone potrebbero riavere qualcosa che hanno perduto. Per una mina, una granata, un proiettile. O qualcosa che non hanno mai avuto.»
Pyunma sorrise insieme a lei: «Hai ragione. E in fondo...», accennò alla figura di bronzo seduta accanto a lei «Era questo il suo vero sogno.»
«Questo riprende esattamente il volto d'argilla che avevo fatto io?», gli chiese, guardando la figura scolpita accanto a lei, e facendo spalancare gli occhi a Joe.
Pyunma annuì: «Sì. Era esattamente così.», rispose «E ti assicuro che non te lo dico per adularti.»
Miki si voltò di nuovo verso di lui, e gli sorrise: «Io assomiglio più a mio padre o a mia madre?»
Pyunma la squadrò, come se anche lui si facesse quella domanda per la prima volta in vita sua, ma poi scosse la testa: «Credo che te lo lascerò scoprire da sola.», rispose.
«Va bene», ribatté lei, ridendo di nuovo, con la leggerezza di una piuma che si posa sull'acqua «E di quello... cosa pensi?», gli chiese, accennando a un giornale che gli spuntava dalla tasca del giaccone, e su cui si intravedeva la faccia sorridente di quell'uomo di colore che Ivan aveva detto a Joe essere stato appena eletto presidente degli Stati Uniti.
Pyunma tornò a posare la sua attenzione su di lei: «Chiedimelo fra cinque anni.»
La ragazza scrollò le spalle: «Beh, parliamo di un afro-americano che è diventato l'uomo più potente del mondo.», disse «Io non ho capito la differenza fino ad ora, ma conosco abbastanza bene la storia, per sapere che il colore della sua pelle fa di questo fatto una svolta storica.»
«Ed è questo il punto?», le chiese Pyunma, sorridendo come avrebbe fatto ad un bambino «E se fosse stato un bianco? Si sarebbe tutto questo clamore?»
Le linee di espressione sul volto di lei si accentuarono: «Non puoi negare che il fatto che un uomo di colore sia stato eletto presidente degli Stati Uniti... sia qualcosa di storico.»
«Non lo nego.», disse lui, scuotendo lievemente la testa «E come... uomo di colore, non posso che essere... felice di questa cosa. Ma... il non giudicare un uomo dal colore della sua pelle...»
«Non vale solo in un senso.», completò lei.
Pyunma annuì: «Siamo nel 2008, e oggi ancora più di prima, un uomo va giudicato per le proprie idee, e per quello che mette in pratica.», disse «Certamente Obama ha buone idee, ma adesso è chiamato alla prova dei fatti. E' questa la vera sfida. Non mettere un uomo di colore su quel trono.», scrollò le spalle «Per questo ti dico di rifarmi la stessa domanda fra cinque anni.», continuò, sorridendo «Spero che non passerà alla storia soltanto per essere stato il primo presidente afro-americano degli Stati Uniti. Anche se questo è senz'altro un fatto degno di nota che... oggi rende gli uomini un po' più uguali.», scrollò di nuovo le spalle «Ma forse sono io che... non do più tanto peso a certi particolari. Ma nemmeno tu dovresti, no? Forse più di chiunque altro.»
La ragazza annuì, stringendo le labbra: «Sai... c'è un posto dove vorrei andare, prima di... partire.», disse «Chissà quand'è che potrò tornare a New York...?»
«Beh, i tuoi concerti ti portano qui molto spesso.», disse lui.
Miki annuì, sorridendogli: «Sì, ma non quanto vorrei.», disse «E ci sono molti posti che vorrei... vedere, e molte cose che vorrei fare prima di... riprendere la mia attività di musicista.»
«Per esempio?», chiese lui.
Lei scrollò le spalle: «Beh... vedere le foto del mio matrimonio e di famiglia, riempirmi gli occhi delle immagini di mio figlio e di mio marito... vedere tutti quei quadri di cui ho sentito parlare e che conosco solo di fama... visitare le città... imparare a leggere.», disse ridendo e accennando ancora al giornale «Credo che sia inutile saper parlare sei lingue, se non si sa leggere e scrivere nemmeno in una.»
Pyunma rise: «Auguri.», disse «E tu volevi che tu insegnassi anche lo swahili.»
La ragazza rise: «Perché non sai che ho chiesto a Geronimo di insegnarmi anche la lingua dei nativi.»
«Tu sei pazza.», disse Pyunma scuotendo la testa «Ma cos'è che volevi fare, prima di andare via da New York?», le chiese «Il Ponte di Brooklyn, la Statua della Libertà, Ellis Island...»
Lei sorrise: «Vorrei vedere Ground Zero.», disse «Pensi sia possibile?»
Pyunma rimase immobile qualche istante, prima di annuire: «Sì.», disse, sospirando e guardando il suo orologio «Ma dovremmo partire subito, allora.»
Pyunma si appoggiò sul parapetto del passaggio pedonale del ponte di Brooklyn, distogliendo gli occhi dalla visuale di Manhattan che si raccoglieva da quel punto di vista privilegiato, per posarli sulla ragazza accanto a lui. Che fissava lo stesso identico quadro da ormai qualche minuto a quella parte.
«A cosa pensi, Miki?»
Lei inclinò la testa d'un lato, come se volesse guardare meglio: «Non so se... è suggestione.», disse «Intendo... io non ho mai visto com'era prima... cosa c'era prima. Ma... si vede che manca qualcosa.», sospirò «O forse sarebbe più esatto dire... che qualcosa non c'è più.»
Joe era in piedi accanto a lei, e si voltò al suo indirizzo, alzando le sopracciglia nel ritrovare tanto simile il suo pensiero. Anche lui stava fissando quella stessa scena da altrettanti minuti. E anche a lui mancava qualcosa in quell'immagine che aveva davanti agli occhi, ma non riusciva a inquadrarlo nella sua memoria. Era come una parola rimasta sulla punta della lingua.
E Ivan non era lì per rispondere alle sue domande. Anche se avrebbe giurato che lo stesse controllando in qualche modo.
«Che cosa stavi facendo quel giorno?»
La voce di Pyunma gli venne nitida alle orecchie, tanto che pensò che la domanda fosse rivolta a lui. Ma ovviamente non era così.
«Stavo... suonando al piano.», rispose la ragazza, mentre i lineamenti del suo volto, ancora nascosti dai grossi occhiali da sole, accennavano la malinconia dei suoi ricordi «Improvvisavo, in cerca di un'ispirazione Ricordo che squillò il telefono di casa... e risposi... Non mi dette neanche il tempo di dire... “Pronto”... “Io sto bene, amore. Non ti preoccupare. Stiamo tutti bene...”... E io: “Ma di cosa stai parlando? Perché non dovresti stare bene?”... E lui: “Non hai ancora saputo... le ultime notizie?”. E quindi accesi la radio, e lo seppi.»
Pyunma annuì lentamente: «Io stavo bevendo un caffè.», disse «E le immagini apparvero sulla tv del bar.», sospirò «E'... buffo. Non ricordo... nemmeno il caffè che ho bevuto stamattina... dove l'ho bevuto, i volti degli altri clienti e della cameriera. Ma ricordo... perfettamente quel caffè. Ricordo... il sapore che aveva, la faccia degli altri clienti del locale, il preciso colore dei mobili, gli odori. Ricordo tutto di quel giorno.».
«Non so quale essere umano non ricordi che cosa stesse facendo in quel momento.», disse lei «Da qualunque parte della barricata egli stia.»
Pyunma si tirò su sulle braccia, lasciandole distese sul parapetto: «E' una ferita ancora terribilmente aperta e dolorante, che non cicatrizzerà mai.», disse, sospirando «Per questa città... per tutti gli Stati Uniti e... per tutto l'occidente. Credo che... per impatto emotivo e portanza storica... l'11 settembre sia paragonabile a Hiroshima e Nagasaki.»
“Hiroshima e Nagasaki...”, si ripeté Joe, chiedendosi cosa potesse essere paragonabile alla più grande tragedia dell'umanità.
Miki strinse le labbra, tornando a guardare avanti a sé e mostrando a Joe il suo profilo: «Però quegli eventi portarono alla fine di una guerra.», disse «Questi... ne hanno generata una.»
Pyunma sospirò, mentre si avviava a piedi, invitando la ragazza a fare altrettanto: «Che cosa avresti pensato se avessero colpito il cuore della tua città? Il tuo paese?», le disse «Se fossero morti duemila-settecento-cinquantadue innocenti? Persone che magari avresti potuto incrociare per strada, in metropolitana. Che avresti potuto avere sedute accanto a te al cinema, in un bar o a una partita di basenall. Persone al posto delle quali avresti potuto esserci tu.», continuò «Non ti dico... adesso... Ma in quel preciso momento, che cosa avresti pensato? Come avresti reagito? Credi veramente che saresti stata capace di lasciarti scivolare tutto addosso?»
Miki lo fissò per qualche istante, fino a che anche lui non si voltò a incontrare i suoi occhi.
«Non sono parole mie.», le disse «Fu Jet a sputarmele addosso, e me le ricordo una per una. “Voi non potete capire.... Non eravate là in mezzo con l'odore di cemento, fumo, sangue e morte che ti entrava nelle narici e si attaccava all'anima”. Era in preda alla collera, come spesso gli capita... ma forse aveva ragione.», scosse la testa «Quell'odore, in realtà... l'avremo sentito chissà quante volte. Ma... dev'essere decisamente diverso quando... quegli odori provengono dagli edifici della tua città che crollano o vanno in fiamme, o dai... tuoi concittadini e i tuoi amici che muoiono... senza nemmeno sapere il perché.»
La ragazza restò qualche istante in silenzio, lasciando disperdere il suono di quelle parole nel mormorio di sottofondo della metropoli: «Ma io credo che nemmeno lui abbia mai pensato che quella guerra fosse la soluzione giusta.»
Pyunma annuì: «Sì, lo so.», disse «Lui è sempre... stato un istintivo. La riflessività non è mai stata... una sua qualità.», rise, cercando la complicità della ragazza «Allora era... molto arrabbiato. Furioso. Come tutti qui.»,disse, roteando il dito in aria «E non parlo solo di New York o di tutti gli Stati Uniti. Probabilmente parlo anche di buona parte dell'occidente e del mondo civile.», ritornò a guardare il profilo di Manhattan, mentre continuavano a camminare «Nessuno di noi può... credere che esistano “guerre giuste”. Sarebbe come negare noi stessi, e tutto quello che abbiamo fatto. Però... un'altra cosa che abbiamo... imparato dalla nostra esperienza... nostro malgrado... è che... anche se nessuna guerra è giusta, a volte è necessario combattere, che lo si voglia o no... Ma forse non era quello il caso, il modo... o il momento.», disse «Ma gli uomini restano animali istintivi, e non ragionano con il senno di poi. Sappiamo bene quanto... il risveglio dei nostri peggiori istinti e sentimenti ci possa rendere vulnerabili, e deboli.», strinse le labbra per un attimo, raccogliendo un grosso sorso d'aria «Facendoci sentire forti come leoni allo stesso tempo. Io sono cresciuto in mezzo agli animali, e so meglio di chiunque altro che è proprio... quando essi si sentono vulnerabili che... attaccano per difendersi... E' un istinto primordiale. E in fondo... gli uomini non sono che animali evoluti.»
Camminarono rimanendo praticamente in silenzio, fino alla fine del ponte di Brooklyn, per poi addentrarsi nelle strade di Manhattan. Non era molto cambiata, da come la ricordava Joe. Era il solito suo viavai continuo e ininterrotto di persone e storie, che si incrociavano, incontravano e scontravano sullo scenario di una città che ama specchiarsi nella sua grandiosità e alimentarsi del suo mito.
Era solo più moderno.
E le strade erano forse più strette di come le ricordava. O erano semplicemente più affollate di allora.
Un passante urtò contro la ragazza, e Joe, come era successo per il vecchio sull'autobus di Berlino, si mosse istintivamente per non farla cadere. Ma fu lei stessa a stringersi al braccio di Pyunma, riuscendo a mantenersi in piedi.
«Tutto a posto, Miki?», le chiese lui, sorreggendola con entrambe le braccia.
Lei annuì: «Sì, scusami.», gli rispose, sorridendogli «Non sono abituata... a vedere la moltitudine.», disse «Muoversi fra le persone usando la vista è diverso che farlo usando solo l'udito e la prossimità. E non ho il mio cane.»
Pyunma le sorrise; «Ti sei spaventata?»
Lei scosse la testa, mentre riprendeva a camminare tenendosi al suo braccio: «Non esattamente. Mi sono... persa.», disse «Credo che una delle altre cose che dovrò imparare sia riuscire a coordinare gli occhi con il resto dei miei sensi. Sono convinta che mi muoverei con molta più disinvoltura se adesso mi bendassi gli occhi. Dovrò solo abituarmi.»
«Non preoccuparti.», le disse «E' normale.»
Lei si voltò a guardarlo: «Cosa... cosa vuoi dire?»
Pyunma sorrise, ma in un modo più amaro che ironico: «Non sai quante cose ho rotto per aver messo troppa forza nei miei movimenti.», disse «Improvvisamente mi trovai con tutta questa forza, in grado di rompere un muro con un pugno o abbattere un albero con un calcio, fare salti di dieci metri, quando volevi solo saltare una pozzanghera... Come tu adesso con la tua vista. Dovrai imparare a gestirla, come abbiamo fatto tutti noi.»
Joe annuì, insieme alla ragazza, ormai aduso all'idea che lei conoscesse lo status di cyborg di Pyunma, quanto di tutti loro. E di nuovo si sorprese a chiedersi se lui facesse ancora parte di quel gruppo, o fosse ormai cibo per i vermi o... roba per lo sfascio.
«Che cosa ne dici di New York?», sentì dire a Pyunma, trovando in ciò la scusa per distogliersi da quei pensieri lugubri.
Miki rise, alzando gli occhi verso l'alto: «Che ora ho capito perché li chiamano “grattacieli”.»
L'altro rise, annuendo e alzando gli occhi come lei: «Già.»
«E tu che cosa ne dici di New York?»
Pyunma sospirò: «Che mi manca la mia terra.», disse, guardandosi intorno come se si trovasse lì per la prima volta «Questa giungla di cemento mi fa... mia pensare ancora con più nostalgia alle savane del Kenya.»
«Eppure mi sembra che tu ti sia ambientato bene.», disse lei, ridendo.
L'altro sospirò, alzando le spalle: «Sai, un vecchio proverbio delle mie parti dice che... una zebra non può cancellarsi le strisce.»
Lei sorrise in un modo strano, come di chi avesse portato il proprio interlocutore esattamente dove voleva condurlo: «Appunto.»
Pyunma si voltò a guardarla perplesso e interrogativo, ma un suono elettronico irruppe in mezzo a loro, e lui andò subito a rovistare nella sua tasca estraendone un cellulare: «Scusami.», disse, rivolto alla ragazza, che gli fece appena un cenno con il capo, mentre lui si portava l'apparecchio alla testa «Pronto?... Certo... No, di' all'ambasciatore che stasera non posso... Non so... domani?... Bene, allora fammi sapere. Basta anche un SMS... Ok. A domani.»
La ragazza lo guardò interrogativa, mentre proseguivano a camminare.
«La mia segretaria.», rispose lui, a quella domanda silenziosa.
«Ambasciatore?»
Pyunma annuì: «Sì, l'ambasciatore del Kenya voleva incontrarmi stasera a cena, a Washington.»
Alla ragazza non si potevano vedere gli occhi, ma il resto del suo volto bastava ad esprimere il suo stupore: «Spero non sia io la causa del tuo rifiuto...»
«Miki, ceno con l'ambasciatore almeno una volta a settimana.», disse lui «Non cadrà il mondo, se per una volta sposto l'appuntamento.»
«Immagino sia tra i tuoi doveri di rappresentante del Kenya all'Assemblea Generale dell'ONU.», disse lei.
Pyunma annuì, sbuffando: «Immagini bene.»
I lineamenti sul volto di lei si incupirono: «Cos'è quella faccia?»
Lui sospirò annuendo: «Sai, non ero convinto nemmeno quando me lo proposero, ma adesso lo sono ancora di meno di aver accettato quest'incarico.»
Lei sembrò sorpresa: «Pensavo fosse un riconoscimento importante.», disse lei, quasi amareggiata per riflesso a quello che vedeva nel suo volto.
«Lo è.», confermò lui «E sono estremamente onorato di aver avuto questo incarico. Ma... ho sempre saputo che non è dalle stanze dei bottoni che si risolvono i problemi. E ora ne ho la più... assoluta conferma.»
«Credo di capire.», disse lei, grave.
Pyunma scrollò le spalle: «Almeno... facevo in modo che si aprissero scuole e ospedali, toglievo i ragazzi dalla strada e dalle guerre, e insegnavo ai genitori come riuscire a sfamarsi e creavo per loro opportunità di lavoro.», disse «Qui discutiamo e discutiamo, e quando si arriva a qualcosa di concreto... è già inutile.»
Miki strinse le labbra, amareggiata almeno quanto lui: «Non dev'essere facile mettere d'accordo tutto il mondo.»
«Non finché ogni singola nazione del mondo guarda solo ai propri interessi.», disse, per poi scuotere la testa «Se vuoi arrivare primo, corri da solo. Se vuoi arrivare lontano, cammina insieme...»
«Un altro proverbio?», chiese lei.
Pyunma annuì: «Sì, ma qui corrono tutti per conto proprio. E ovviamente, tutti non possono arrivare primi...»
«E' qui?»
Lui si fermò insieme a lei, guardando avanti a loro. Da una strada, erano sbucati sul limite di quella che sembrava una profonda ed enorme voragine quadrata a cielo aperto, all'interno della quale si muovevano gru, mezzi di escavazione e costruzione ,e operai. Era come un enorme punto vuoto in mezzo ai palazzi che lo circondavano e a Joe vennero in mente le parole che aveva sentito dalla voce della ragazza sul ponte di Brooklyn.
“... Manca qualcosa...”
La ragazza si mosse ancora di qualche passo, fino a toccare la rete che divideva quella specie di cantiere dal resto del mondo, e che le impediva di andare oltre.
«E' qui.», le confermò solo in quel momento Pyunma, avvicinandosi fino a finirle accanto «E' come una tomba.», scosse la testa «Ho visto tutto questo in piedi e... mi sembra ancora incredibile che ora sia rimasta soltanto polvere... e questo vuoto.»
«Beh, anche la polvere può diventare una montagna.», disse lei.
Pyunma annuì, accennando appena un sorriso: «Già, hai ragione.», poi corrugò la fronte, voltandosi verso la ragazza «Che cosa intendevi dire... prima?»
Lei aggottò le sopracciglia, dietro gli occhiali scuri: «Prima?»
«Quando... ti ho detto della zebra che non può cancellarsi le strisce.»
Miki sorrise, annuendo: «Mi riferivo... a “noi” e a “voi”.»
Pyunma la fissò per qualche istante, fino a sorridere e ad annuire lentamente: «Sì, è chiaro... E hai ragione.», disse, guardando il suo orologio «Hai voglia di mangiare qualcosa, prima di andare via?»
Lei si voltò verso di lui annuendo: «Muoio dalla voglia di mangiare un hamburger e... sapere finalmente come è fatto.»
Pyunma rise, porgendole il braccio: «Allora andiamo. Jet mi ha mostrato un posto qui vicino dove li fanno buonissimi.»
«Sì, credo sia lo stesso dove ha portato me, un paio di volte.», rispose lei, mentre si avviavano.
Joe si mosse per seguirli, ma una mano gli afferrò una spalla, e ovviamente non si sorprese di ritrovare il volto di Ivan, quando si voltò indietro. Ma gli occhi dell'altro non si incrociarono con i suoi. Seguivano i due che si stavano allontanando, mentre New York si tingeva dei colori tenui del tramonto, preparandosi a disegnare la notte con le sue mille luci.
«Che cosa c'è?», chiese Joe all'altro,
Lui si concesse ancora qualche istante di assenza in quella sua strana malinconia, voltandosi a guardarlo solo quando Pyunma e la ragazza ebbero girato l'angolo, uscendo dalla loro visuale: «Niente.», disse «Assolutamente niente.»
Joe guardò un'altra volta verso il punto in cui i due erano scomparsi, lasciandosi catturare di nuove dalla triste consapevolezza che quella sarebbe stata l'ultima volta in cui avrebbe visto un suo compagno. Ma anche quella ragazza aveva suscitato in lui una certa curiosità, che l'aveva resa un chiodo fisso nella sua mente: «La conosci anche tu, vero?», chiese «Mi pare chiaro che... lei conosce tutta la storia.»
Ivan annuì: «Sì, la conosco.», rispose, guardando adesso verso quell'enorme cantiere oltre la recinzione.
Joe fu indotto a fare la stessa cosa, e si rese conto di avere finalmente l'opportunità di fare tutte quelle domande che erano sorte spontanee nel sentire la conversazione fra Pyunma e la ragazza: «Che accidenti è successo qui?»
Ivan si voltò verso di lui, inclinando il capo d'un lato, mentre la sua bocca si storceva in una smorfia: «Ora che ci penso... non era da molto che erano state costruite... e non facevano ancora parte dell'immaginario collettivo.», disse «Ti dice niente... “World Trade Center”? Tra l'altro fu un architetto giapponese a progettare la maggior parte degli edifici.»
Joe corrugò la fronte, mentre cercava nei suoi ricordi qualcosa da associare a quel nome, che non gli era affatto nuovo. Poi le sue sopracciglia si alzarono, mentre un flash gli attraversava la testa: «Certo, Jet ne parlava qualche volta, e...», spalancò di nuovo le sopracciglia, mentre l'immagine più recente dello skyline della New York del “suo tempo” si sovrapponeva a quella che aveva visto in “quel tempo”, evidenziando finalmente il pezzo mancante del quadro «Mancavano due torri..»
Ivan annuì: «La Torre Nord e la Torre Sud.»
Joe lo guardò con un enorme punto di domanda disegnato in volto, senza nemmeno sapere che cosa chiedere esattamente, mentre si voltava di nuovo verso quella sorta di grande cantiere: «Era... qui che sorgevano...»
L'altro annuì, mordendosi le labbra: «E' successo sette anni fa. Alle ore 8.46 dell'11 settembre 2001 il volo American Airlines 11, partito alle 7.59 da Boston, e diretto a Los Angeles, si schiantò contro la Torre Nord.», disse, voltando i suoi occhi verso l'enorme cratere rimasto lì a imperitura memoria «Alle ore 9.03, quando le immagini della Torre Nord in fiamme erano ormai in mondovisione, il volo United Airlines 175, partito anch'esso da Boston alle 8.14 e diretto a Los Angeles, si schiantò contro la Torre Sud. Questa fu anche la prima a crollare, alle ore 9.59. La Torre Nord crollò alle ore 10.28.», sospirò, e Joe ebbe la sensazione che la sua voce tremasse «Era un giorno lavorativo, un martedì. Nel solo attacco alle torri, morirono più di duemilasettecento persone...»
«“Duemilasettecentocinquantadue innocenti”.», ripeté Joe, ricordando le parole sentite dalla voce da Pyunma poco prima.
Poi si voltò, di nuovo verso Ivan, con sempre più domande in testa. Ma lui aveva ripreso a camminare, e non poté fare altro che muoversi per raggiungerlo.
«Furono più di tremila le persone che morirono negli attentati di quel giorno.», riprese Ivan, quando Joe lo affiancò.
«Attentati?», chiese Joe, spalancando gli occhi «Ce ne fu più di uno?»
Ivan raccolse una grossa boccata d'aria. Sembrava si sentisse quasi male, in quel momento: «Alle 9.37 il volo American Airlines 77, in volo da Washington a Los Angeles, colpi la facciata ovest del Pentagono.», continuò «Alle ore 10.03 il volo 93 della United Airlines, partito da Newark alle ore 8.42 con destinazione San Francisco, si schiantò a Shanksville, in Pennsylvania. Se i passeggeri a bordo non fossero intervenuti contro i terroristi, si pensa che il suo obiettivo finale sarebbe stato la Casa Bianca.»
Joe rallentò il passo fino, a fermarsi: «World Trade Center... Pentagono... Casa Bianca...»
«Ci sei arrivato anche tu, vero?», gli disse Ivan, bloccatosi pochi passi avanti a lui.
Joe alzò gli occhi: «Potere economico... militare... e politico.»
Ivan si limitò ad annuire, lasciando a Joe il tempo per le proprie riflessioni.
«Chi è stato, Ivan?»
L'altro riprese a camminare e Joe si mosse di nuovo per raggiungerlo.
«La versione ufficiale dice che è stato il terrorismo di matrice fondamentalista islamica.», disse Ivan, quando Joe si fu rimesso in pari «Un'organizzazione internazionale chiamata Al Qaeda, che opera sotto il comando di un uomo chiamato Osama Bin Laden.»
Joe scosse la testa confuso: «“Versione ufficiale”?»
Ivan scrollò le spalle: «Lo sai come vanno queste cose... Non è cambiato molto. Alla gente piacciono un sacco le teorie di complotto.», spiegò «Alcune di queste dicono che sia stato lo stesso governo degli Stati Uniti, in cerca di un pretesto per cominciare la guerra in Medio Oriente. Partendo dall'Afghanistan, dove si dice si rifugi Bin Laden sotto la protezione delle autorità locali, i “talebani”, per poi... passare all'Iraq di Saddam Hussein e, chissà, forse arrivare all'Iran.», si voltò verso Joe, che sentiva tutta la sua confusione contorcergli il volto «Scusami. Troppe informazioni e troppo in fretta. Comunque una storia terribilmente contorta e complicata, che ti risparmierò.»
Joe non ebbe voglia di ribattere, realmente troppo stordito dalla mole di novità che gli aveva vomitato addosso nel giro di pochi secondi. Forse proprio per questo ritornò alla sua domanda di partenza: «E la verità qual è?»
Ivan scrollò di nuovo le spalle, contorcendo il viso in una smorfia quasi di disgusto: «La verità è che non sapremo mai la verità.», disse «E qualunque sia, fa schifo.»
«Mi avevi detto... che la guerra fredda era finita...»
Ivan sbuffò, ma Joe ebbe la sicurezza che non fosse spazientito nei suoi confronti. Ma che quella maltolleranza originasse da qualcosa che in lui stava cominciando ad attanagliargli le viscere.
«Questa non è la guerra fredda. E' molto peggio della guerra fredda, Joe.», disse «Qui non c'entra niente la politica e la diplomazia. Non ci sono trattative. Per queste persone... non esistono “innocenti”. Usano la religione... per ingrassare i propri eserciti di giovani pronti a buttarsi addosso a un obiettivo alla guida di un aereo carico di carburante o un furgone pieno di esplosivo. Pensa un po... li chiamano kamikaze.»
Joe strinse gli occhi in una smorfia di rabbia e impotenza.
«Sai...», continuò Ivan «Se l'Unione Sovietica si fosse retta su una religione, anziché un'ideologia...»
«Esisterebbe ancora.», completò Joe.
Ivan annuì: «Esatto.», disse «Non c'è niente di meglio, per convincere una persona, che dirgli di fare qualcosa perché è Dio a chiederglielo.», scosse la testa «Io non credo negli uomini, ma credo in Dio. E... mi chiedo quale Dio possa volere una cosa del genere e chiederla al suo popolo.»
«A cosa è servito?»
Joe aveva appena sussurrato quelle parole, e non era esattamente una domanda rivolta al suo compagno di viaggio. Ma lui si voltò lo stesso, mostrandogli di nuovo quel suo sorriso onnisciente sul volto, che stavolta aveva una nota più malinconica del solito a caratterizzarlo.
Joe lo guardò in silenzio, per qualche istante, senza quasi rendersi conto di essersi fermato: «A cosa è servito combattere, Ivan?»
L'altro sospirò, continuando a rimanere nel suo silenzio, prima di riprendere a camminare, offrendogli di nuovo nient'altro che le spalle e il suo silenzio impenetrabile.
Joe lo guardò allontanarsi per qualche secondo, mentre sentiva di nuovo la rabbia che veniva a stringergli le mani in due pugni: «A cosa è servito combattere, Ivan? Che cosa è cambiato?», gli urlò «Non sai rispondere nemmeno a questo? O, di nuovo, non puoi?!»
Ivan si fermò e si voltò verso di lui, fissandolo con uno sguardo enigmatico, quanto inespressivo, mantenendo imperterrito il suo mutismo. Poi arcuò appena le labbra, in un sorriso che sembrava ironico, pietoso e compiacente al tempo stesso: «Tu credevi di poter cambiare il mondo, Joe?»
L'altro scosse la testa, ma non per negare, quanto perché si sentì incredibilmente stupido nel rendersi conto che la risposta a quella domanda era sì: «Ero un ingenuo, vero?»
«Eri un sognatore...»
«Non è servito a niente.», sputò Joe «E' stato tutto inutile...»
Ivan tornò su qualcuno dei suoi passi, scuotendo la testa e avvicinandosi a lui: «Questo non è vero...»
«Come fai a dirlo!?», urlò Joe, mettendo tutta la propria rabbia nella sua voce «Con che coraggio... mi mostri tutto questo...», disse abbracciando quel cratere di morte che era ancora lì accanto a lui, e con esso, idealmente, il mondo intero e tutti i suoi problemi «Come fai a mostrarmi tutto questo e a raccontarmi tutto quello che mi hai raccontato... e poi venirmi a dire che non è vero che non è servito a niente. Che non è stato tutto una grande perdita di tempo...?»
«Joe, gli uomini combattono tra di loro dall'alba della loro comparsa sulla terra.», disse Ivan, scuotendo la testa «Questo non cambierà mai. Ieri era l'ideologia, oggi è la religione, come lo è già stata in passato. Domani ci sarà un altro pretesto.»
«Quindi è solo una ruota che gira...»
«Né tu, né io, né nessun altro può cambiare questo.», sibilò Ivan «Cosa vorresti fare? Fare tabula rasa di tutta l'umanità?», restò in silenzio, dando a Joe il tempo di assimilare la sua domanda e sentire tutto il peso di essa «Non servirebbe a niente. Lo sai tu, come lo so io... Prima o poi gli esseri umani riprenderebbero a farsi la guerra, perché è nel loro istinto. Nel loro D-N-A.», disse scandendo e trascinando ogni singola lettera di quella sigla «Così come gli animali che segnano il proprio territorio e lottano con i propri simili per difenderlo o conquistarlo. E' nella nostra natura.», concluse, scandendo di nuovo ogni singola sillaba delle sue ultime parole.
Joe annuì e scosse la testa allo stesso tempo, esalando un profondo respiro attraverso le narici: «E allora, a maggior ragione, a cosa è servito Ivan?», gli chiese, sentendo tutto il proprio scoraggiamento e amarezza in quella domanda.
Il sorriso di Ivan si trasformò di nuovo in quello di un padre che si rivolge a un figlio capriccioso: «Grazie a noi... ci sono più uomini liberi, e possibilità. E forse è anche merito nostro se... oggi un afro-americano può diventare l'uomo più potente del mondo.», disse «Abbiamo salvato delle vite e abbiamo dato delle speranze. Ma...», scosse la testa «Mi dispiace, ma non puoi pretendere che il mondo cambi all'improvviso, e probabilmente non succederà mai. La razza umana continuerà a perpetrare guerre e non abbandonerà l'uso delle armi. Continueranno a esistere discriminazioni e povertà. E la civiltà basata sui valori materiali che l'uomo ha creato, non renderà felici le popolazioni. E nemmeno la scienza può risolvere tutti i nostri problemi.», rise, ironico «Anzi, sappiamo meglio di chiunque altro che... se usata nel modo sbagliato, essa può solo peggiorare le cose.»
Joe sospirò, ancora sconfortato e con la sensazione di essere un pupazzo vuoto, giunto ormai al momento in cui non restava che da essere buttato via: «Beh, se volevi... tirarmi su, sei riuscito esattamente nel contrario.», gli disse.
Ivan scosse la testa: «Non volevo niente del genere, Joe.», disse «Ti ho solo detto la verità e... vorrei solo che... tu la accettassi per quello che è.»
Joe rivolse gli occhi al cratere, sempre più scuro nella sera che incombeva. Come la sua anima, che ormai sentiva volgere inesorabilmente verso il nero dell'oscurità:«Ti ho chiesto... tante volte se... se io sia morto, e... anelavo e allo stesso tempo... temevo una tua risposta.», tornò a guardarlo, stringendo le labbra, mentre raccoglieva un grosso sorso d'aria «Adesso non me ne frega più niente. Non vorrei vivere in questo mondo. A questo punto... non mi importa più niente... preferirei essere morto e non vedere tutto questo.»
Ivan restò fermo e impassibile per più di qualche minuto, fissandolo al punto che Joe ebbe davvero l'impressione che gli stesse scavando dentro.
«Quindi... la finiamo qui, Joe?»
La domanda lo colse impreparato come una pugnalata alla schiena.
Spalancò gli occhi verso Ivan, e la sua bocca si mosse prima del suo pensiero: «Cosa? Io non...»
Ivan scrollò le spalle: «Finiamola qui.», disse «Hai detto che non ti importa più niente. E allora... fine del viaggio.»
«Io non intendevo questo!», protestò Joe.
«In fondo sono stanco anch'io.», disse l'altro, come se non lo stesse ascoltando.
«Ivan...»
«Hai ragione...», disse la sua guida, voltandosi e riprendendo a camminare «Chiudiamo qui il discorso e torniamocene a casa. A che serve continuare?»
Joe lo guardò allibito, senza riuscire a muovere un passo, paralizzato dallo sconcerto e dalla collera: «Ivan!»
Ma l'altro non dette segno di averlo sentito, o comunque di essere interessato a sapere cosa aveva da dire. Continuava a camminare, come se niente fosse. Come se...
«Ivan, ci sono ancora delle persone che devo vedere.», gli urlò, mentre sentiva la rabbia fargli stringere i pugni, al punto che le unghie sarebbero potute penetrare nella carne.
«A cosa serve, a questo punto?», chiese l'altro, continuando ad allontanarsi da lui «E' tutto inutile, Joe. E' stato tutto inutile. Tu l'hai detto.»
Sentì le sue gambe muoversi, ancora prima del suo pensiero. Forse mosse da quella stessa rabbia che gli stringeva le mani: «La mia volontà di vederli non c'entra niente con tutto questo.», gli sibilò, mentre lo raggiungeva.
Ivan sbuffò, scuotendo la testa e senza dire una parola. Come un genitore che ignorava il figlio capriccioso.
«Ivan!»
«E' finita, Joe!»
Joe aggrottò la fronte: «E' finita?!», chiese, urlando e obbligandolo a fermarsi, prendendolo per una spalla «Cosa vuol dire che “è finita”?!»
«Esattamente quello che ho detto.», sibilò l'altro «E' finita, Joe. Fine del fantastico viaggio nel futuro. Spero sia stato di tuo gradimento»
Joe avrebbe voluto ribattere, lottare, cercare di convincerlo, e aveva aperto le labbra ancora prima che Ivan avesse smesso di parlare. Ma il gelo delle parole che gli aveva sputato addosso, e quello che aveva visto nei suoi occhi avevano come congelato ogni sua intenzione, dandogli quasi l'impressione di lasciarlo senza forze, mentre prendeva atto di quella consapevolezza che l'aveva sempre accompagnato lungo tutto quel viaggio.
Ovvero che dipendeva totalmente da Ivan, e che la sua volontà contava poco o niente in quel mondo. E che non serviva a nulla lottare con lui. Ma lui era l'unica persona che poteva... aiutarlo.
«Almeno portami da lei...»
Le parole gli erano uscite dalle labbra ancora prima di averle potute realizzare. Non era stato lui a parlare. Piuttosto era stata la parte più istintiva di sé. Quella disperazione che porta a galla gli ultimi desideri e volontà. Quella stessa volontà e desideri che, ormai lo sapeva, contavano niente, se Ivan non decideva di dar loro un seguito.
«Da lei... chi?»
La voce di Ivan, con quel suo tono di voce palesemente canzonatorio, gelido e di sfida, ebbe come l'effetto di risvegliarlo e renderlo cosciente della propria richiesta. E della rabbia che sentiva per l'ennesima presa in giro di cui lo stava facendo vittima. Per l'ennesimo schiaffo ai suoi desideri, che Ivan conosceva meglio di lui stesso, e che faceva volontariamente finta di ignorare.
«Sai benissimo chi!», gli sibilò Joe.
Ivan scosse la testa e a Joe parve di sentirlo ridere, mentre si voltava per riprendere a camminare: «Un nome è una parola sola, piuttosto che tre.», disse «Comunque, ormai è del tutto inutile. L'hai detto tu stesso...»
«Non è quello che intendevo, e lo sai benissimo!», gli sibilò Joe, prendendolo per una spalla e obbligandolo a fermarsi e a voltarsi di nuovo «Portami da lei.»
Ivan lo fissò, con il viso contratto da una smorfia di pena... disgusto... Joe non riusciva a interpretarla, e non gli importava nemmeno.
«A che scopo, Joe?», disse «Ormai non ha più importanza. Hai preso...»
«Ha importanza eccome!»
Ivan sbuffò, scuotendo la testa: «Non funziona così. Non so come potresti reagire e non ti porterò da lei.», disse, facendo di nuovo il gesto di voltarsi per riprendere i suoi passi.
Joe lo bloccò istintivamente per un braccio, ma le sue parole...
“Non so come potresti reagire”
... gli rimbombavano in mente: «Che cosa volevi dire?», gli chiese «Perché... non sai come potrei reagire?»
Ivan restò qualche secondo in silenzio, con uno sguardo che sembrava quasi di compassione adesso: «Sei abbastanza intelligente da esserci arrivato da solo, no?»
Joe si limitò a guardarlo, con il viso contratto dalla sua rabbia e da una sensazione di vuoto che cominciava ad espandersi dentro di lui come un palloncino, che prima o poi avrebbe potuto farlo esplodere.
Ivan inclinò la testa d'un lato, come se volesse osservarlo meglio, e quel sorriso ieratico e irritante tornò a formarsi sulle sue labbra: «La vita delle persone va avanti.», disse «Deve andare avanti. Lo hai visto tu stesso. Ma sei proprio sicuro... di voler vedere come è andata avanti la sua?»
“Senza di me...”, completò Joe, nel suo pensiero, deglutendo al formarsi di esso e del suo significato nella sua mente. Dove si allargava fino a ingoiare ogni cosa, e a non lasciar spazio a nient'altro che a se stesso.
In realtà lo stesso Ivan non aveva fatto altro che dirgli quello che pensava: il desiderio di sapere la verità, che si scontrava con la sua paura di conoscerla nella sua crudeltà.
Ivan sospirò: «Come pensavo...»
«Lo sapevi fin dall'inizio.», sussurrò Joe, rialzando gli occhi verso di lui. Di nuovo non era lui a parlare, ma la sua disperazione.
Ivan si limitò a fissarlo, in silenzio, di nuovo con uno sguardo dove sentimenti contrastanti come ironia e compassione sembravano fondersi in uno strano collage.
«Sapevi fin dall'inizio che...»
Il resto della frase gli si puntò sull'estremità della lingua, come bloccato. Come un domino, addosso al quale erano caduti tutti i pezzi dietro ad esso.
«Sapevo dall'inizio... cosa, Joe?», gli chiese Ivan, mentre l'ironia prendeva il sopravvento in quella sua espressione mista.
Joe dischiuse la bocca, ma riuscì solo a usarla per respirare, e la serrò di nuovo, rendendosi conto di dover deglutire: «Sapevi... fin dall'inizio che desideravo vederla più di tutti gli altri, e... mi hai fatto fare il giro del mondo... e adesso...»
Adesso alla disperazione si era unita la rabbia, ed era questa a dargli voce e forza. Senza di essa, era convinto, sarebbe crollato come un sacco di patate. Si sarebbe addormentato, senza risvegliarsi più.
«Sei stato tu a decidere.», gli disse Ivan, sorridendo ironico e beffardo.
Joe corrugò la fronte, sentendo di nuovo l'assalto della rabbia, o qualcosa di molto simile, montare dentro di sé: «Io non...»
«Oh, sì.», lo interruppe l'altro «Non ricordi?»
Sentì la perplessità intensificarsi sul suo volto, insieme alla collera per quel gioco che stava cominciando a stancarlo.
Ivan accennò un inizio di risata, e Joe sentì il suo pugno stringersi, e non seppe per quale strana forza si trattenesse da stamparglielo sul volto.
L'altro guardò proprio quel pugno stretto, probabilmente perché aveva letto nel suo pensiero, e accentuò quel suo sorriso odioso sul viso: «Ti ho chiesto chi avresti voluto incontrare, se avessi potuto incontrarne soltanto uno. E non mi hai risposto.», disse, scuotendo la testa «Ti ho chiesto chi volessi vedere per primo, e di nuovo non hai risposto.», gli ricordò «Hai lasciato decidere a me.»
«Conoscevi le risposte.», sibilò Joe, sentendo i suoi muscoli tendersi nella rabbia e nel tentativo di trattenerla «Le hai sempre conosciute.»
«Hai la tua voce. Avresti dovuto usarla.», gli disse l'altro, sibilando allo stesso modo «Di cosa avevi paura? Che ti giudicassi perché... volevi vedere la donna che amavi... e che ami... prima di tutti gli altri?»
La testa di Joe fece uno scatto all'indietro, come se fosse stato colpito da uno schiaffo in pieno volto.
«Adesso, per lei, rinunci a vedere il tuo migliore amico.», continuò Ivan, affilando le sue parole come coltelli che conficcava dentro l'anima dell'altro «Quello che è venuto a prenderti fin nello spazio, con la certezza di sacrificare la sua vita, per non lasciarti morire da solo.»
Fu come ricevere un altro schiaffo, e un pugno nello stomaco insieme ad esso, che quasi avrebbe potuto piegarlo in due. Sentiva le gambe improvvisamente deboli, e riconobbe quella sensazione di vuoto che aveva provato quando aveva perso i sensi a casa di Ivan, per poi risvegliarsi il giorno dopo o chissà quando. Strinse la mano intorno al braccio dell'altro, come se volesse aggrapparsi e aggrappare la propria coscienza a lui, ma sentiva tutta l'inutilità del proprio gesto.
Joe scosse la testa: «Io non...»
«E sappiamo tutti e due di chi è il merito, se siete sopravvissuti.», continuò Ivan, scandendo ogni singola sillaba, di ogni singola parola. E facendo di ogni alito di voce una nuova coltellata.
“Joe, dove vuoi cadere?”
«Voglio vederla.», Joe rialzò gli occhi che non si era reso conto di aver abbassato e, per la prima volta dall'inizio di quello strano viaggio nel futuro, ebbe l'impressione di scorgere nel volto di Ivan qualcosa di simile allo stupore e allo sconcerto.
Ma non gli interessava a quel punto.
«Portami da lei.», sibilò, sentendo la sua voce debole, e ansimante.
Ma allo stesso tempo sentendo più forte e vigorosa la stretta della sua mano sul braccio di Ivan, attorno alla quale notò appena il formarsi una sorta di aura elettrica. Ma non gli importava sapere perché e a cosa fosse dovuta. Non se lo domandò nemmeno.
«Joe, non...»
«Sono morto, lo so!», urlò, senza nemmeno sapere dove riusciva a trovare la forza in quel suo corpo etereo che ormai sembrava chiedergli solo di arrendersi all'inevitabile «Ma se anche fosse... se ho anche una sola possibilità di vederla prima di sparire per sempre dalla faccia di questo mondo o di qualunque cosa sia... Non mi importa... La voglio vedere! E Jet capirebbe!»
Ivan restò immobile a fissarlo, con quello sconcerto che era andato aumentando nella sua espressione. Per la prima volta, dall'inizio di quel viaggio, sembrava insicuro, come se non sapesse cosa fare. E Joe pensò che, forse, aveva una possibilità. L'ultima possibilità di un uomo che non aveva più niente da perdere. L'ultima chance della sua vita, o di qualunque cosa fosse ciò che lo rendeva vivo in quel momento, in quel mondo a cui lui non apparteneva
«Ti prego, portami da lei.», lo supplicò, attaccandosi come con degli artigli al suo braccio con la propria mano, che sembrava l'unica parte del suo corpo ad avere ancora un minimo di forza.
Senza notare che la luce elettrica attorno ad essa era aumentata di intensità. Aveva solo un volto nelle immagini che la memoria gli faceva passare davanti ai suoi occhi, e voleva vederlo di nuovo, qualunque fosse la vita che stava vivendo adesso, e si aggrappava ad esso per restare cosciente «Poi potrà succedere di me qualunque cosa... Ma voglio vedere Françoise, un'ultima volta.»
Anche Ivan osservò quella mano, per poi tornare a fissare Joe negli occhi, ma senza dire una parola, né fare alcunché.«Joe... non...»
Sentì la rabbia esplodergli dentro a quell'ennesimo rifiuto, ma lo slancio che ne seguì fu effimero. Quella sensazione non trovò la forza di esprimersi nelle sue membra, che sentì improvvisamente pesanti e immobili, come di pietra. Fu solo la sensazione di una frazione di secondo, ed ebbe appena il tempo di elaborarla, prima che fosse il buio
9
Un soffitto sconosciuto.
Questo si ritrovarono a guardare i suoi occhi, quando si riaprirono.
L'ennesimo soffitto sconosciuto, stavolta tinto di un bianco, illuminato dalla luce naturale di un giorno senza sole, proveniente da chissà quale finestra in chissà quale stanza.
Forse era tornato a Mosca.
Nella casa di Ivan?
Richiuse gli occhi, o essi si richiusero da soli, riflettendo la stanchezza che sentiva in tutto il corpo, che gli chiedeva di sprofondare di nuovo nel suo sonno. O qualunque cosa fosse lo stato dal quale si era risvegliato. Sotto quel soffitto sconosciuto.
L'ultima immagine che aveva nitida nella mente erano gli occhi gelidi e stretti di Ivan sotto la sua fronte corrucciata dalla collera, insensibile alle sue suppliche, e inamovibile in quel suo ostinato rifiuto di esaudire quello che non era nient'altro che l'ultimo desiderio di un condannato a morte...
“... Che è già morto...”
Nel suo buio ricreato, rivide il soffitto bianco, e realizzò che quella sembrava una stanza completamente diversa, dallo stile scuro e greve dell'abitazione di Ivan a Mosca.
Ma magari era una stanza che non aveva ancora visto. O un'altra delle sue case. Non aveva forse avuto modo di capire che non viveva sempre in un posto solo? Come minimo si doveva spostare tra Mosca e Long Island. E chissà dove altro lo portavano le sue attività...
Raccolse un profondo respiro, concedendosi il tempo e il modo di riprendere coscienza del suo corpo sgonfio come un'otre vuoto, intorpidito e debole, o qualunque cosa fosse quella sua consistenza, eterea, eppure pulsante, quel guscio in cui era racchiusa la sua anima.
Si sentiva stanco, molto stanco. E sentiva dolore. Un dolore smorzato e lieve, ma persistente, che si riverberava attraverso ogni suo più piccolo muscolo. Tanto che, si rendeva conto, non aveva ancora mosso un solo dito, a parte le palpebre degli occhi. Che ora sembravano come incollate, e si rifiutavano di riaprirsi.
“Ma forse sarebbe meglio che non si riaprissero più...”
Nell'oscurità in cui era ripiombato chiudendo gli occhi, si risvegliarono lentamente anche i suoi sensi, dandogli una prospettiva dell'ambiente che lo circondava.
Per primo fu l'udito, riempito da un sottofondo di musica orchestrale, abbastanza alto da poter essere sentito, ma non così tanto da dare fastidio e risultare invadente fino all'irritazione. Sentì i suoi occhi stringersi, mentre il cervello gli diceva che quelle note prodotte da un tripudio di archi non gli erano sconosciute, e cercava nella sua memoria un attimo, un istante, un momento in cui le aveva già ascoltate e a cui poterle associare.
Ma non riusciva a completare quel collegamento, che già era l'olfatto che cominciava a invadere la sua memoria con gli stimoli che sopraggiungevano dalle sue narici. Riconobbe note di vaniglia e limone... ma anche la freschezza dell'iris, e le note legnose... di bergamotto e fava di tonka...
“Come faccio a conoscerli?”
… che si univano insieme in una fragranza avvolgente e inebriante, che richiamava sempre più frammenti della sua memoria, avvolti da una fitta nebbia confusa, dalla quale non riusciva ad estrarli e a metterli in un quadro completo, in un attimo, in un istante, un secondo della sua vita...
«Joe, così mi fai il solletico...»
E quella risata, leggera e lieve come una piuma, venne a sovrastare la musica. O forse faceva anch'essa parte del ricordo? Come la sensazione sulle sue labbra, che andò a toccarsi. La sensazione del contatto di esse con la pelle... Da dietro l'orecchio, scostando appena i suoi capelli, il ricordo della morbidezza dei quali fece muovere le sue dita in un riflesso nervoso, fino all'incavo del suo collo... dove quel profumo che gli inebriava i sensi era più intenso e pieno...
Toc... toc...
Qualcuno bussa alla porta... ancora memoria o presente?
O futuro?
«Avanti.»
La voce, reale, vigorosa, troppo consistente per essere parte dei suoi ricordi, gli fece spalancare gli occhi. Trovando di nuovo quel soffitto bianco e sconosciuto, sopra di lui.
«La ragazza che aveva fatto chiamare è qui,.»
Un'altra voce, di un'altra donna... non la conosceva... forse si era sbagliato.
«Grazie. Falla entrare.»
No, non poteva sbagliarsi e finalmente i suoi muscoli si contrassero in uno spasmo a muovergli il collo in direzione di quella voce. Ma un dolore lancinante gli trafisse il cervello come la lama rovente di un coltello, e lo costrinse a chiudere di nuovo le palpebre, prima che le sue pupille potessero dargli la sua anelata conferma.
«Ah, Marianne... dopo questo incontro, andrò via.», disse «Per qualunque evenienza, sarò rintracciabile al cellulare.»
Sì, era senz'altro lei. Anche se non la vedeva, avrebbe riconosciuto quella voce fra un milione di altre...
«Va bene, signora Arnoul.»
“Françoise...”
Il pensiero che avrebbe potuto rivederla gli riaprì gli occhi, a dispetto del dolore. Ma poté solo imprecare. Una poltrona nera, in stile Le Corbusier, si frapponeva ai suoi occhi e la figura che essi anelavano di trovare.
Toc toc...
«Avanti.»
Sentì di nuovo la sua voce, e l'idea di non poterla vedere gli divenne semplicemente insopportabile, più del dolore che ancora gli martellava il cervello. Al punto che fece scattare il suo corpo per mettersi a sedere, rendendosi conto solo in quel momento di essere sdraiato. Ma il movimento repentino gli provocò un'altra fitta lancinante di dolore alla testa, che gli fece stringere gli occhi, piegandolo in due nella sua posizione, adesso seduta.
«Buonasera, accomodati.»
Di nuovo la sua voce, accompagnata dal rumore di una sedia che si spostava. Ma perché aveva usato l'italiano?
«Buonasera, signora Arnoul.»
Certo, perché anche la ragazza che era appena entrata era italiana...
Rumore di passi che si avvicinavano.
Lottò contro il dolore che gli riverberava in testa, colpendolo con una miriade si spilli, e alzò il viso, mentre apriva gli occhi.
E finalmente la vide.
E in quell'istante si chiese se si trovasse ancora nel futuro, o se piuttosto non fosse tornato al “suo tempo”.
Solo osservandola più attentamente, seguendola con gli occhi (o erano i suoi occhi che non potevano fare a meno di seguirla), si notava l'aspetto, l'espressione e forse il portamento più maturo.
Ma il suo corpo era sempre snello, agile e flessuoso nei movimenti, come lo ricordava. Ulteriormente esaltato da quell'elegante tailleur gessato di colore scuro, che faceva risaltare il drappeggio della camicetta che indossava sotto di esso, e che esaltava la forma e la bellezza delle sue gambe, che terminavano in due eleganti scarpe a tacco alto.
I suoi capelli, elegantemente raccolti in uno chiffon, avevano ancora tutto il loro biondo naturale, che sembrava rubato al colore di un campo di grano maturo. E i suoi occhi erano ancora quelle due meravigliose perle nelle quali lui amava riflettersi, incastonate nei lineamenti perfetti e delicati del suo viso, su cui il tempo sembrava non aver avuto effetto. Anzi, sembrava averla resa ancora più bella.
E poi c'era quel suo profumo, che poc'anzi aveva solleticato il suo olfatto e la sua memoria, e che era adesso più vivido e presente, mentre si sedeva proprio accanto a lui, e gli portava dal passato il ricordo di una delicata brezza di mare...
«E' quel profumo che mi piace tanto?»
«Allora, come va, Joe?»
Sobbalzò, sentendo la sua voce che articolava il suo nome, e distogliendo l'attenzione dai suoi ricordi frammentati, si sorprese di non incontrare i suoi occhi rivolti a lui.
Quante volte l'aveva sorpresa a fissarlo, e quante volte lei aveva sorpreso lui allo stesso modo? Nei primi tempi, distogliendo immediatamente quello sguardo rivelatore. E poi, con il tempo, trovando naturale mantenerlo e completarlo con un sorriso complice, e significativo soltanto per loro due.
Ma non era quello il caso. E riconobbe un'assurda delusione pervadergli l'anima, nel realizzare che i suoi occhi non era lui che guardavano, in quel momento...
“Non mi può vedere...”
… ma erano rivolti avanti a lei, verso una ragazza sedutasi sulla poltrona che poco prima aveva impedito ai suoi occhi di ritrovarla.
Joe si rese conto di notarla soltanto adessoEra poco più che adolescente, e lunghi bruni e ondulati le scendevano sulle spalle, attorniando un bel viso dall'aria mediterranea.
«Preferisci che ti chiami Giovanna?», chiese di nuovo Françoise, rivolgendosi alla ragazza, di nuovo in un italiano perfetto.
“Ma certo... in italiano... non poteva rivolgersi a me.”, pensò Joe, sospirando e scuotendo la testa “Che sciocco che sono.”
«Oh, no. Gio' va benissimo.», disse la ragazza, nascondendo le sue mani tra le gambe, come se potesse nascondervi anche il suo evidente imbarazzo «Anche se... la ringrazio per usare la mia lingua... ma cerco di usarla il meno possibile, almeno fintanto che non padroneggerò il francese in un modo almeno decente.»
«Allora parlerò in francese.», rispose Françoise, sorridendole e tornando alla sua cantilenante lingua madre.
La ragazza ricambiò quel sorriso quasi imbarazzata, cercando nella stanza una scusa per non sostenere lo sguardo della donna: «Ha un bell'ufficio, lo sa?»
Françoise sorrise, in quel suo modo naturale e magnifico: «Dici?», disse, guardandosi intorno, come se anche lei si trovasse in quella stanza per la prima volta in vita sua «Io lo trovavo piuttosto freddo, a dire il vero. Ho cercato di dargli... un tocco personale.»
Di nuovo quel suo sorriso, ma lo poteva vedere solo di profilo. Eppure lo poteva intuire. Perfino nella lunghezza e nella forma che assumevano le sue labbra, e nel modo in cui si esprimevano i suoi lineamenti dolci e delicati.
Notò in quel momento la propria mano puntata sul divano, a un palmo da quella di le. Sarebbe bastato muoverla, per toccarla e la vide... muoversi. Quanto lo desiderava... Ma lo assalì il terrore e la consapevolezza che non avrebbe sentito niente sotto di essa... e la mano si fermò incatenata a quel pensiero che la tratteneva, tremante, tornando a posarsi sul divano, di cui ugualmente non sentiva la consistenza.
Era come essere seduti sul nulla. Niente di più e niente di meno.
E l'idea di averla così vicina, tanto da poter sentire il suo profumo, poter distinguere i minimi dettagli delle sue iridi e del suo volto e, nonostante trutto, non poterla nemmeno sfiorare, gli divenne intollerabile, e in essa trovò la forza di alzarsi, riuscendo a mantenere a fatica l'equilibrio. E barcollando, un passo dietro l'altro, si mosse verso la parete opposta della stanza, contro la quale si lasciò cadere, fino a sedersi per terra.
E lei era di nuovo lì, davanti a lui. Abbastanza vicina da poter studiare ogni particolare della sua figura, e abbastanza lontana da placare la sua tentazione di volerla toccare con la semplice impossibilità fisica di farlo.
«Non potrai interagire con loro...»
“Mi chiedo come potrei mai interagire con loro...”
«Se tu interferissi con le cose di questo tempo, il tuo gesto potrebbe avere conseguenze catastrofiche...»
Le parole di Ivan gli rimbombarono in testa, come un altro martello che si univa al dolore, mentre si guardava quella stessa mano che si era mossa per toccarla poco prima, ritraendosi alla sgradevole idea che non avrebbe sentito niente sotto di essa. Forse era questo che aveva temuto Ivan quando aveva detto che non sapeva come avrebbe potuto reagire? Forse temeva le sue tentazioni?
E, a proposito, dove accidenti era Ivan, in quel momento? Aveva detto che lo sorvegliava, e mai come in quel momento sentiva di aver bisogno di quel guardiano. Anche se non aveva la minima idea di come avrebbe potuto interferire con le cose di quel mondo.
Ricordò il vecchio sull'autobus di Berlino che gli era come passato attraverso, e trovò ulteriore sollievo nel non essere riuscito a toccarla, pochi istanti prima.
«Ti dà fastidio?», la voce di Françoise tornò a cogliere l'attenzione delle sue orecchie «Se vuoi, posso spegnere. Io sono così abituata, che non ci faccio quasi caso e dimentico di spegnerla...»
«Oh, no... non volevo dire questo.», si affrettò a dire la ragazza, scuotendo le mani avanti a lei «E' che è... questa la musica di “Giselle”?»
Françoise annuì, sorridendo. Joe pensava di poter ricostruire il suo sorriso semplicemente dai suoi ricordi. Ma, vedendolo dal davanti, si rese conto che era in qualche modo diverso da quello che ricordava, benché ugualmente meraviglioso.
«Questa è... la versione originale di Adolphe Charles Adam.», disse Françoise «E' quasi introvabile, ormai.»
“Ma certo!”, pensò Joe, chiudendo gli occhi mentre realizzava perché quella musica gli sembrasse tanto familiare.
Quante volte l'aveva sentita?
«Lei deve aver amato molto quel ruolo.»
Françoise sorrise, mentre Joe annuiva per lei, incurvando le sue labbra un sorriso
“Lei adora quel ruolo...”
«Io adoravo quel ruolo.», rispose Françoise alla ragazza «Quando avevo più o meno la tua età... il mio sogno era interpretare “Giselle” sul palco dell'Opera.»
La ragazza sorrise timidamente: «Beh, ci è riuscita piuttosto bene.», disse «A detta di tutti, lei è stata la miglior “Giselle” di tutti i tempi e... anch'io la penso allo stesso modo...»
Joe riaprì gli occhi che non si era reso conto di aver chiuso.
«Pensavo che da voi in Italia preferiste... l'interpretazione di Carla Fracci.», disse Françoise, inclinando la testa d'un lato.
«Oh, beh...»
«Puoi essere sincera con me.», la rassicurò Françoise «Io e lei ci scherziamo ancora sopra.»
La ragazza parve sorpresa: «Siete amiche?»
Le labbra di Françoise si piegarono in una piccola smorfia di riflessione: «Non ci definirei esattamente “amiche”.», disse «Siamo due... “colleghe” che si rispettano profondamente. O... dovrei dire... “ex-colleghe”, dato che lei balla ancora e io ho appeso le scarpette al chiodo da un po'.»
La ragazza si limitò a sorridere, e ad annuire, mentre i suoi occhi si abbassavano.
«E allora, come va?», le chiese di nuovo Françoise «Non mi hai ancora risposto. Come ti trovi qui?»
La ragazza... Joe ricordò che Françoise l'aveva chiamata Giovanna... rialzò gli occhi, stringendo le labbra, come se avesse paura di parlare.
«Anche in questo puoi essere sincera, con me.», disse l'altra, ridendo lievemente «Ci tengo che tu lo sia. Ti ho voluta io qui, e voglio assicurarmi che vada tutto bene.»
«Beh, io...»
«Ma non posso risolvere i tuoi problemi, se non me ne metti a conoscenza.», continuò Françoise «Non c'è niente di male ad ammettere di avere dei problemi. E... io sono una buona ascoltatrice.»
Joe sorrise ironico, chiedendosi quanto di quell'affermazione si riferisse a lui. Certo, le aveva fatto fare molta esperienza, in quel senso.
Poi scosse la testa...
“... Perché dovrei essere così al centro del suo mondo...?”
Giovanna strinse di nuovo le labbra, mentre le sue mani abbrancavano le proprie ginocchia: «Beh, qui è tutto fantastico... Gli insegnanti, le lezioni...»
«Ma...?»
Giovanna strinse nuovamente le labbra, abbassando per l'ennesima volta gli occhi: «Mi rendo conto di essere... molto indietro rispetto ai miei compagni di corso... Forse... non sono...», disse, scuotendo la testa «...all'altezza...»
Françoise alzò le sopracciglia, sospirando: «Beh... se ti ho dato quest'opportunità, vuol dire che...»
«Io non sto mettendo in dubbio il suo giudizio...», la giovane si morse le labbra, abbassando di nuovo lo sguardo «Oh, mi scusi. Non volevo interromperla.»
«Continua.», le disse Françoise, con un gesto della mano «Ti prego.»
Giovanna sembrò pensarci su un istante, prima di riprendere a parlare: «Quello che intendevo dire è che... per quanto possa... avere talento, forse... non sono in grado di reggere la pressione... e le aspettative.», sorrise, anzi, quasi ridendo «Qui è molto diverso dalla piccola scuola di danza in cui studiavo nella mia città.»
Françoise annuì: «Questo è poco ma sicuro.», disse, sorridendole «La tua scuola era... ottima. Ti hanno preparato molto bene.»
La ragazza sorrise timidamente: «Lo dirò alla mia vecchia insegnante, la prossima volta che la sento.»
«Oh, puoi dirglielo chiaro e forte.», disse Françoise sorridendo, prima di tornare seria «Ma questa... non è una scuola di danza qualunque. E' la scuola di danza che fa capo all'Opera di Parigi.», precisò, tornando per un attimo al francese «Con tutto il rispetto per altre validissime accademie che possono esserci in tutto il mondo, questa è “la” scuola di balletto. E qualunque persona che voglia farsi una strada in questo campo sogna di entrare qui... Ma ovviamente non è un punto d'arrivo, ma solo una tappa di passaggio.»
«Questo lo so molto bene.», disse la ragazza, stringendosi ancora di più nelle sue spalle.
Françoise accennò un sorriso: «Tu sai che io ho un caro amico che fa l'attore, ed è più inglese della regina d'Inghilterra.»
Giovanna rise di quella battuta, e Françoise aspettò che quel suo breve momento di leggerezza si esaurisse, prima di tornare a parlare.
«Una volta gli dissi che... il balletto sta alla Francia, come il teatro sta all'Inghilterra.», riprese «Da noi è più di un normale passatempo. E' un'istituzione... sia nel nel senso lato, che in quello letterale del termine, se si pensa che quest'arte è tutelata dal Ministero della Cultura francese. La danza classica è nata qui.»
«Sì, l'ho ben presente.», disse Giovanna «Probabilmente questa è la migliore accademia di tutto il mondo.»
Françoise annuì: «Puoi anche togliere il “probabilmente”.», disse sorridendole «Quindi è normale che ci si aspetti molto da chi ha il privilegio di poter studiare in questa scuola.»
La ragazza annuì, mostrando altri segni di disagio: «Lo so...»
«Ti manca casa tua?»
L'altra sembrò colta alla sprovvista: «Cosa?»
Françoise scrollò le spalle: «Beh... hai appena... quattordici anni.», disse «Per quello che ne so, è la prima volta che ti allontani da casa e... per giunta in un paese straniero. E per quanto io sia fermamente convinta che Parigi sia la città più bella del mondo, nessuno sa meglio di me... che non c'è nessun posto come casa propria.»
La giovane italiana sospirò: «Beh, certo, anche questo.», disse «Quel poco che conoscevo del francese, prima di venire qui, era legato al balletto. E Parigi è... molto diversa dal piccolo paese della Sicilia da cui provengo. Mi mancano i miei genitori...»
«Ti capisco.», convenne l'altra.
«Sa... loro non credevano neanche molto in questo mio... sogno.», continuò la giovane «Ed erano scettici anche all'idea di lasciarmi venire qui.»
«E i tuoi amici?», continuò Françoise.
Giovanna annuì: «Sì, anche loro mi mancano, ovviamente.»
«Non mi stupirei se mi dicessi che... non te ne sei fatti molti qui.», disse Françoise «Tra lezioni e scuola, ti resta appena il tempo di respirare. E i tuoi compagni di corso, per lo più, vedranno in te una rivale.»
L'altra annuì: «Sì, c'è molta più competizione...»
Françoise sorrise: «Benvenuta nel mondo del balletto classico.», disse ridendo.
La giovane cercò di partecipare a quell'ilarità, ma il suo sorriso era triste e forzato: «Ma... non so se per loro sia una... rivale. Mi sembrano tutti... molto più avanti di me.»
Françoise alzò le sopracciglia: «E' normale.», le disse «L'hai detto tu. Questa è la migliore accademia di danza del mondo, e ci sono ragazzi che studiano in questa scuola da quando avevano otto anni. Tu sei qui da appena un paio di mesi e... ti assicuro che i tuoi insegnanti mi dicono che già in questo poco tempo... hai fatto dei progressi enormi. Insomma...», rise lievemente «Ci ho visto giusto. Hai un enorme talento naturale.»
«Dice... dice davvero?», chiese la ragazza, sorpresa e titubante «Non fanno altro che correggermi e... riprendermi.»
Françoise sorrise, in un modo comprensivo.
Di nuovo Joe riconosceva quel sorriso, ma vi mancava ancora qualcosa. Forse era soltanto un'evoluzione del tempo. Forse esso si esaltava nei suoi ricordi, e quella era quello reale.
«Ti svelo un segreto.», riprese Françoise «Diffida dell'insegnante che non ti corregge mai. E' il suo lavoro, e se non lo fa, probabilmente è perché pensa che sia una perdita di tempo.»
Giovanna restò qualche istante in silenzio, cercando forse di interpretare quella risposta: «Lei ha mai... avuto paura di non farcela? Di non essere all'altezza?»
Françoise rise: «E' una paura che mi ha accompagnato per tutta la mia carriera.», disse «Sin da quando ero una semplice studentessa, fino all'ultimo spettacolo.»
«Dice sul serio?»
Françoise annuì, dando un'occhiata al suo polso sinistro, contorniato da un fine braccialetto su sui solo in quel momento Joe notò la presenza di un piccolo quadrante: «Hai impegni per stasera?»
L'altra scosse la testa, incerta: «No.»
Françoise si alzò, invitando l'altra a fare altrettanto: «Allora vieni con me.», le disse «Ti voglio mostrare una cosa.»
«Accidenti, è... semplicemente fantastico.»
«Non eri mai stata qui?», le chiese Françoise, facendo qualche passo verso di lei, alle sue spalle.
«Scherza?», le chiese la ragazza, ridendo, senza riuscire a staccare gli occhi da quello che vedevano i suoi occhi davanti a lei «E' il primo posto dove sono venuta appena atterrata a Parigi. Quasi non sono nemmeno passata a lasciare le mie cose al convitto.», disse «Solo che... l'avevo visto dalla platea...»
«Da qui fa tutto un altro effetto.», completò Françoise per lei.
La ragazza si limitò ad annuire, senza riuscire a distogliere lo sguardo da ciò che aveva di fronte a lei.
«Immaginalo completamente pieno.», le suggerì Françoise.
«Oh, cielo. Penso che mi tremerebbero le gambe.»
Françoise rise insieme alla ragazza, prima di tornare a guardare la platea avanti a sé, con le poltrone di prezioso velluto rosso, e i palchi, che in quel momento, erano completamente vuoti: «Sì, tremano le gambe.», disse, con gli occhi che le brillavano mentre le passavano davanti chissà quali ricordi «Ma quando inizia la musica... le gambe smettano di tremare, e iniziano a seguirla. E alla fine... non c'è niente... come l'applauso di questo pubblico.»
Joe, che si era tenuto leggermente in disparte quasi temesse di essere di troppo, ma anche trattenuto di nuovo dalla sgradevolezza dell'idea di averla lì a portata delle sue mani e non poterla nemmeno sfiorare, sorrise nel pensare a chissà quante volte Françoise doveva aver avuto modo di vedere quel teatro pieno in ogni ordine di posti, soltanto per lei. E aveva potuto raccogliere quell'applauso scrosciante del pubblico in delirio per quel cigno leggiadro che era. Finalmente libero di esprimersi in quello che era il suo ambiente naturale.
Con una fitta di malinconia si trovò a pensare che, in quelle occasioni, gli sarebbe piaciuto essere lì, ad applaudirla insieme agli altri. E a vederla, mentre il suo cigno realizzava i suoi sogni. Gli stessi a cui non aveva mai voluto rinunciare, nonostante tutto. Che aveva sempre avuto il coraggio e la perseveranza di inseguire, nonostante un destino beffardo continuasse a chiederle di combattere l'ennesima guerra che non le apparteneva.
Lei che era forse stata l'unica, fra tutti loro, ad essere stata strappata da un futuro carico di promesse.
No, non era mai stato il campo di battaglia, il suo posto. Ma quel palco e la musica che la contornava, suggerendole i movimenti e il ritmo a cui vivere la sua vita. Quella che si era sempre cercata e meritata.
E che, a quanto pareva, aveva avuto la possibilità di vivere.
E poco importava se lui non ne aveva fatto parte. Se lui non aveva potuto condividere con le le sue gioie, ed esserne motivo allo stesso tempo. E a ben pensarci, non doveva essere stato facile... essere innamorata di uno come lui. Forse era stato meglio così.
Non si sorprese quando, voltandosi verso di lei, riconobbe nei suoi occhi quella sua malinconia. La stessa che la coglieva nei giorni in cui pensava a quei suoi stessi sogni bloccati. E forse solamente lui sapeva quanto le era costato, nel corso degli anni, doverli mettere da parte ogni volta che doveva indossare la loro divisa.
«Sai una cosa, Gio''?», disse lei, dandogli di nuovo l'illusione fonetica che si rivolgesse a lui.
«Mi dica.», rispose la ragazza.
Françoise sospirò, concedendosi un'ultima occhiata a quella platea, prima di parlare: «Io ho dovuto prendermi lunghe pause, nel corso della mia carriera. Per tutta una serie di motivi.», disse «E ogni volta, ho dovuto ricominciare. E... puoi giurarci che abbia avuto... paura di non farcela.», sospirò di nuovo «Il balletto, come la vita, è fatto di... piccole conquiste e piccoli traguardi. E ogni piccolo traguardo raggiunto ti porta un po' più vicino al cielo. Ma è indubbio che... ogni piccolo traguardo richieda anche enormi sacrifici, e lotte. E non sempre, benché si faccia anche più di quello che ci viene richiesto... quegli obiettivi vengono raggiunti. E il nostro è probabilmente uno degli ambienti più competitivi che esistano, dove nessuno ti regala niente. Piuttosto... cerca di toglierti anche quel poco che hai.», sorrise, ma era un sorriso amaro «E spesso gli insegnanti non aiutano. Io ho avuto per tutta la mia gioventù insegnanti che mi dicevano che ero troppo alta per fare la ballerina.»
La ragazza rise insieme a lei: «Adesso capisco perché ha tolto i limiti di altezza massima nei criteri di ammissione.»
Françoise annuì: «E sai qual è il colmo?»
L'altra scosse la testa.
«Che adesso vanno di moda le ballerine più alte di un metro e settanta.», rise «Ho aperto la strada alle “spilungone”. Ma nessuno me lo riconoscerà mai, e neanche mi importa.»
La ragazza continuò a ridere.
Françoise sospirò, cercando forse di recuperare un po' di compostezza: «Ci vengono richiesti sacrifici enormi. E non possiamo nemmeno essere sicuri che servano a portarci su un palco come questo.», disse.
L'altra abbassò lo sguardo, a fissarsi i piedi: «Forse... è proprio questo che... mi spaventa.», disse «E se alla fine...»
«Un proverbio giapponese dice che la volontà attraversa anche le rocce.», disse Françoise, interrompendola.
Joe sorrise, come se avesse ricordato qualcosa di lui con quel detto.
«Ma se la volontà e il talento non bastano,», continuò Françoise «E anche se non diventerai famosa... e nessuno andrà a cercare la tua interpretazione di Giselle su YouTube...», si concesse un attimo per sorridere di quella battuta insieme all'altra «Se ami ballare, non rimpiangerai niente di tutto questo. Te lo posso assicurare. E io lo so che ami ballare. Sennò non saresti mai venuta fino a qui.»
La giovane annuì: «Non ho mai ballato per... la possibilità di diventare famosa.», riprese «Ma solo perché mi piaceva farlo.»
Françoise sorrise, dando un'occhiata al suo orologio da polso: «Allora devi solo continuare.», disse, dandogli una lieve pacca sulla spalla, per poi tornare a guardare la platea «Poi chi riesce a diplomarsi presso la nostra scuola, non ha la sicurezza di entrare a far parte del corpo di ballo dell'Opera, ma ha una corsia privilegiata.»
La giovane annuì: «Lo so, lo so molto bene.»
Françoise le sorrise, riuscendo a infondere coraggio perfino in Joe: «E ti assicuro che non c'è emozione più grande al mondo, per chi ha la nostra passione, che ballare su questo palco e per questo pubblico.», disse «E, ti ripeto, non ti prometto che ci arriverai. Ma... non lo potrai mai sapere se... non avrai mai tentato. Non c'è niente di male ad arrendersi. Ma arrendersi, senza nemmeno provare a combattere è un peccato.»
La ragazza sorrise, stavolta un po' più convinta e rinfrancata: «Lo terrò a mente, signora Arnoul.»
«Bene.», rispose l'altra «Ma non chiamarmi “signora Arnoul”. Mi fai sentire vecchia.»
«Tu vecchia? Ma fammi il piacere!»
Joe si voltò all'indirizzo della voce proveniente dalle spalle della ragazza.
«Oh, cielo. Non ci posso credere...», disse proprio quest'ultima, nella propria lingua, quando si voltò verso la donna dai capelli ondulati e biondi che le scendevano sulle spalle.
«Scusate se vi ho fatto aspettare.», disse questa, anche lei in italiano portandosi presso di loro «Allora, eminentissima direttrice della École de Danse de l’Opéra de Paris, è questa la ragazza di cui mi hai parlato? La tua ultima scoperta?»
Françoise annuì: «Sì.», disse, di nuovo in italiano «Ti presento Giovanna... e non credo ci sia bisogno di presentazioni in senso inverso.»
«Decisamente no...», sussurrò la ragazza, con un filo di voce «Ma io non capisco...»
Françoise scrollò le spalle, scambiando un sorriso complice con l'altra donna: «Beh, lei viene dalla tua stessa terra, è venuta a Parigi a quattordici anni come te... e ho pensato che... potesse esserti utile fare una chiacchierata con lei.»
«Françoise mi ha parlato molto bene di te.», disse l'altra donna «E a me fa piacere se posso essere d'aiuto. So che vieni dalla Sicilia come me.»
La ragazza annuì: «Sì, anche se... dalla parte opposta... Siracusa.»
L'altra donna sorrise: «Non mi stupisce che tu possa avere qualche problema di adattamento.», disse «A cominciare dal clima, che qui fa schifo.»
«Ok, io me ne vado.», disse Françoise, alzando le mani «Tanto so di lasciarla in buone mani.»
«Non vieni con noi?», chiese l'altra donna.
Françoise scosse la testa: «Mi aspettano a casa.», disse «Sarà per un'altra volta.»
«Ma signora Arnoul...»
«Ti ho detto di non chiamarmi così!», le ricordò Françoise, gesticolando con il suo dito e sorridendole «Adesso devo proprio andare. Grazie, ancora Eleonora.»
«Figurati.»
Françoise si allontanò di buon passo da loro, come se effettivamente fosse in ritardo per un appuntamento e dovesse sbrigarsi.
«Non ti aveva detto che ti avrebbe fatto incontrare me?», chiese la donna alla ragazza, mentre anche Joe stava per allontanarsi.
«No, signora Abbagnato.»
«Oh, cielo. Non chiamare nemmeno me in quel modo.», disse la donna sorridendole, e guardando nella direzione verso la quale Françoise si era allontanata: «Quando venni a Parigi, lei era sul finire della carriera.», ricordò «In realtà... io credo che avrebbe potuto danzare per altri cinquant'anni, ma... ha deciso così, purtroppo. E già a quel tempo... si preoccupava della formazione delle nuove leve... come si suol dire. E io le devo molto.», poi le mise una mano sulla spalla «Andiamo anche noi?»
Joe le guardò allontanarsi, e lasciarlo “solo” su quel palco, dal quale ammirò per un'ultima volta la platea vuota, chiedendosi e cercando di immaginare che cosa potesse aver provato lei, il giorno in cui aveva calcato quella scena per l'ultima volta.
Chissà se era qualcosa di vagamente simile a quello che aveva sempre immaginato avrebbe provato lui, nel momento in cui avesse tagliato il traguardo della sua ultima corsa.
Strinse le labbra, in un moto di malinconia, e nella realizzazione dell'ennesimo momento della sua vita che non aveva vissuto. E che non avrebbe mai avuto la possibilità di vivere. E cercò di concentrare la sua volontà e il suo cervello, e nel lasso di un battito di ciglia, si ritrovò seduto nella stessa auto che l'aveva condotto lì, stavolta dalla parte del passeggero.
Aveva capito che era in grado di padroneggiare quei brevi spostamenti, anche senza l'aiuto di Ivan. Bastava volerlo. E forse questa era l'ennesima riprova che lui fosse una creatura puramente spirituale in quel mondo. Non era mai stato un uomo particolarmente dedito alla religione, ma il mito della morte l'aveva sempre in qualche modo affascinato. Soprattutto da quando era divenuto un cyborg. E ne sapeva abbastanza da riconoscere che si trattasse di un'ipotesi assolutamente plausibile che non fosse altro che un fantasma.
In base all'ultimo dei suoi ricordi, la sua doveva essere stata una morte violenta. Ed era del tutto plausibile che il suo reikon, la sua anima, fosse rimasta intrappolata nel mondo dei vivi, trattenuta dalle sue emozioni e dai suoi sentimenti, e da quell'eterno senso di incompiuto che attribuiva alla sua esistenza. E quindi doveva essersi trasformata in yūrei. Se così era, si chiese che cosa avrebbe dovuto fare per raggiungere il mondo di yomi, dove forse avrebbe finalmente trovato la pace eterna.
Scosse la testa, scacciando quel pensiero lugubre e sentendo che, in realtà, non voleva assolutamente andarsene.
Di riflesso, guardò accanto a sé, il sedile di guida ancora vuoto. Françoise non era ancora arrivata, e si voltò verso il finestrino e la vide. In tutta la sua bellezza, adesso avvolta in un quel morbido cappotto che le scendeva perfetto sulla sua figura, fino alle caviglie. Aveva sempre apprezzato quella sua eleganza e buon gusto nel vestire, solo apparentemente semplice. In realtà era una donna sofisticata e complessa. Ma anche questo, forse, era un lato di lei che conosceva soltanto lui. E ciò lo rendeva intimamente felice.
No, non voleva andarsene.
Sarebbe voluto rimanere accanto a lei per sempre, anche in quello stato, anche nell'impossibilità di toccarla.
Gli sarebbe bastato.
Era quella la pace che stava cercando. Non aveva bisogno di nient'altro.
E, chissà, forse, per passare nello yomi la sua anima stava proprio aspettando che anche lei...
Scosse di nuovo la testa, a scacciare via quel terrificante pensiero. Stavolta più violentemente. Tanto che ritornarono le fitte lancinanti di quel dolore che sembrava essersi placato nell'ultima ora.
“E poi lei non crede in yomi.”, pensò, dandosi dello stupido.
Ma non era più stupido pensare che esistessero mondi dei morti diversi, a seconda della propria religione?
Se nella morte si è tutti uguali, non era più logico pensare che esistesse un aldilà solo, per tutti.
Scosse di nuovo la testa, fregandosene del dolore che quel gesto gli provocava. Era più doloroso il pensiero in sé. Lo era sempre stato.
Quella paura di perderla... la paura che le potesse succedere qualcosa... lo aveva sempre attanagliato.
Si voltò a cercarla, quasi a rassicurarsi della sua presenza, e la trovò ancora ferma davanti alla porta di servizio del Palais Garnier da cui erano entrati poco prima, e da cui doveva anche essere uscita. Forse la stessa che utilizzava ai tempi in cui ballava.
Stava chiacchierando con un uomo. Doveva avere più o meno la stessa età di Françoise... la loro stessa età. Ma lui li dimostrava tutti. Dovevano conoscersi bene... Le aveva persino messo una mano sulla spalla... Sembravano molto...
Storse in una smorfia le labbra già strette dall'irritazione, ricacciando indietro la parola che gli era venuta in mente. E si accorse che stava stringendo la mano in un pugno, così come i suoi lineamenti in una collera sorda, quanto ridicola.
Troppo facile capire che cos'era quella forza.
L'aveva provata raramente, e lei non l'aveva praticamente mai aizzata dentro di lui.
Ma proprio per questo la riconosceva fin troppo bene...
“Gelosia.”, rispose a se stesso “Un fantasma geloso... questa è da ridere.”, pensò distogliendo lo sguardo dalla scena che gli provocava tutto questo “Sarà semplicemente un suo ex-collega... Magari è pure dell'altra sponda. Non è raro in quest'ambiente...”
Eppure i suoi occhi tornarono lì, e non poté fare a meno di sentirsi sollevato quando notò che Françoise e l'uomo si erano finalmente congedati, e lei stava tornando da lui.
La seguì con lo sguardo, mentre raggiungeva l'auto e si toglieva il cappotto, per posarlo insieme alla borsa sul piccolo sedile posteriore. Per poi sedersi accanto a lui, riempiendogli di nuovo le narici di quel profumo, che richiamava miriadi di frammenti scomposti della sua memoria, e che ancora non riusciva a mettere in un quadro completo.
«E' quello che uso di più, quindi presumo di sì...»
Sentì il motore avviarsi con un ruggito e la osservò armeggiare con il suo cellulare, prima di mettere le mani sul volante sui cui campeggiava l'inconfondibile tridente Maserati. Il suo occhio interessato non aveva potuto fare a meno di essere attratto dal fascino automobilistico di quel mezzo, e anche dalla disinvoltura con cui lei maneggiava quel motore da svariati cavalli nel traffico cittadino di Parigi. Si sorprese a chiedersi se non fosse un po' anche merito suo.
La vide premere un tasto con la cornetta di un telefono sul volante, appena prima di uscire dal piccolo parcheggio riservato al personale del teatro e reimmettersi nel traffico della capitale, bagnata adesso da una pioggia insistente, che cadeva a grosse gocce sul vetro.
«Jean.», disse a voce alta Françoise, lasciando Joe con tutta la sua curiosità.
Poi sentì un rumore elettronico, provenire probabilmente dagli altoparlanti dell'impianto audio, e in seguito il rumore inequivocabile e sempre uguale di un telefono che squillava.
«Ciao sorellina.»
La voce di Jean era leggermente distorta dal filtro degli altoparlanti, ma era inconfondibile, sebbene più matura di quanto la ricordasse.
«Ciao, aviatore.», le rispose lei, sorridendo come se l'avesse lì davanti, anziché chissà dove mentre lei si destreggiava nel traffico «Allora, che cosa fai stasera? Voli con noi?»
«Ah, Fran, mi spiace.», rispose lui «Ma proprio non riesco.»
Françoise strinse le labbra, in quella che Joe riconobbe come la sua espressione di delusione più intensa: «Non riesci a passare nemmeno cinque minuti?», gli chiese «E' pur sempre la tua figlioccia.»
«Sì, lo so. E lo sai quanto mi dispiace.», disse «Ma... qui stiamo ancora lavorando per tutto quel casino successo a Sirobi ad agosto. Ci stanno con il fiato sul collo.»
«Sì, capisco.», disse Françoise sospirando «Lo so che non è colpa tua. E' solo che...»
«Ti giuro che... vedrò di rimediare appena possibile.», disse Jean «Ma stasera proprio non posso.»
Françoise contorse le labbra in una piccola smorfia, che rivelava come stesse pensando in che modo fargli rimediare: «Ok... a pranzo domenica?»
Dall'altro lato si sentì qualche secondo di silenzio: «Proprio domenica?»
Françoise rise: «Dimenticavo... hai la partita del PSG... ehm... domani a cena, allora?»
«Vada per domani.», rispose Jean.
«Allora la aspettiamo, generale Arnoul.», gli rispose Françoise, sorridendo «Adesso ti lascio alle tue mansioni.»
«Va bene.», rispose lui «Comunque... credo che ora voglia stare soprattutto con te e con suo padre, e con suo fratello. Non credo noterà la mia mancanza.»
“Con te e con suo padre?”, si chiese Joe, aggrottando la fronte e guardando il display su cui compariva il nome di Jean, come se potesse essere una persona in carne e ossa, a cui poter chiedere spiegazioni.
«Il problema è proprio che non so se ci sarà suo padre.», disse «L'ho sentito stamattina, e non sa se riesce a ritornare. »
«Dov'è ancora?», le chiese «E' fuori da una settimana!»
Françoise alzò gli occhi al cielo, mentre si reimmetteva sugli Champs Elysées, in direzione inversa rispetto a quella da cui erano venuti: «In giro per il mondo, per lavoro.», disse «Il fatto è che... ci ha un po' preso tutti alla sprovvista. E quindi tutti avevamo i nostri impegni. E non sono cose che puoi spostare da un giorno all'altro.»
«Mi dispiace.»
Françoise scrollò le spalle: «Mica è colpa tua.»
Dall'altra parte si sentì il rumore di un sorriso: «Vabbeh, dai. Hai detto che non sapeva se ce la faceva, quindi potrebbe... anche essere già a casa.», disse «Magari arrivi e te lo trovi lì.»
L'altra scosse la testa, mentre seguiva il flusso del traffico: «Ne dubito, ma non sarebbe la prima volta che mi sorprende con effetti speciali.»
Jean rise: «Quello farebbe di tutto per sua figlia... e per te.», disse «Sono convinto che è già a casa, quel matto di tuo marito.»
La coltellata arrivò.
Dritta, precisa e chirurgica al centro del cuore, che già da un po' aveva preventivato il colpo, iniziando a battere come un matto per esprimere la sua ansia. Lo aveva capito dal modo in cui Jean aveva detto “con te e con suo padre”. Non erano due persone distinte, e che non c'entravano niente l'uno con l'altro. C'era un legame fra lei e quell'uomo. Un legame simboleggiato da quell'anello e da quel cerchio d'oro che solo adesso notava all'anulare sinistro.
Perché lo vedeva soltanto adesso? Forse perché la sua mente aveva sempre rifiutato di soffermare il suo sguardo in quel punto... per scoprire che la sua vita era andata avanti... davvero senza di lui?
E scoprire che era il peggiore dei suoi incubi divenuto realtà.
“Ma in fondo non è meglio che sia andata così? Ti aspettavi che rimanesse legata a un fantasma per il resto della sua vita?”
No... forse.
Ma sapeva che un angolo del suo animo più egoista e possessivo qualcosa del genere l'aveva sperato. E forse, chiunque ci fosse adesso al suo fianco, non lo amava come aveva amato lui...
“Però ha avuto dei figli...”
«Pensi mai a quello che ci disse... quell'emigrante, Joe? Che... noi due eravamo... suoi antenati?»
“Fratello e sorella... Due figli...”
«Tu ci credi davvero, Françoise?»
“Un maschio e una femmina...”
«Io ci voglio credere.»
Ebbene, infine quell'emigrante si sbagliava.
Non era un suo lontano discendente.
Suo e di Françoise.
O forse...
“Che sciocco che sono stato...”, pensò scuotendo la testa, e tenendosela fra le mani, mentre sentiva la propria risata isterica accompagnare la propria disperazione.
Ma certo, si era trattato dello scherzo crudele di un animo meschino. L'ennesimo individuo che si era divertito a giocare con i suoi sentimenti.
Nel modo più subdolo.
Quella rivelazione aveva aperto una porta, una speranza, uno spazio per un altro piccolo raggio di luce in quella sua vita oscura.
Ed era vero che Françoise aveva avuto dei figli, ma non ne era lui il padre. Lui, che non aveva nemmeno osato immaginare di poterlo diventare, data la sua condizione. Fino a che quell'individuo venuto dal futuro non gli aveva rivelato di essere un loro lontano discendente.
Suo e di Françoise.
Allora aveva cominciato a pensarci, a dare a quell'evenienza una possibilità. Ma senza aver mai avuto il coraggio di dirlo ad alta voce.
No, non era lui quell'uomo. Non era lui il padre dei suoi figli.
Un altro uomo aveva giaciuto con lei.
Altre mani e altre labbra avevano accarezzato, esplorato e baciato la sua pelle di seta, e il suo corpo sinuoso, e le sue labbra delicate.
Un altro era diventato una cosa sola con lei, assaporando il suo piacere e facendolo proprio.
E lasciato dentro di lei il seme della vita.
E questo gli era ancora più insopportabile dell'idea di essere stato vittima di uno scherzo crudele, e di essere stato così illuso e ingenuo da esserci cascato come uno stupido.
Ma è così stupido aggrapparsi a una speranza?
Sentiva gli occhi bruciargli di dolore vivo, mentre la sua mano si stringeva nella morsa di un pugno, tremando per il nervosismo e la rabbia che gli scorreva vivida nelle vene come sangue velenoso.
“Idiota!”
Sentì il rumore del colpo, e il dolore che si riverberava per tutto il braccio. Si voltò a lato, a guardare il finestrino che aveva colpito con la forza della sua rabbia, sorprendendosi di trovarlo integro, mentre aveva appena la consapevolezza che l'auto stava accostando.
“Certo... non sono un cyborg... adesso.”, si ricordò. Poi spalancò gli occhi “Ma... l'ho colpito davvero?!”
Guardò al suo fianco, e vide gli occhi di Françoise diretti nella sua direzione, spalancati e perplessi.
«Françoise, è successo qualcosa? Cos'era quella botta tremenda?»
Ancora la voce di Jean. Non si era neanche accorto che la loro conversazione telefonica fosse andata avanti.
«Io non...»
La vide uscire dall'auto, giusto il tempo di guardare al tratto di strada che si era lasciata alle spalle. Sembrava una strada residenziale, piuttosto elegante. Si voltò di nuovo verso il finestrino, a cercare un riferimento, e si trovò davanti proprio il cartello con il nome della via.
“Città di Neuilly Sur Seine... Boulevard Maurice Barres”
«Non lo so.», disse Françoise, rientrando in macchina «Ho sentito anch'io un colpo... e...»
La vide guardarsi intorno. Certo, lo sapeva che era venuto dall'interno. Lo avrebbe saputo meglio di qualunque essere umano. E forse era proprio per questo che Joe stava trattenendo il respiro, quasi timoroso che lo sentisse.
“Ma come sarebbe possibile?”, si chiese, guardando di nuovo il finestrino integro, mentre la mano gli faceva ancora male.
Troppo male per essere stata solo la sua impressione, o l'elaborazione della sua mente delirante e sull'orlo della pazia.
La mosse per andare a toccare il vetro... ma la mano si appoggiò su di esso, dandogli di nuovo la sensazione sgradevole di toccare il vuoto.
Françoise si rimise in marcia, ancora con la perplessità dipinta sul volto: «Sono arrivata, Jean.», disse «Ci vediamo domani, allora.»
«A domani.», rispose l'altro «Salutami, tutti, eh.»
Si sentì il rumore secco, della chiamata che si chiudeva, mentre Françoise metteva la freccia a destra, per fermarsi in un vialetto, dove estrasse un telecomando da un vano portaoggetti, con il quale evidentemente azionò il meccanismo di apertura del cancello, all'estremità del quale una luce gialla cominciò a lampeggiare.
Nell'attesa che il cancello si aprisse, lei guardò ancora un paio di volte in direzione di Joe. O meglio, del vuoto che v doveva vedere.
Scosse la testa, appena prima di rimettere in moto i molti cavalli dell'auto, per guidarla attraverso un lungo viale di ingresso. In fondo al quale si ergeva una casa elegante, probabilmente di costruzione antica, ma perfettamente tenuta. Come il grande giardino che la attorniava, e su cui i colori dell'autunno creavano un effetto magico, e in qualche modo tristemente romantico, in quel giorno che prometteva altra pioggia, che intanto sembrava essersi concessa una tregua.
“Vi trattate bene, eh?”
Joe scosse la testa, a quel suo pensiero, cercando di scacciare inutilmente quella sua stupida gelosia, che non aveva ragione di esistere.
Non più
Lui non esisteva più se non sotto quella forma eterea e inconsistente di cui, certo, lei non poteva essere a conoscenza. Per lei, lui era ormai solo un ricordo. E sperò che almeno fosse piacevole.
Ma per quanto ci provasse, quella sensazione gli rimaneva avvinghiata all'anima. Era più forte di lui. Eppure... avrebbe dovuto essere felice che si fosse rifatta una vita. E bastava guardarla per capire che lei lo era. Ancora dopo tanto tempo, il suo stato d'anima le si leggeva a prima vista sul volto, chiaro e intelligibile come un libro aperto.
Sì, lei era una donna felice, adesso. E la conosceva fin troppo bene per non sapere che quella sua felicità non aveva niente a che fare con il mero benessere materiale che esemplificavano l'auto che guidava e la casa in cui viveva. Sicuramente aveva avuto due figli meravigliosi, e l'uomo che aveva accanto non poteva che amarla, perché non si poteva non amarla...
“Ma non sono io.”, pensò stringendo le labbra e la mano sul bordo del sedile, sentendo la pelle di esso sotto le sue dita...
Ritrasse la mano come scottato, guardandola e poi guardando il bordo del sedile che ritornava alla sua forma originaria, e poi Françoise, che sembrava non essersi accorta di niente, mentre parcheggiava in un garage ricavato su quello che sembrava il retro dell'abitazione.
Joe riposò la mano sulla pelle del sedile, ma di nuovo era come se il suo senso del tatto non ci fosse mai stato. Era nuovamente come toccare il nulla assoluto.
Intanto Françoise era già scesa dall'auto, e anche lui fece altrettanto, a modo suo, ritrovandosi all'interno di un grosso garage e non potendo che strabuzzare gli occhi di fronte a quello che per l'appassionato di automobili che era in lui, era uno spettacolo per gli occhi.
All'interno di quella sorta di caveau erano riconoscibili una Ferrari 250GTO, una Lamborghini Miura, una Iso Rivolta Grifo. Tre dei suoi sogni automobilistici proibiti di quando era giovane...
“... E vivo...”
… tutti insieme nello stesso posto. Il modello decisamente più recente e moderno di un'altra Ferrari quasi sfigurava di fronte ad esse.
Quelle auto risalivano ad almeno quarant'anni prima, eppure sembravano appena uscite da un concessionario. La carrozzeria era lucida, perfetta, senza un minimo graffio. E gli interni riflettevano la perfezione esterna. Chi le possedeva, doveva curarle maniacalmente. Come se fossero dei tesori. E probabilmente lo erano in quell'epoca.
Sentì una porta chiudersi alle sue spalle, e le luci si spensero, pochi secondi dopo, lasciandolo al buio. Concesse alle sue pupille il tempo di adattarsi a quell'oscurità improvvisa, e quindi cominciò a muoversi, in base a dove ricordava di aver visto la porta, e in pochi istanti fu all'esterno.
Il giardino sembrava ancora più grande, dall'esterno dell'auto. E anche la sua bellezza era ben più apprezzabile, anche nel grigiore di quella giornata. L'autunno aveva variopinto le foglie degli alberi maestosi, come la tavolozza di un pittore. Sembrava quasi di essere al centro di un quadro impressionista. Su un angolo lontano del giardino a Joe parve di riconoscere perfino alcuni alberi di ciliegio, ormai spogli...
“... O forse è la mia malinconia che li crea nella mia immaginazione...”
… e gli venne naturale chiedersi come fossero una volta fioriti, con il vento che ne accarezzava i petali, portandoli via, caduchi come la vita.
E nella bellezza di quel giardino, l'abitazione risaltava in tutta la sua eleganza e cura dei particolari. Era una costruzione evidentemente lussuosa, ma di buon gusto, in tipico stile francese di inizio secolo...
“Quale secolo?”, pensò ironico, scuotendo la testa e chiudendo gli occhi “Siamo già in un altro secolo, povero sciocco!”
Fu in quell'istante che lo sentì. Un guaito, lamentoso e prolungato che lo portò aprì gli occhi in quella direzione, dove un magnifico esemplare maschio di cane akita lo stava fissando, seduto a pochi centimetri da lui, e muoveva il muso verso la sua mano, come se reclamasse una carezza che lui non poteva dargli. E in un flash si ricordò del leone di montagna salvato da Geronimo, e di come avesse ringhiato nell'avvertire la presenza sua e di Ivan all'interno del fienile.
“Forse gli animali sono davvero... più sensibili dell'uomo.”
«Yemon, che ti prende?», chiese Françoise, ormai distante qualche decina di metri da lui e dall'animale.
“Yemon... 'spirito guardiano'?”
Joe tornò a guardare il cane, che abbaiò e che aveva ora il muso rivolto verso quella che era probabilmente la sua padrona, con la lingua penzoloni. Ma non si era mosso di uno spillo dalla sua posizione, e presto tornò a guardarlo, mugolando e muovendo il muso verso la sua mano. E forse non riuscendo a capire perché non trovasse altro che aria.
“Sei un bel cane.”, pensò Joe sorridendo, e rammaricandosi di non potergli dare quella carezza che l'animale sembrava richiedergli “Mi sarebbe sempre piaciuto averne uno come te.”
«Fai un po' come vuoi.», disse Françoise, rivolgendosi evidentemente all'animale, e avviandosi «Non me ne starò qui ad aspettare che torni a piovere.»
Joe alzò gli occhi verso il cielo ormai scuro, promettente nuova pioggia, e si mosse per raggiungere quella che era ormai il suo unico punto di riferimento in quel mondo, la sua guida inconsapevole, dato che Ivan ancora non accennava a mostrarsi.
E non sapeva se sentirsi sollevato o inquietato da quella assenza.
«Potrebbe anche essere già a casa. Magari arrivi e te lo trovi lì.»
Il ricordo delle parole di Jean, che si riferivano evidentemente all'uomo che aveva preso il suo posto nella vita di Françoise, lo bloccò. Mentre si accorse delle prime gocce di pioggia che tornavano a cadere a causa del loro rumore sulle foglie degli alberi e delle piante del giardino.
E se fosse stato vero?
Se quell'uomo fosse già tornato?
Françoise aveva riportato che, quella mattina, lui le aveva detto che non sapeva se sarebbe riuscito a tornare a casa in
tempo. Ma se invece ce l'avesse fatta e fosse stato dentro ad aspettarla? Lui lo avrebbe fatto, se fosse stato al suo posto.
Se si fosse trattato di sua moglie e di sua figlia.
“Ma io non sono al suo posto.”, realizzò amaramente, riflettendo quel suo pensiero in un sorriso malinconico in cui serrò le labbra, mentre un moto di collera tornava a stringergli le mani in due pugni “E' lui che è al posto mio.”
Alzò di nuovo gli occhi al cielo, mentre il rumore della pioggia aumentava di intensità. E anche se non lo sentiva sulla sua pelle, gli sembrava che il freddo dell'acqua gli penetrasse fin dentro il suo corpo, impregnandone ogni fibra.
Perfino il cane si arrese all'idea che non avrebbe mai ricevuto la carezza che stava reclamando, e si allontanò da lui, dirigendosi di buon passo verso Françoise. Che ancora lo aspettava, adesso al riparo sotto il portico della casa, dove sembrava non essere ancora entrata
«Non so come potresti reagire.»
Era questo ciò a cui alludeva Ivan.
Che non sapeva come avrebbe reagito sapendo che lei si era rifatta una vita senza di lui. E d'altra parte... non era giusto che fosse così. Lui non avrebbe mai desiderato che restasse legata per sempre a un morto.
Ma gli sarebbe bastato che, in un angolo del suo cuore, avesse mantenuto un posto per lui, nella sua memoria. Un posto per loro. Per tutto quello che era stato, e per tutto quello che non sarebbe mai potuto essere.
Ma chissà se di questo avrebbe mai potuto avere conferma?
E dov'era Ivan, in quel momento? C'erano stati attimi, nel corso di quel viaggio, in cui lo aveva detestato. Ma in quel momento si sentiva tremendamente solo. E lui era l'unica persona che poteva fargli un po' di compagnia. A poter spezzare la sua solitudine.
“Beh, Joe. Ormai sei arrivato fin qui...”, pensò sospirando, cercando e trovando in lui quel coraggio che gli fece muovere il primo passo.
E poi il secondo, e il terzo... e così via, fino a camminare, per raggiungerla proprio quando lei si era rialzata da quella posizione quasi inginocchiata in cui si era messa per poter accarezzare il cane, che era tornato da lei.
L'animale si voltò appena verso di lui, quando li raggiunse, emettendo un altro guaito.
«Ma che ti prende oggi?», gli disse Françoise, dandogli un ultima arruffata ai peli del capo «Sei strano.»
Il cane rimase seduto, limitandosi a seguire con lo sguardo prima la sua padrona che si allontanava, e poi Joe, dandogli la conferma, semmai ce ne fosse stato bisogno, che avvertiva la sua presenza non meno di quella reale di Françoise. Almeno, stavolta, non emise alcun verso al suo indirizzo.
Entrarono in casa da quella che sembrava una porta di servizio. Dei rumori giunsero alle loro orecchie da una stanza che doveva essere nelle vicinanze.
«Ma cosa...?»
Joe vide il volto di Françoise aggrottarsi nella sua perplessità, mentre lasciava il cappotto e la sua sciarpa a un attaccapanni, e la borsa su una console, rimanendo solo con il tailleur. La seguì incuriosito anche lui, quando riprese i suoi passi e facendo appena risuonare i tacchi sul pavimento di marmo, addentrandosi dentro il corridoio, fino a una doppia porta aperta, di fronte alla quale si fermò.
«Ah, sei qui.», disse Françoise, varcando quella doppia porta «Stamattina mi avevi detto che non pensavi di farcela.»
“Eccolo.” Joe sospirò, ancora un passo dietro di lei: “Dev'essere lui.”, pensò preparandosi mentalmente, come se dovesse incontrare il peggiore dei suoi nemici, o dei suoi incubi “Vai Joe: basta alzare gli occhi.”
E quando li alzò, sentì le gambe cedergli di colpo, facendolo sbattere contro un'anta della porta, che a sua volta andò a rimbalzare contro un mobile a quello scontro.
«Tutto a posto?»
La voce gli dette ulteriore conferma di ciò a cui i suoi occhi non volevano credere. E trovò il coraggio di rialzarli, mentre ancora si reggeva allo stipite della porta per non crollare a terra.
“Come hai potuto...?”
Questo era molto peggio di qualunque incubo...
«Non sono stata io.», stava dicendo Françoise, guardando la porta che, ai suoi occhi, doveva essersi mossa da sola.
“... Jet?!”
«E chi è stato, allora, ma chérie? Un fantasma?»
Françoise scrollò le spalle: «Potrebbe anche essere.», disse, quasi ridendo «Questa casa è vecchia. Si presterebbe allo scopo.»
«Da quando in qua crederesti ai fantasmi?», chiese Jet, prendendo un paio di calici da vino dentro un mobile, muovendosi come solo il proprietario di casa avrebbe potuto muoversi nella sua cucina.
«Non sarebbe la cosa più strana che... abbiamo visto nella nostra vita. no.»
Jet stappò una bottiglia, versando il liquido rosso rubino dentro i due calici posati sul ripiano di un'isola in mezzo alla stanza: «Su questo non hai tutti i torti, baby.», disse posando la bottiglia accanto ai bicchieri, e raccogliendone uno, per poi usarlo per fare un cenno verso di lei.
Françoise lo guardò stranita: «Sono a digiuno.», disse, scuotendo lievemente la testa.
Jet alzò gli occhi al cielo: «Oh, andiamo, tesoro. Sei francese!»
“Tesoro...”, si ripeté mentalmente Joe, mentre un'altra stilla di rabbia andava pericolosamente ad avvicinarlo al suo limite, facendogli ulteriormente serrare le labbra, e i pugni.
Se poco prima aveva pensato di accantonare ogni sentimento di rivalsa verso l'uomo che aveva preso il suo posto nella vita di lei, essi erano ritornati tutti d'un colpo nell'istante stesso in cui aveva realizzato che quell'uomo non era nient'altro che quello che era stato il suo migliore amico e più fedele compagno.
Si sentiva come accoltellato alle spalle, e adesso, quei pugni che si stavano stringendo sempre di più fino a dargli la sensazione che le unghie gli penetrassero nella carne, voleva stamparglieli in faccia. E forse era proprio la rabbia a tenerlo su, dopo quell'istante di cedimento fisico, suscitato dallo stupore e dalla delusione.
«Il fatto che io sia francese non mi rende meno dannoso bere alcool a digiuno.», stava dicendo Françoise, scuotendo la testa e avvicinandosi all'altro, fino ad appoggiare i suoi gomiti sul bancone, sporgendosi “pericolosamente” verso di lui.
“Non azzardarti a baciarla...”
L'altro strinse le labbra in una smorfia, raccogliendo poi qualcosa da una ciotola che sembrava una specie di sfoglia croccante triangolare, che andò ad intingere in un altro contenitore. Quando lo estrasse, era coperto di una salsa verde e lo porse a Françoise, che dapprima lo fissò incuriosita, e poi lo prese con una mano, per portarselo alla bocca.
«Uhm, buono.»
Jet storse i suoi lineamenti in una smorfia: «Buono? Soltanto buono!?», disse, imitando Chang perfino troppo bene «La mia guacamole è la migliore del mondo.», disse facendola ridere e poi accennando di nuovo al bicchiere lasciato per lei sul ripiano «Comunque adesso non sei più a digiuno.»
Françoise sospirò, quasi rassegnata, e raccolse il suo calice, facendolo tintinnare con quello dell'altro, prima di berne un sorso: «Non hai ancora risposto alla mia domanda.», gli disse, facendo roteare il liquido rosso dentro il bicchiere e poi osservandolo in controluce, prima di aspirarne l'odore «Stamattina eri stato piuttosto pessimista.»
«Andiamo.», disse Jet, dopo aver quasi svuotato il suo calice «Lo sai che farei di tutto per la nostra piccola principessa. Non potevo certo mancare. Ho mandato a 'fanc... ehem, a quel paese quegli sboroni della FIA e sono volato qui.», alzò il capo, come se si fosse accorto di qualcosa, e all'improvviso scoppiò a ridere «“Volato qui.”», ripeté scuotendo la testa «Ho proprio detto “volato qui”?»
Françoise scrollò le spalle: «Sì, l'hai detto.»
Joe aveva sbuffato a quel “nostra”, cercando di espirare un po' di rabbia insieme a quel soffio d'aria. E riuscendo a sortire esattamente l'effetto contrario. Sì, era stato decisamente pronto a tutto. Ma questo andava ben oltre quel “tutto”.
Jet stava scuotendo la testa: «Cielo, quant'è che non facevo una battuta del genere?», rise sommessamente «Con tutto quel casino, mi si dev'essere perfino resettato il cervello...»
«Non è andata bene?», disse Françoise «Alla FIA, intendo.»
«Non va niente bene, finché c'è quel pagliaccio di Ecclestone al timone.», disse «Non riusciremo mai a riportare un gran premio di Formula 1 negli Stati Uniti. Certo se...»
Françoise lo fermò con un gesto della mano: «No, non mi interessa. Veditela tu, ok?», disse scuotendo le mani «Adesso farei meglio ad andarmi a cambiare...»
Jet sospirò: «Vuoi che ti accompagni?»
Un'altra fitta di rabbia attraversò il corpo di Joe come una scossa elettrica e gli fece alzare gli occhi verso di loro, trovandoli a ridere, appoggiati con i gomiti sul ripiano, erano così vicino che sarebbe bastato un niente perché...
Richiuse gli occhi, stringendoli più che poté e sancendo la sua vigliaccheria, e ribadendola mentre le sue mani andavano a coprirsi le orecchie. Non lo voleva sentire, non lo voleva vedere, non lo voleva nemmeno immaginare, non era in grado, non ci voleva neanche pensare, non lo sopportava e non sarebbe mai riuscito a tollerarlo.
Il suo migliore amico non avrebbe semplicemente dovuto fargli una cosa del genere. Lui meglio di tutti conosceva i suoi sentimenti, e non doveva tradirlo in quel modo.
Ripensò ai figli che avevano avuto... senza avere il coraggio di immaginarne l'aspetto. Ripensò a lei, e a tutto quello che aveva significato nella sua vita, lasciandosi sconsolare dall'idea della consapevolezza di non essere mai riuscito a dimostrarle quanto la amasse.
“E adesso è tardi per rimediare...”
Ripensò alle tre auto nel garage, ormai d'epoca, ma che erano stati i suoi sogni di gioventù, tenute a lucido come oggetti preziosi. Riusciva persino a immaginare il rombo dei loro motori, e l'emozione che poteva dare guidarne una. Un'emozione che non aveva mai potuto provare.
Ripensò al cane, e a quante volte aveva pensato che avrebbe voluto averne uno per vederlo crescere e scorrazzare nel giardino di una casa come quella, e poi ricevere il suo saluto affettuoso al ritorno, dopo una giornata interminabile.
Accidenti, Jet non gli aveva solo rubato la donna che amava.
“Ha preso anche tutti i miei sogni!”
E non avrebbe dovuto... Non lui! Tra tutti, perché proprio lui?!
Avrebbe almeno potuto...
“... Che cosa?”
I suoi occhi si riaprirono, e lui si sorprese nel suo respiro affannoso, simile a quello di un maratoneta alla fine della sua corsa stremante, mentre sentiva le mani scendergli lungo i fianchi, ormai come prive di forza, svuotate di energia dal suo semplice pensiero.
Già, che cosa avrebbe dovuto fare Jet?
Chiedergli il permesso?
Chiedere il permesso... a un morto?
“Sarebbe stato ridicolo...”
Scosse la testa, in una risata isterica, e rialzò lo sguardo verso di loro. C'era ancora quel senso di gelosia bruciante, ma stavolta ad accompagnarlo c'era anche la profonda tristezza infusa in lui dalla loro naturale ilarità, che lasciavano trapelare, mentre parlavano di chissà cosa.
Non riusciva a sentirli, e forse non gli importava.
Non gli importava più niente.
“No, non è vero...”, pensò, raccogliendo un sorso d'aria infinito.
Chissà quanti anni di vita insieme e complicità avevano condiviso. A guardarli sembravano davvero due vecchi coniugi il cui legame si era rafforzato attraverso gli anni... quanti anni... e vita ed eventi vissuti insieme. Due vecchi coniugi con l'aspetto di due giovani quarantenni, che a loro volta dimostravano parecchi anni in meno.
“Non è vero che non mi importa, ma...”
Ma lei sembrava felice.
Sì, lo sembrava davvero, mentre rideva all'ennesima battuta che lui doveva avergli detto.
“E' mai stata così felice insieme a me?”
Non aveva una risposta.
Non osò darsela, mentre la sua mente confusa si divideva tra pensieri contrastanti, tra i suoi bianchi e i suoi neri, senza trovare linea di continuità in quella lotta eterna tra opposti e antipodi che aveva sempre rispecchiato la sua vita e la sua esistenza.
Si sorprese a realizzare che forse era meglio così.
Che era davvero meglio così.
Che forse, se qualcuno doveva essere, era meglio lui, Jet, di chiunque altro nel mondo.
Tornò a guardarli... quando aveva smesso di farlo?... ancora così vicini da potere... no, non riusciva neanche a pensarlo... e ancora a ridere di chissà cosa. Qualcosa che Jet le stava raccontando
Chissà, forse si erano trovati proprio nel momento in cui era venuto a mancare, lasciando un vuoto nella vita di entrambi. Forse si erano ritrovati uniti più di chiunque altro proprio in quel dolore lancinante e acuto che è causato dalla perdita di una persona cara a entrambi, anche se in modo diverso.
E poi il dolore si era disperso, attenuato dal tempo, lasciano loro un sentimento reciproco che era ormai più forte e stretto di quella loro strana amicizia tra la leggiadra e delicata ballerina e il rude e scorbutico ragazzo di strada.
Uno strano moto di ilarità, spontaneo quanto isterico, gli fuoriuscì dalle labbra, mentre scuoteva la testa nel realizzare che in fondo anche lui stesso era un ragazzo di strada. In fondo lui e Jet erano diventati così amici proprio perché erano terribilmente simili. E forse... lei era attratta da quel tipo d'uomo. Forse era normale che avesse trovato in lui... un suo sostituto... dopo...
“E se fosse stato... prima?”
Il pensiero gli spalancò gli occhi, mentre nella sua memoria cercava frammenti... conferme... atteggiamenti... parole...
«Françoise era disperata... e ho capito che non potevo lasciare che un mio compagno... e un mio amico morisse in quel modo. Da solo... alla deriva nello spazio.»
Era davvero stata solo l'amicizia, a spingerlo...?
«Capisco benissimo i suoi sentimenti... cosa la spinge...»
… o qualcos'altro?
«No, non ringraziarmi.»
Qualcosa che forse era sempre stato tenuto a freno... proprio a causa sua? Proprio per rispetto verso di lui?
Alzò di nuovo gli occhi su di loro, ancora persi nella loro ilarità complice, che sembrava non curarsi nei suoi tormenti. E sentì gli scampoli della sua rabbia trasformarsi in qualcosa che assomigliava al senso di colpa.
Chissà... forse Jet era davvero andato sulla sua tomba a chiedergli il permesso, dopotutto... Anche se non sarebbe stato tenuto a farlo...
«Vado a cambiarmi.», ripeté Françoise, finendo il suo vino, e muovendosi per andarsene.
«Davvero non vuoi che ti faccia compagnia?»
«Ma smettila di fare lo stupido!», gli rispose lei, ridendo, mentre scioglieva con un gesto i suoi capelli, liberandoli dallo chiffon.
Gli passò davanti, e il suo profumo gli riempì di nuovo le narici...
«Hai mai visto il Taj Mahal?»
Un altro frammento di un ricordo... o dello stesso ricordo...
Cercando di ricomporlo senza riuscirvi, non si era quasi reso conto di averla seguita. E mentre saliva le scale insieme a lei, si chiese se fosse giusto. Se non fosse ormai fuori luogo in quel posto. Forse avrebbe dovuto dar retta a Ivan, e non venire. In ogni modo, ormai era troppo tardi per tornare indietro.
Assorto nei suoi pensieri funesti, nella sua collera e nella sua malinconia, si accorse solo dopo averne varcato la soglia che l'aveva condotto in una camera da letto. E quando alzò gli occhi a guardarla, la vide già spoglia della giacca del tailleur, e proprio in quel momento vide la gonna scivolarle da dosso, rivelando le sue gambe ancora perfette come le ricordava, da cui si sfilò i collant, mettendo ancora più in risalto quella perfezione.
Era ormai intenta a sbottonarsi la camicetta, quando gli trapassò il cervello il pensiero e il dubbio che non era esattamente corretto che stesse lì a guardarla mentre si spogliava. Tra l'altro con lei che era completamente ignara della sua presenza e dei suoi occhi. Ma allo stesso tempo, era come una calamita per essi. Non riusciva a staccarli dalle sue forme, intuibili sotto il tessuto rimastole addosso che ancora gliele nascondeva agli occhi.
Si sorprese a deglutire come un'adolescente di fronte alla prima donna che si fosse mai spogliata di fronte a lui, e addirittura sentì una fitta di delusione quando, ormai arrivata ad essersi sbottonata metà dei bottoni della camicetta sotto il quale si intravedeva il pizzo del suo reggiseno e il suo seno ancora pieno e tonico, lei si voltò su se stessa dandogli le spalle.
E sentì le mani prudergli per il desiderio di...
Sospirò, alzandone una e osservandola, e poi lasciando che i suoi occhi tornassero a seguire i suo movimenti, e fu nel momento in cui vide i lembi della camicetta allargarsi con le sue mani che la luce si spense, coprendola dell'oscurità della sera, rotta solo da pochi scampoli di illuminazione che filtravano dalla finestra.
«Chi è?», la sentì chiedere.
Joe si guardò intorno, ormai poco abituato a non essere più in grado di vedere bene anche al buio, e sentendo solo in quel momento i passi ovattati sulla moquette della stanza. Ma era davvero troppo buio e la luce che filtrava era a malapena sufficiente per distinguere vagamente la sagoma degli oggetti.
«Non voglio farlo. Chi sei?», chiese di nuovo Françoise.
Immaginò che quel “non voglio farlo” si riferisse all'uso dei suoi poteri.
Non li avrebbe mai utilizzati, se non costretta. Sapeva bene anche questo.
Contro la poca luce che filtrava, la vide stringersi nell'unico indumento che era rimasto sopra la sua biancheria. E vide anche lui. Ne vide la sagoma appena distinguibile, ma era senz'altro un uomo.
Forse...
«Vuoi davvero che non ti faccia compagnia?»
Sconvolto nel realizzare quell'eventualità lo vide... abbracciarla?.. da dietro, e notò quel fremito che la percorse, e poi il suo sospiro di sollievo.
Forse perché l'aveva riconosciuto anche lei..
«Sei sempre il sol...»
Ma qualunque cosa stesse per dirgli, lui gliela ricacciò in gola con un bacio. Non lo poteva vedere chiaramente, ma riconosceva fin troppo bene il rumore e il suono di due persone che si lasciano andare l'uno nella deell'altra attraverso il contatto delle loro labbra e delle loro lingue.
«Aspetta... cosa...?»
Françoise non ebbe il tempo di completare quella domanda, che le venne di nuovo ricacciata indietro, da un altro bacio, al rumore del quale seguì il rumore inequivocabile dei loro corpi che si sdraiavano sul letto a pochi passi da loro, con un piccolo tonfo e il fruscio del tessuto della coperrta
“No, aspetta, questo no!”, pensò Joe, sentendo la collera sovrastare l'imbarazzo nel groviglio delle sue viscere.
«Aspetta... Non so se...»
«Sssst.»
Fu la prima cosa che le disse da quando lui era entrato in quella stanza, e dopo di essa tornò a catturarle le labbra e la bocca con la propria.
Al suono di quel bacio, presto si unì quello di altro tessuto..
“No, per favore questo no...”
Gli stava sbottonando la camicia... per arrivare ad accarezzargli e baciargli il torace sotto di essa... o stava già armeggiando con i suoi pantaloni per insinuarvi la sua mano...?
“Non posso stare qui a... ascoltare... mentre...”
Maledizione, non riusciva nemmeno a pensarlo... lei che faceva l'amore con un altro uomo.
Avrebbe potuto andarsene... ma la collera che sentiva crescere in lui, miscelata alla gelosia, era come un veleno paralizzante, che creava quel senso di impotenza contro il quale non riusciva a lottare.
Era come assistere a quella scena e avere le braccia incatenate al muro e non avere altra possibilità che aspettare che tutto fosse finito. L'unica parte del suo corpo che riusciva a muovere erano le palpebre, che si stringevano tanto da fargli male, così come le dita delle mani, dandogli di nuovo la sensazione che le unghie stessero penetrando nella carne.
«Il Taj Mahal fu costruito dallo Shah, in onore di sua moglie...»
Cercò di concentrare tutto se stesso su quel ricordo, nella speranza di risvegliarsi da quella distrazione quando tutto fosse finito.
«... Ella, in punto di morte, gli fece promettere che non avrebbe amato mai nessun'altra donna, dopo di lei...»
“Respira... respira...”
«... E lui costruì il Taj Mahal e tenne fede al suo giuramento...»
«Ah...»
Quel gemito con la voce di lei gli fece rispalancare gli occhi nel buio e si accorse del colpo, solo quando sentì il suo pugno colpire qualcosa, che poi cadde a terra, rovinando da qualche parte vicino a lui, accompagnato dal rumore di un vetro rotto.
«Ah!»
Stavolta il grido di Françoise fu di sorpresa, quasi paura. E quando la luce si riaccese di colpo, Joe dovette chiudere gli occhi, troppo abituati all'oscurità, ormai, per non venire feriti da essa.
«Come ha fatto a cadere quella cornice?»
“Cornice?”
Riaprì gli occhi, tenendoli bassi nel tentativi di abituarli gradualmente alla luce. O almeno cercò di aprirli. In realtà dovette sbatterli più volte, prima di riuscire a tenerli appena socchiusi, lasciando loro vedere la cornice che aveva fatto cadere ai suoi piedi.
E quella visione glieli spalancò...
“La foto del loro matrimonio!?”
Il vetro si era incrinato in più punti, cadendo. E i segni della rottura percorrevano la superficie trasparente da parte a parte. E uno di essi passava proprio sopra il viso di lui, rendendolo irriconoscibile, a parte il suo bell'abito.
Ma lei... lei non solo era riconoscibile, era...
“Era bellissima...”
Ed ebbe appena il tempo di incamerare quell'immagine, e lasciare che gli provocasse l'ennesimo tuffo al cuore, che una mano raccolse quella cornice, rialzandola lentamente. E seguendo con gli occhi il movimento di quella mano, arrivò anche a vedere a chi apparteneva.
E fu come guardarsi allo specchio.
Sì, perché quello che si trovò davanti era esattamente lo stesso volto che aveva visto riflesso allo specchio ogni singolo giorno della sua vita. L'aveva visto, giorno dopo giorno, definirsi nei suoi lineamenti e notare come anch'essi, insieme al colore innaturale dei suoi capelli, tradissero inequivocabilmente le sue origini meticce, con quegli occhi dal taglio orientale che si incastonavano su un volto dalle forme inequivocabilmente caucasiche, creando un insieme che col tempo avrebbe capito essere gradevole. Ma che nei tempi della sua giovinezza vedeva addirittura bizzarro.
Era quello stesso volto che aveva visto crescere ed evolversi, man mano che gli anni passavano e lui si trasformava da bambino in adolescente, e poi in un uomo adulto, benché facente parte di un corpo che avrebbe finito con l'invecchiare molto lentamente.
E solo in quell'istante capì quanto lentamente. Perché era davvero esattamente come guardarsi allo specchio. Ma farlo appena qualche anno più tardi rispetto all'ultima volta che ricordava di essersi soffermato a osservare la sua immagine riflessa.
«Si è rotto, il vetro, Françoise. Mi dispiace.», disse quel suo sosia, sospirando e tornando a posare la cornice sulla cassettiera dalla quale doveva essere caduto. Poi si voltò il viso verso di lei «Ma credo che la fotografia non si sia rovinata.»
Joe si concesse il tempo di metabolizzare la strana sensazione di sentire il suono della sua voce dal vero, come non l'aveva mai sentita e come non la conosceva.
E lasciò che i suoi occhi osservassero... se stesso?... e il suo aspetto...
“Ma sono davvero io...?”
La prima impressione non era stata sbagliata.
Quell'uomo, come Françoise la prima volta che l'aveva rivista, dava l'impressione di essere una versione appena più matura dell'ultima immagine che aveva di se stesso nella sua memoria.
La camicia di seta dal taglio elegante era parzialmente aperta, e lasciava intravedere le linee di un torace asciutto e ben definito. Forse anche più di come lo ricordasse. Notò che anche i pantaloni ormai sbottonati erano di buona fattura. A quanto pareva, gli piaceva ancora vestirsi bene.
«E cos'è stato a farla cadere?», chiese Françoise, stringendosi nelle spalle nude «Un terremoto?»
Nell'amplesso interrotto di poco prima, ormai aveva perso la sua camicetta, ed era rimasta solo la sua biancheria intima di pizzo, e di un delicato colore lilla a impedire a due occhi di vedere il suo corpo completamente nudo.
Joe, di nuovo, si ritrovò a non riuscire a staccare gli occhi da lei. E forse era solo la sua condizione immateriale a far sì che quelle scene non gli avessero provocato una reazione fisica, oltreché emotiva.
«Andiamo Françoise. Sei vissuta in Giappone abbastanza a lungo anche tu da riconoscere un terremoto.», disse... il suo alter ego... scoppiando a ridere «Sarà stato un fantasma.»
Françoise rise lievemente, forse ricordando come lei avesse detto qualcosa di simile poco prima: «Sì, come no...», disse, voltando gli occhi verso la finestra, nello slancio del suo movimento.
«Forse siamo stati noi due.», disse... l'altro se stesso... ridendo di nuovo «Anche se in realtà non abbiamo nemmeno cominciato.»
Lei strinse gli occhi, guardandolo stranita: «Joe, non ti devo ricordare io che siamo... ospiti a cena, vero?»
«Certo che no.», rispose lui, ridendo di nuovo e cominciando a muoversi verso di lei, un passo dopo l'altro «Ho annullato metà della mia agenda per essere qui, facendo infuriare qualche persona. Ma direi che me lo posso permettere. E comunque... manca ancora qualche ora e abbiamo tutto il tempo che ci serve.»
«Jet è in casa.», gli ricordò.
Lo vide scrollare le spalle: «Non mi pareva che la presenza di altri sia mai stato un problema.», le disse, scuotendo la testa.
Françoise ebbe un principio di risata: «A proposito, non aiuterai Jet nel suo... progetto?»
«Non provare a cambiare discorso.», le intimò, trascinando ogni parola in un tono lascivo a dir poco, mentre si portava di nuovo sopra di lei.
E Joe trovò inquietante, quanto allo stesso modo rassicurante il fatto che lui le avrebbe detto la stessa identica cosa.
«Però... potresti provare a dargli una mano.», riprese Françoise, posandogli una mano sul petto, per tenere la sua bocca a distanza di sicurezza «Sei il massimo responsabile della più importante scuderia del circus e sei stato plurititolato. La tua opinione avrebbe un peso.»
L'altro sospirò: «Françoise, è una settimana che non ci vediamo. Vuoi davvero parlare di questo?», le chiese, sospirando di esasperazione.
«No, ma vorrei che tu gli dessi una mano.», gli disse lei, inclinando la testa d'un lato e mordendosi le labbra in un modo che Joe trovò incredibilmente provocante e sensuale.
Era quella stessa sensualità che lei aveva sempre avuto dentro di sé.
Ma un tempo la “sua” Françoise avrebbe abbassato gli occhi di fronte a uno sguardo come quello che... l'altro lui... gli aveva puntato addosso.
“Posso capire quanto la stia desiderando...”, pensò, sospirando.
Ma adesso, col tempo, quella sensualità era maturata insieme a lei, ed era chiaro che aveva imparato a padroneggiarla e sfruttarla per ottenere qualunque cosa avesse voluto da lui.
E il suo alter ego... gli sembrava una definizione accettabile... si era bloccato, forse pensando la stessa cosa: «Posso provarci, ma... sai che per il simpatico Bernie io sono più o meno come il fumo negli occhi.», disse «Ci maltolleriamo cordialmente.»
“Bernie... Ecclestone?”
Françoise rise: «Oh, lo so.», disse «Ma so anche che sai essere tremendamente persuasivo.», concluse, trasformando la sua ilarità in un sorriso e in uno sguardo...
“Quel sorriso... e quello sguardo.”
… E in quell'istante realizzò perché prima gli sembrava che fosse mancato qualcosa nel suo sorriso, mentre solo ora notava la particolarità dello sguardo...
“Perché lei sorride in quel modo... soltanto a me... e guarda in quel modo soltanto me...”
«Io sarei persuasivo?», le chiese... l'altro... ormai sollevato sul letto con le braccia e le gambe.
Lei si limitò ad annuire, accentuando quel suo sorriso irresistibile, che si arricchì di quella sua naturale sensualità e in un pizzico di malizia, e che scomparve coperto dalle labbra di lui.
Immaginarlo nel buio era stato già duro. Ma vederlo fu quasi scioccante.
Vederla baciare un...
“No, aspetta, lui non è un altro uomo... Sono io quello, razza di idiota!”
… Eppure questo non bastava a bloccare quel qualcosa di sordo che continuava a montargli dallo stomaco...
“No, andiamo, Joe.”, urlò a se stesso, chiudendo gli occhi che non riusciva a distogliere “Non puoi essere geloso... di 'te stesso'! Questo no!”.
Ma era vero quello che stava vedendo?
O era l'allucinazione di una mente ormai in preda al delirio e alla pazzia?
Ma gli spiriti possono impazzire?
Ma poi era davvero uno spirito?
E se lui era uno spirito... cos'era quel corpo reale vivo che su muoveva in quel tempo, con la padronanza di chi lo possiede?
E di chi possedeva lei, al punto di poterla baciare liberamente, e muovere le sue mani e le sue labbra sul suo corpo, provocando e raccogliendo il suo piacere per farne forza propria e alimentare il proprio desiderio?
Se era lui, perché non era lui a poterla toccare e baciare?!
A poter fare l'amore con lei?!
«So di non essere io la persona con cui avevi immaginato di passare gli ultimi giorni della tua vita.»
“Certo Ivan, tu l'hai sempre saputo...”
Ma non era lui, in quel momento.
A baciarla, ad accarezzare la sua pelle, a raccogliere i suoi fremiti...
Era un altro lui... e voleva essere lui...
Avrebbe dato di tutto per poter essere lui...
«Joe!»
Spalancò gli occhi e di nuovo essi furono feriti dalla luce, che stavolta gli entrò come diretta nelle orbite, costringendolo a chiudere le palpebre. Cercò di riaprirle gradualmente, mentre si portava istintivamente una mano al volto, e stringeva l'altra, sentendo il tessuto sotto di essa...
“Cosa?”
Strinse di nuovo le dita della mano, e di nuovo avvertì la sensazione del tessuto sotto le sue mani. E poi la sensazione di una mano.. un tocco conosciuto che gli accarezzava il volto, e che lo induceva a spostare il capo.
«Joe, ti senti bene?»
Sentì la sua fronte aggrottarsi, vedendola sollevata sopra di lui, mentre ancora cercava di realizzare cos'era successo.
“Forse è stato tutto un sogno e mi sono svegliato...?”
«Io...»
Posò la mano su quella stessa mano che si era posata sul suo volto, e la sentì morbida, come fatta di seta anch'essa.
Come la ricordava. Sì, era lei, era la mano di Françoise. L'avrebbe riconosciuta fra un milione.
«Joe...»
E quella era la sua voce.
«Sto.. sto bene...», disse, alzandosi a sedere, e venendo colpito dalla sua immagine che vide nello specchio sopra la cassettiera.
Si spostò una mano fra i capelli, e vide l'immagine fare la stessa cosa a confermargli che era lui...
“... Nel 2008.”
«Non sembri stare bene.»
Joe si voltò di nuovo verso di lei, incontrando i suoi occhi preoccupati e non potendo fare a meno di ripercorrere con gli il suo corpo ancora coperto dalla sua biancheria, prima di tornare a riempirsi lo sguardo del suo volto, mentre aveva appena la consapevolezza di non riuscire a lasciare andare la sua mano.
«Sto bene, Françoise.», le disse, cercando di sorriderle e sparando le prime parole che gli vennero a mente, mentre ancora cercava di mettere a fuoco quella situazione.... Quello che poteva essere successo.
“Sono... diventato me stesso... nel futuro?”
Ma quello che le aveva detto non spazzò via dal suo sguardo quella preoccupazione: «Come fai a dire che stai bene? Sembrava tu avessi avuto una sincope.»
«Forse sono solo un po' stanco.», le disse, scrollando le spalle e sparando di nuovo la prima cosa che gli venne in mente, mentre si rendeva conto che non riusciva a smettere di lasciar correre i propri occhi sul suo corpo.
E stavolta sentì anche il proprio di corpo reagire a ciò che vedevano i suoi occhi e ai desideri che accendevano nella sua mente, e nelle sue membra.
“Adesso forse potrei...”
Ma sarebbe stato giusto?
Non sarebbe stato come...
“... Tradire me stesso?..”
Sentiva la sua mano libera stringere sempre di più la stoffa della coperta su sui era sdraiato, e sapeva che era per impedirle di andare a toccarla, come desiderava. Come aveva sempre desiderato dal primo momento in cui l'aveva rivista.
“Forse potrei fare almeno quello...”
Ma, a quel punto, sarebbe riuscito ad accontentarsi?
Sarebbe riuscito a fermarsi?
«Forse dovrei chiamare Ivan.», gli disse lei, risvegliandolo dai propri pensieri.
“Ivan?!”, pensò, spalancando gli occhi al solo sentire quel nome “Ah, già certo... è il nostro 'dottore' adesso.”
«No, Françoise. Sto bene.», disse, scuotendo la testa e rifiutando di immaginare che cosa avrebbe fatto Ivan se l'avesse visto adesso.
“Probabilmente mi toglierebbe da questo corpo...”
Certo, era ovvio. Ma se ne aveva preso possesso, forse voleva dire che Ivan non solo non era visibile. Ma non era nemmeno a fargli il cane da guardia...
«Ma Joe...»
«Sssst...»
Le sue labbra erano morbide e setose, come le ricordava. E l'incontro delle loro lingue gli provocò una scarica elettrica lungo tutto quel corpo che non era suo, ma che lo era allo stesso tempo. Quelle erano le sue sensazioni. Le riconosceva, dettaglio per dettaglio, brivido per brivido.
E lei era la sua Françoise. Sua e di nessun altro.
Era la sua Françoise nel modo in cui si scioglieva nel suo bacio, nel modo in cui la sua lingua danzava con la propria, nel modo in cui si lasciava accarezzare dalla propria mano, ormai liberata dalla coperta alla quale era avvinghiata, e che adesso toccava la seta della pelle di lei, sentendola poi sussultare quando essa si fermò a sfiorare il turgore di un suo seno, avvertibile attraverso la stoffa del reggiseno che ancora si opponeva al tocco delle sue dita.
Voleva toglierglielo.
Non voleva più ostacoli per i propri occhi e per le proprie dita, e mosse quest'ultime fino a raggiungere il gancio di quell'indumento dietro la schiena di lei, sciogliendolo.
Ma proprio in quel momento, improvvisamente la sentì di nuovo irrigidirsi, e spingere sulle sue spalle, nel tentativo di allontanarlo da lei, riuscendo a separare le loro lingue e le loro labbra in un modo che fu quasi dolorose, per le sue che erano ancora assetate e aride, come dopo un naufragio nel deserto.
«Joe, non so se...»
«Sto bene.», le sussurrò, scendendo a baciarle il collo, dove si riempì di nuovo le narici di quel profumo e assaporò la sua pelle.
«Però...»
«Françoise, non sono mai stato meglio.», le disse, senza mentire.
Era come se lo stordimento e lo smarrimento di prima fosse scomparso, e dentro di sé sentiva di nuovo tutta la forza e il vigore del suo corpo, ulteriormente accesi dal desiderio che aveva di lei, e che si nutriva dei suoi fremiti, come il fuoco si alimenta con nuova legna da ardere.
Sentì appena l'accenno di una sua nuova obiezione soffocarsi in un gemito, che le provocò quando la sua mano andò a muoversi sotto la stoffa dei suoi slip. La sentì umida sotto il tocco delle sue dita.
E seppe che era sua.
E non gli fece più nessuna obiezione, né resistenza quando la accompagnò a sdraiarsi, sfilandole finalmente quell'indumento che le copriva il petto, e scoprendo così i suoi seni ancora pieni e sodi, e che anelava di baciare e toccare con le proprie mani.
Ma si volle concedere il tempo di riempirsi gli occhi della sua figura, mentre si sfilava la camicia ormai completamente sbottonata. Per poi tornare a baciarla, traendo un brivido di piacere dal contatto dei suoi seni adesso nudi, contro il suo torace, mentre le sue mani le risalivano lungo fino a imprigionarli dentro di esse.
Non gli bastava, e capiva che non bastava nemmeno a lei, nonostante i suoi gemiti e nonostante la sentisse inarcarsi sotto il proprio corpo. Lottò contro se stesso, e contro la foga che sentiva montargli dentro, e cominciò a ridiscendere lentamente la linea del suo collo con la sua bocca... di nuovo quel profumo... e delle spalle, lasciando una scia umida con la lingua, con la quale assaporava ogni centimetro quadrato della sua pelle.
Fino ad arrivare a baciarle un seno, mentre ancora accarezzava l'altro con una mano, di nuovo lottando contro la sua fretta, lasciandola sul filo prima di avvolgerne la sommità con le proprie labbra, per sentirne crescere l'eccitazione sotto la punta della sua lingua.
Iniziò a dedicarsi all'altro seno allo stesso modo, mentre lasciava la sua mano adesso libera di scendere lungo il suo corpo, lasciando che per il momento si limitasse ad accarezzargli il ventre...
“... Che ha custodito i nostri figli...”
… per poi scendere lungo le sue gambe con entrambe la mani e combattere la tentazione di spostarsi subito al loro interno, tenendole occupate con i suoi slip, che prese a sfilarle dalle gambe centimetro dopo centimetro. Quando la ebbe liberata anche da quell'ultimo lembo di tessuto, tornò a cercare i suoi occhi, a osservare il mutamento delle sue reazioni, mentre lasciava una mano finalmente libera di risalire lungo la sua gamba, giocando con il suo profilo, lasciandola ancora un istante sul filo dell'attesa, fino ad addentrarsi dentro di lei. E scese a baciarle il ventre, cullandosi di nuovo dell'idea che in esso erano nati e cresciuti i frutti del loro amore, proteggendoli finché non erano stati pronti per venire al mondo.
Quello stesso mondo che, nonostante tutto, nonostante la delusione cocente che lo aveva colto solo qualche ora prima e che lo aveva portato a pensare che fosse stato tutto inutile... quello stesso mondo forse era un po' migliore di come sarebbe potuto essere... anche grazie a lui.
E forse quell'uomo a cui aveva preso in prestito il corpo, aveva finalmente realizzato di aver avuto dalla vita più di quanto si sarebbe mai aspettato perfino nelle più rosee delle sue aspettative.
Sì, gli piaceva pensare che quel suo alter ego del futuro fosse un uomo felice, realizzato, soddisfatto e grato alla vita per avergli dato i migliori amici che un essere umano avrebbe mai potuto desiderare, una donna che lo avrebbe amato per sempre, e che lui avrebbe ugualmente amato per l'eternità, se la longevità derivatagli dal suo corpo cibernetico lo avesse costretto a tanto. E due figli... non li aveva ancora visti, ma non potevano che essere meravigliosi. Ne era sicuro.
Sì, dalla vita aveva avuto più di quanto avrebbe mai osato anche soltanto sognare...
L'ennesimo gemito che le strappò lo riportò alla realtà di quel momento, di quell'istante. Passione, desiderio e amore si fondevano nei suoi gesti, e muovevano le sue mani e la sua bocca, adesso intenta a donarle e a raccogliere il suo sapore e il suo piacere dal suo luogo più intimo, e le cui chiavi sarebbero appartenute soltanto a lui, per il resto della loro esistenza, e oltre di essa.
Avvertì l'ennesimo sussulto sotto le sue labbra, e il suo corpo lo interpretò quel segnale tanto atteso. Quello con il quale gli comunicava di essere pronta ad accoglierlo. Si alzò sulle ginocchia, maledicendosi nel riscontrare che aveva ancora i pantaloni addosso, ormai gonfi per l'eccitazione che lo pervadeva e che lo attraversava attraverso ogni sua fibra.
Ma il gesto di doversi liberare di essi gli concesse di nuovo la possibilità di riempirsi gli occhi di lei, della sua bellezza, del suo corpo adesso ansimante, incredibilmente desiderabile e sensuale in un modo stranamente puro e limpido. Lo percorse da cima a fondo, cercando di cogliere ogni più piccolo particolare, e di imprimerlo nella sua memoria, fino a che incontrò i suoi occhi.
E fu lì che lo colse il dubbio che tradiva la giovane età della sua mente intrappolata in quel corpo maturo...
“Ma sarò in grado di soddisfarla?”
Discorsi tra uomini dicevano che le donne, con il tempo e l'esperienza, maturano nuove necessità e desideri. E nonostante il suo aspetto potesse ingannare lui e il tempo stesso, la Françoise che aveva davanti era una donna senz'altro più matura anche da quel punto di vista. Mentre lui non era il Joe di cui aveva rubato il corpo, e che lei si aspettava. Quello insieme al quale lei doveva aver maturato un'esperienza tale da arrivare a conoscersi fin nel più nascosto e segreto millimetro quadrato della loro pelle e dei propri segreti. Rispetto a quel Joe, lui era niente più che un impostore mascherato, e sentì di nuovo la sgradevole sensazione di stare tradendo se stesso... e anche lei.
«Che cosa c'è, Joe?»
Trasalì. Non si era praticamente accorto che si era alzata a raggiungerlo, e ebbe appena modo di rendersi conto di avere le sue braccia attorno al collo.
Il suo profumo era così avvertibile, e forse era stato proprio quello, più che la sua voce, a renderlo consapevole della sua prossimità.
“Aspetta, non voglio che pensi che mi senta di nuovo male...”
Si rese conto di ansimare anche lui, e scosse lievemente la testa: «Niente, io... ero sovrappensiero.»
“Razza di idiota!... Quale donna vorrebbe sentirsi dire che pensi ad altro, mentre fai l'amore con lei?”
«Cioè... io...»
Non aveva chiaro di cosa stava per dirle, e non l'avrebbe mai saputo. Le parole gli furono ricacciate in gola quando lei gli catturò le labbra con la sua bocca, e la sua lingua venne a invitare la propria a danzare in quel modo impossibile da rifiutare.
Avvertiva i suoi seni sfiorargli il petto, e rispose all'impulso di risentire di nuovo la morbidezza sotto le sue mani, mentre quella di lei gli scendeva lungo il torace, provocandogli solletico e brividi, fino a insinuarsi dentro i suoi pantaloni e i boxer, strappandogli un grugnito che si soffocò in quel loro bacio, che non avrebbe voluto finisse mai.
Sentì l'impulso di stendersi, e la condusse con lui in quel movimento. E come se lei gli avesse letto il pensiero di poco prima, lei disilluse quel suo desiderio separando le loro labbra, e portò quel suo bacio sul torace, seguendone le linee fino all'addome, e continuando a scendere, mentre ormai anche le sue gambe erano quasi libere di qualunque tessuto...
Avrebbe voluto dirle qualcosa...
“... E cosa...?”
… Ma il contatto e il movimento delle sue mani fu paralizzante ed elettrizzante al tempo stesso. E ancora di più lo fu il tocco sensuale della sua lingua, e poi delle sue labbra. E infine il calore della sua bocca che da cui si sentì avvolgere, costringendolo a chiudere gli occhi, mentre il suo piacere gli usciva dalle labbra.
Fu come veder spazzati via tutti i suoi pensieri, lasciandogli presente e ancora più vivido solo quel desiderio che aveva di lei. Di diventare un unico corpo con lei, e amarla, finché gli fosse stato concesso da quella bizzarra condizione, di cui non conosceva limiti e possibilità. Ma che gli aveva concesso quell'occasione unica, e forse irripetibile.
Sarebbe potuta essere l'ultima volta.
Ne era consapevole. Lo era stato fin dal principio.
E allora l'avrebbe amata come se avesse avuto la certezza che lo sarebbe stata davvero.
«Françoise...»
Si rese appena conto di sussurrare il suo nome strascicandone le sillabe e strappandole ai propri gemiti, e lei smise di tormentarlo. Di nuovo libero, si tolse quegli orpelli di tessuto che gli erano rimasti addosso. E tornò a sdraiarsi sopra di lei, riassaporando la sensazione del suo corpo nudo sotto il proprio, e della morbidezza dei suoi seni a contatto con il proprio torace. E tornò a baciarla avidamente, mentre anche i loro sessi si sfioravano, facendolo rabbrividire, e provocando a lei un sussulto, mentre le sue gambe si stringevano attorno a lui, reclamandolo.
Desiderava da impazzire completare quell'incontro, scivolarle dentro come sembrava chiedergli, avvolgendogli le gambe intorno al bacino nel più esplicito e irresistibile degli inviti.
Lo avrebbe voluto da morire. Al punto che gli sembrava di esplodere.
Lo avrebbe voluto, ma, qualcosa, dentro di lui lo intimava di aspettare... aspettare ancora...
“Aspettare... cosa?”
Sentì la mano di lei avvolgerlo di nuovo, e i suoi fianchi premergli contro ancora di più. Lo voleva, lo desiderava anche lei. Lo spinse perfino a sdraiarsi nel tentativo di prendere le redini di quel momento. Eppure, obbedendo di nuovo a quel qualcosa dentro di lui, fece sussultare il proprio corpo impedendole di accompagnarlo dentro di lei.
“... Che cosa devo aspettare? Sono al limite...”
«Joe, ti prego...»
“... Ho capito... Adesso ho capito.”, disse a quella voce che sentiva dentro di lui, mentre apriva i suoi occhi a incontrare quelli imploranti di lei...
“Voglio vederti...”
… e lasciò che lo conducesse al suo interno, osservando il suo corpo inarcarsi, nell'accoglierlo, e il suo viso contrarsi in una smorfia di piacere, che si riverberò anche attraverso la sua mano, intrecciata alla propria. Poi avvertì i suoi movimenti, e il proprio corpo prese ad assecondarli, restando ad osservarla prima di risalire a sedere per raccogliere di nuovo il suo seno, affondarvi la testa e le labbra, prima di portale di nuovo al collo, dove quel profumo tornò a inebriargli i sensi, già stravolti e acuiti dall'intensità di quel momento. E poi di nuovo fu la sua bocca, che assaporò con l'avidità con cui un assetato sopravvissuto al deserto avrebbe bevuto acqua fresca e limpida.
La fece sdraiare nuovamente, e prese la conduzione di quella loro danza, rimanendo inginocchiato di fronte a lei, e concedendosi così il modo di cogliere ogni piccola reazione del suo corpo e del suo viso ai suoi movimenti e ai suoi gesti, così come quei gemiti che le strappava, e che sentiva come musica nelle sue orecchie, frammiste al suo respiro.
Gli spasmi del suo corpo, che avvertì contro di sé gli infusero un rinnovato vigore e ardore, ma lo resero anche consapevole di essere quasi giunto al limite. E tornò a sdraiarsi sul suo corpo, guidandone i movimenti fino a condurli all'apice delle loro estasi, che deflagrarono insieme, come se fossero stati appartenenti a un unico corpo.
Mentre la sua inerzia si esauriva, si lasciò accasciare ansimante su di lei, e stringersi tra le sue braccia. Si concesse di cullarsi in quella sensazione di calma a pace per un momento incredibilmente lungo, ma sempre troppo breve, mentre i loro respiri tornavano normali, e i loro sensi si acquietavano nel contatto dei loro corpi e trovava tranquillità nel gesto della sua mano che gli passava tra i capelli.
“Ti amo, Françoise.”... «Aishiteru, Françoise...»
Paradossalmente, per quanto fosse stato lui stesso a parlare, ci mise più di qualche secondo a riconoscere la sua lingua madre e quello che aveva detto. O meglio, di aver dato suono a quello che era stato un suo pensiero.
Quando si alzò sulle sue braccia per guardare la reazione che le aveva provocato in volto, la trovò perplessa e stranita, e lo colse una strana sensazione di terrore, mista a qualcosa che individuò come imbarazzo...
«Ho.. ho detto qualcosa di... sbagliato?»
Lei rimase immobile qualche istante, scuotendo poi la testa e scacciando via quell'espressione strana, per sostituirla con quel suo sorriso, riservato soltanto a lui: «No, è che... penso... di aver appena esaurito la prima mano.», disse, ridendo lieve.
Joe sentì i lineamenti del suo volto aggrottarsi: «La prima mano?»
Françoise aspettò che la propria ilarità si fosse esaurita, o forse volle lasciarlo ancora un attimo sul filo dell'attesa: «Sono abbastanza sicura che... le volte che mi hai detto una cosa del genere... si possano contare sulle dita di una mano.»
Sentì i suoi occhi spalancarsi: «Stai scherzando?»
Françoise scosse la testa, un po' sorpresa e quasi ridendo, di nuovo: «No.»
Avvertì i lineamenti del suo viso aggrottarsi, mentre il suo corpo andava a sdraiarsi sulla propria schiena: «Non te l'ho mai detto... Scusami.»
Lei rise di nuovo, spostandosi per accoccolarsi contro di lui: «Non ti devi mica scusare.», disse, raccogliendo la mano che lui aveva lasciato abbandonata sul petto e intrecciando la propria con essa «Lo so che sei fatto così.»
«Sono fatto così?», chiese lui, sentendo tutta la stranezza di quella domanda.
La sentì ridere di nuovo: «Come hai detto prima, ho vissuto abbastanza tempo in Giappone da conoscere la cultura nella quale sei cresciuto.», disse «E da sapere che è praticamente l'opposto della mia.»
Stavolta fu lui a vere un principio di risata, amaro e ironico allo stesso tempo, mentre realizzava e capiva quello che gli aveva appena detto.
Era vero. Non era mai stato il tipo da slanci di affetto. Per quanto fosse un meticcio, la cultura nella quale era cresciuto gli aveva insegnato a controllare le proprie emozioni, e il modo fisico e verbale di esprimerle. In quella cultura aveva imparato a dividere nettamente il pubblico dal privato, e a centellinare il contatto fisico, perfino con la persona che amava.
Si sorprese a ricordare che non era la prima volta, in realtà, che affrontavano un discorso del genere. Di come fossero diametralmente opposte le loro culture, da quel punto di vista. In Francia gli innamorati si baciavano per strada, e la gente passava accanto a loro come sarebbe passata accanto a un cartello stradale.
In Giappone avrebbero avuto problemi persino a tenersi per mano.
Chissà se in quei decenni che erano passati qualcosa fosse cambiato. In ogni modo, lui era stato figlio di quella cultura. E in tal senso era sempre stato terribilmente complicato per lui lasciarsi andare e mostrare di fronte agli altri quello che provava per lei. Era sempre stata lei, rispondendo a un codice culturale completamente agli antipodi, a cercare un contatto fisico con lui, aldilà degli sguardi e dei sorrisi che non le aveva mai negato.
Nemmeno in pubblico.
Nel privato, in una stanza in cui fossero stati presenti soltanto loro due, sarebbe stato disposto a darle qualunque cosa.
Sentì di nuovo passargli quella mano fra i capelli, infondendogli provocandogli una sensazione piacevole: «Sei stato proprio tu a farmi capire che non c'era bisogno delle parole.», sorrise «Però mi fa piacere che tu me l'abbia detto.», continuò, sporgendosi verso di lui a sfiorargli le labbra con le proprie «Je t'aime aussi, Joe.»
Lui sorrise, accarezzandole i capelli a sua volta: «Comunque...»
“Aspetta, non puoi promettergli una cosa che non sai di poter mantenere. Questo è il tuo corpo... ma non lo è.”
Françoise inclinò la testa d'un lato, forse aspettando il resto di quella frase, e poi scosse il capo, sorridendo di nuovo: «Sei strano oggi... Sicuro di stare bene?»
Joe aggrottò la fronte: «Certo che sto bene... In che senso sono strano?»
Lei scrollò le spalle, sospirando: «Beh, questa cosa... e poi...», strinse le labbra in una specie di smorfia «Anche mentre facevamo l'amore...»
Joe spalancò gli occhi nel suo terrore: «Forse non...», scosse la testa «Cioè... Cosa?», chiese.
Ma nella sua testa rimbombava la sua vera domanda e la sua vera paura. Quella che non si dovrebbe mai fare a una donna, dopo aver fatto sesso con lei: “Forse non ti è piaciuto?”
La vide pensarci su, senza probabilmente nemmeno sapere quanto lo stesse tenendo sulle spine: «E' stato fantastico, ma...»
«Ma?», la incalzò lui, sollevato solo parzialmente per quella particella che prometteva un'obiezione.
“Magari non è stato come se lo aspettava.”
Lei lo fissò, come se cercasse le parole adatte sul suo volto: «Ma a volte... in certi momenti... mi è sembrato... non so come dirtelo...», disse, concedendosi qualche altro secondo, in cui Joe si impose di stare zitto «Era come fare l'amore con te, ma... almeno trent'anni fa.»
Capì di essere scoppiato a ridere solo dopo che il suono della sua stessa risata aveva già raggiunto le sue orecchie.
«E' buffo, non trovi?»
Joe scosse la testa, mentre non riusciva a frenare la sua ilarità: «Sì, lo è.», disse, affondando la testa nel suo cuscino e chiudendo gli occhi, senza trovare la forza di riaprirli.
«Perché non riposi un po'.», le sentì dire.
Sospirò: «Siamo ospiti a cena, no?»
«C'è ancora tempo.», gli disse «Puoi dormire e ti sveglio io in tempo per prepararti.»
“Sì, ho maledettamente bisogno di dormire.”, pensò, sentendo in quel momento tutta la sua stanchezza, lasciata ormai libera di essere dall'esaurimento dell'adrenalina e dell'eccitazione.
«Ma... puoi restare qui con me finché non mi addormento, Françoise?», le chiese «Tanto sono talmente cotto, che non ci metterò molto...»
Riconobbe il suono del suo sorriso, anche nel buio dei suoi occhi chiusi: «Va bene, Joe.», gli disse, passandogli di nuovo la mano fra i capelli.
Poi avvertì i suoi movimenti, di nuovo i suoi seni che gli sfioravano la pelle, e il rumore secco di interruttore che spense la luce che filtrava nelle sue palpebre serrate. Di nuovo i suoi movimenti, le sue labbra che gli sfiorarono teneramente le proprie, e poi il collo, la spalla e il petto. prima di accoccolarsi di nuovo contro di lui.
Il suo braccio si mosse di riflesso nel gesto di stringerla a lui, mentre strinse un po' di più la sua mano a quella di lei, dalla quale non si era mai sciolta. Mosse la testa sul cuscino fino a che quella di lei non fu perfettamente inserita nell'incavo del proprio collo, e le baciò i capelli, lasciando poi che il suo profumo gli riempisse di nuovo le narici. E mentre esso lo accompagnava fino al sonno come una ninna nanna, non poté fare a meno di chiedersi se si sarebbe mai risvegliato.
10
«Ehi Joe, svegliati...»
Un altro soffitto sconosciuto.
No, aspetta, non proprio.
Quello era il soffitto della... loro camera?
Sì, adesso lo riconosceva.
Era l'ultima cosa che aveva visto prima di chiudere gli occhi. Era il soffitto della loro stanza, nella loro casa, posta in un elegante sobborgo di Parigi.
Anche se non era esattamente che usare il termine “loro” fosse giusto e corretto. Non era nemmeno sicuro di essere ancora... nel corpo che aveva preso in prestito da quel suo se stesso del futuro che era il vero proprietario di tutte quelle cose. E anche dell'amore di lei, per quanto possa essere corretto sostenere di possedere l'amore di una persona.
Richiuse gli occhi e la sua mano si mosse lì dove la sua memoria gli diceva che avrebbe trovato il suo corpo, la sua pelle vellutata e il suo calore. Ma non trovò niente di tutto questo, a parte le lenzuola di un letto sfatto. E realizzò di essere effettivamente solo in esso, come si sentiva.
“D'altra parte le ho chiesto di rimanere solo fino a che mi fossi addormentato.”, i suoi occhi si rispalancarono “Ma... Sono ancora io...? Cioè, sono ancora nel corpo del me stesso del 2008?”
Sentì una mano passargli fra i capelli: «Forza, dormiglione, svegliati!»
Poi la mano gli passò sulla spalla e infine sentì lo sfioramento lieve delle sue labbra sulla fronte. E finalmente riaprì gli occhi, si voltò verso di lei, e la vide, vide i suoi occhi e il suo volto alla sua altezza. Forse era inginocchiata accanto a lui o qualcosa del genere.
«Dovevi essere proprio stanco morto, eh?», gli disse, sorridendogli, e tornando a attraversare i suoi capelli con le dita.
Lui dischiuse le labbra per risponderle, ma in realtà non aveva la minima idea di cosa dirle, e si limitò a guardarla alzarsi, per poter ammirare la sua bellezza dal basso, in tutta la sua maestosità, avvolta adesso in un paio di pantaloni che esaltavano la forma delle sue gambe e in un maglione a collo alto. E lei non sembrò avvedersi della brama che sentiva risvegliarsi dentro e che certo si esprimeva attraverso il suo sguardo. O non le importava.
«Dai Joe, alzati e sistemati.», gli disse, con il suo splendido sorriso.
Lui si alzò a sedere sul letto, annuendo e lasciando che la coperta e il lenzuolo scivolassero sul suo torace nudo: «Va bene.», le rispose, mentre cercava ancora di raccogliere le idee.
“Quindi sono ancora il me stesso del futuro, a quanto pare.”
Françoise gli sorrise, prima di avviarsi verso la porta della stanza, per poi lasciarlo di nuovo solo al suo interno.
E lui rimase a fissare la porta per un lungo istante, prima di decidersi ad alzarsi, come faceva parte della sua promessa di poco prima.
“Dovrei farmi una doccia e vestirmi”, pensò.
Sentì la moquette morbida sotto i suoi piedi, e camminò verso la parte opposta della stanza, aprendo una porta che lo portò nel bagno padronale, dove si diresse verso la cabina della doccia. Aprì l'acqua e aspettò che fosse diventata calda al punto giusto, prima di buttarsi sotto lo scroscio liquido, da cui si sentì rinfrancare.
Non avrebbe mai creduto che dovesse essere così piacevole la sensazione di farsi una doccia dopo così tanto tempo, e sentire l'acqua scivolare lungo il suo corpo.
Per un lungo momento lasciò che fosse solo l'acqua a toccarlo, con la sua forza che aveva quasi un effetto massaggiante sulla sua pelle. Quindi si lavò i capelli e il corpo, prendendosi tutto il tempo che voleva. Quasi dispiacendosi quando realizzò che non c'era più una sola traccia di sapone da togliere dalla sua pelle.
Uscì quindi dalla doccia, e prese il suo accappatoio, e i suoi occhi furono attratti da un'altra porta: “Se avessi avuto più tempo, non mi sarebbe dispiaciuto farmi un buon bagno.”, pensò, mentre mentre si rimetteva la fede di matrimonio al dito, che aveva appoggiato sul lavello...
Il suo gesto si bloccò quando non era ancora arrivato alla prima falange: “Quando me la sono tolta?”, si chiese.
Guardò quel cerchietto d'oro ora posato nel palmo della sua mano, ricostruendo il momento in cui l'aveva sfilato dal suo anulare sinistro... “Prima di entrare nella doccia”... come un automa... “Come se facessi sempre così...”.
Notò un'incisione al suo interno: “Seulement l'amour est éternel.”
“Solo l'amore è eterno.”
Sorrise, reinfilando l'anello al suo posto, non potendo fare a meno di chiedersi cosa fosse scritto su quello di lei. Forse...
“愛だけは永久に... Solo l'amore è eterno.”[6]
… la stessa cosa?
“E come faccio a saperlo?”
No, non lo sapeva, ma in qualche modo ne era certo. Gli sembrava persino di vedere i caratteri incisi nell'oro.
Si bloccò di nuovo, inquietato da quel pensiero, mentre i suoi occhi si soffermavano sul gancio vuoto lasciato dal suo accappatoio, che adesso era indosso a lui: “E come facevo a sapere che questo era il mio?”, si chiese, sentendo i suoi lineamenti comprimersi “Beh... perché l'altro è più piccolo, quindi... Ma...”
Ma non aveva nemmeno guardato, quando l'aveva preso. Ne era sicuro. Ed era anche quello più lontano dalla cabina.
“Come se sapessi esattamente dove trovarlo.”
Si voltò di nuovo verso l'altra porta, e richiamò alla mente ciò che aveva pensato guardandola. Che, se avesse avuto più tempo, non gli sarebbe dispiaciuto farsi un bagno.
Quasi temendo di avere ragione, si mosse verso di essa fino a raggiungerla, e abbassare la maniglia per vedere cosa ci fosse aldilà di
essa. E non si sorprese quando la riconobbe.
Era forse più “moderna” rispetto a come sarebbe stata “ai suoi tempi”, ma gli oggetti, il foro di scolo al centro della stanza, la vasca...
“Mi sono fatto fare una tipica stanza da bagno giapponese in casa mia.”, pensò, chiedendosi di nuovo se fosse corretto riferirsi a tutto quello come “suo”.
“E anche il bagno...”, ripensò, guardandosi alle spalle “Come facevo a sapere che era qui?”, richiuse la porta, tornando sui suoi passi “Beh, è un bagno padronale... E' un po' come una stanza d'albergo con bagno privato.”
Cercava una giustificazione, a guardandosi intorno, capì che non era quello il motivo. Non c'era niente in quella stanza che non conoscesse.
I suoi occhi si soffermarono sui due lavelli, e seppe che quello di sinistra era il suo. E non perché ci fosse qualcosa, un oggetto, un particolare che gli rivelasse che l'altro fosse di Françoise. Erano perfettamente identici, ma quello di sinistra era il suo.
Lo sapeva e basta.
Aveva bisogno di un asciugamano, e lo trovò al primo colpo, all'interno di un armadietto accanto ai due lavabo. Nel secondo cassetto di questo trovò anche il phon. Di nuovo al primo colpo, senza bisogno di cercare oltre.
“Come se fossi a casa mia.”
Ok, in fondo era così.
Ma non lo era veramente... no?
Si asciugò velocemente i capelli, e uscì dal bagno, ritrovandosi di nuovo in camera. Si guardò intorno...
“Adesso dovrei vestirmi...”
… e prese a camminare fino a una di due porte quasi contigue, dall'altra parte della stanza. Stava per abbassare la maniglia, quando un altro pensiero lo trafisse.
“E chi me lo dice che qui ci siano i miei vestiti?”
Guardò l'altra porta, e decise di sfidare se stesso, andando ad aprirla ed azionando l'interruttore all'esterno di essa, che accendeva le luci di quella stanza... “Ok, è quasi logico che questo interruttore serva a questo, no?”
Avrebbe voluto sorprendersi di trovare dei vestiti e degli accessori inequivocabilmente femminili. Inequivocabilmente appartenenti a Françoise. Ma la cosa non lo sorprese affatto.
Aveva di nuovo indovinato al primo colpo.
Tornò all'altra stanza, ed ebbe la conferma che quello era il suo guardaroba. Perfino le cose erano posizionate e ordinate come avrebbe fatto lui, se avesse avuto un armadio così grande a disposizione. Maglie da una parte, sopra le camicie. Giacche e pantaloni dall'altra. Completi accanto ad esse, Tutto rigorosamente ordinato secondo il colore. Così come le scarpe eleganti, posizionate sotto i completi, e accanto ai calzini. Mentre dall'altra parte aveva una collezione di scarpe più casual e sportive.
Passò ad una ad una alcune delle grucce a cui erano appesi i vestiti. Quasi tutti sembravano italiani, e parecchi di stilisti a lui sconosciuti o i cui nomi gli dicevano poco o niente. Anzi, la maggior parte. Ma, come aveva già avuto di notare, continuava a piacergli vestirsi bene e con gusto.
“E già, e come mi dovrei vestire?”, si chiese, rendendosi conto che non sapeva a che tipo di cena avrebbero partecipato.
Formale ed elegante, o casual e non troppo impegnativo?
Ripensò a come si era presentata vestita Françoise, quando aveva riaperto gli occhi. Elegante, ma in un modo non impegnativo. Forse non si trattava di una cena formale, da giacca e cravatta. Ma forse non si era nemmeno già vestita per andare a cena.
Tutta via cercò di immaginarsi in uno stile simile... decenni dopo. Ma ben presto ci rinunciò. A pensarci bene, non avrebbe saputo dire nemmeno come si vestiva un uomo della “sua” età, in quell'epoca in cui si trovava... ospite... o sarebbe stato più corretto dire “prigioniero”?
Si guardò intorno per realizzare che la molta possibilità di scelta non lo aiutava affatto. Alla fine scelse un paio di pantaloni di velluto beige, da abbinare a un maglione sul marrone, che avrebbe indossato sopra una camicia che riprendeva i pantaloni in una tonalità più sfumata.
“Ai miei tempi si diceva che colori come questi non vanno mai fuori moda.”
Non poteva che sperare che fosse vero.
Scelse i calzini, e rivide le scarpe. E si ricordò che doveva indossare anche quelle, per quanto fosse “in casa sua”.
“Sono in Francia. Non in Giappone”, pensò, ricordando che all'ingresso in casa non aveva trovato un genkan dove lasciarle.
E d'altra parte, perché avrebbe dovuto trovarlo in un'abitazione francese di inizio sec... '900?
Scelse un paio di mocassini marroni, che ben si abbinavano con il resto e uscì in camera, per vestirsi. Si sentì in dovere di rifare il letto, prima di lasciare la stanza e ritrovarsi nel lungo corridoio che aveva percorso prima, seguendo Françoise.
Notò che le pareti erano ricche di quadri, e altresì che su quel corridoio davano parecchie stanze. E non aveva bisogno di aprirle cosa ci fosse dietro quelle porte. Ma proprio per questo, si sorprese a non voler cercare conferme, aprendole una ad una. Allungò il passo, per andare oltre, ma non poté fare a meno di fermarsi davanti ad una in particolare, che sembrava attirarlo come una calamita.
Sospirò, rimanendo a fissarla per qualche secondo, mentre realizzava la terribile tentazione di aprire quella porta. Una tentazione a cui, lo sapeva, non avrebbe resistito. E la sua mano si mosse da sola, ad abbassare la maniglia, e una voce raggiunse le sue orecchie ancora prima che i suoi occhi avessero abbracciato la stanza.
«Yo, Joe.»
La voce lo indusse a seguirla con gli occhi, per incontrare Jet, che lo salutava con un cenno della mano, seduto a una scrivania: «Stavo leggendo la mia posta.», disse «Trovo troppo scomodo il cellulare per questo, e non avevo voglia di attaccare il mio portatile.»
Joe sospirò, pensando che niente di tutto quello che aveva appena detto gli sembrasse strano. E si chiese se fosse perché ormai si era “abituato” a quella terminologia, o perché effettivamente gli era diventata improvvisamente familiare.
Per distrarsi da quei pensieri, prese a guardarsi intorno in quella stanza che tanto lo aveva attirato verso di sé.
“Il mio studio e la mia stanza.”, pensò, guardando le librerie, piene di volumi dai titoli giapponesi, e delle sue collezioni di manga. E poi le teche, piene dei suoi trofei e dei suoi cimeli da pilota. Incluso il suo vecchio casco, che riprese in mano, notando che non vi era un filo di polvere sopra.
Sempre tenendolo in mano, scorse velocemente i vari trofei, e i nomi delle gare a cui si riferivano. Gli ultimi risalivano alla stagione del 1988. L'ultimo in particolare era per il primo posto nel “Gran Premio del Giappone – Suzuka, 30 ottobre 1988”.
Sorrise ironico: “La mia ultima vittoria è stata in Giappone...”, pensò scuotendo la testa “Quantomeno singolare.”
Poi, sul ripiano di sotto, c'erano altri trofei, sempre riguardanti corse automobilistiche, ma non riguardanti la Formula 1. Nel 1991 aveva vinto la 24 ore di Le Mans con una... Mazda?
“Chi era il mio compagno?... Lo dovevo immaginare... Jet...”, sorrise, ma si sorprese nel leggerne un altro “Bertrand Gachot.”[7]
«Nostalgia?»
Joe si voltò verso il suo vecchio amico, sentendo un grosso senso di colpa per ciò che aveva pensato prima, e promettendosi di chiedergli scusa non appena ne avesse avuto l'occasione. Anche se lui non avrebbe capito perché, e in realtà nemmeno Joe aveva ben chiaro in che modo avrebbe potuto farsi perdonare la scarsa fiducia che aveva avuto in lui, senza che l'amico lo prendesse per un idiota.
«Un po'.», rispose, guardando un'ultima volta il suo casco, con la usa livrea sfumata bianca e rossa, e rimettendolo al suo posto.
«Senti, lo so che dopo i casini successi a Indianapolis è un azzardo riportare la Formula 1 negli Stati Uniti, ma...»
«Vedrò cosa posso fare.», lo interruppe Joe, scegliendo cautamente le parole. Di nuovo non voleva fare promesse che non sapeva di poter mantenere. O che il suo alter ego avrebbe potuto mantenere.
Prese il tankobon di un manga da una libreria, e lo sfogliò. Era un'opera di Leiji Matsumoto che non conosceva: “Sf西遊記スタージンガ... Sutājingā... Starzinger?”
Guardò la data di pubblicazione e capì perché gli era ignota... 1979... e rimise l'albo al suo posto, sospirando, e lasciando che i suoi occhi venissero ora attirati dalla miriade di fotografie incorniciate che popolavano una porzione di parete, che sembrava essere stata destinata
unicamente ad esse. Già a colpo d'occhio, si notava che erano tutte legate alla sua carriera automobilistica, e riusciva perfino a riconoscere quelle più vecchie da quelle più recenti. Non per il soggetto, ma per la diversità nella resa dei colori. Dal bianco e nero, al colore sgranato e non ancora netto, fino ai colori più brillanti e precisi delle fotografie che dovevano risalire agli anni più recenti.
Si avvicinò per osservarle. Podi, foto scattate nei momenti di pausa ai box, mentre si rilassava su una sedia o all'interno della vettura, insieme ad altri piloti o personaggi. In alcune c'era anche Françoise, in altre riconobbe perfino i suoi compagni. Su ognuna c'era una etichetta che indicava dove fossero state scattate, e quando, a volte con una spiegazione o una nota.
Questo rese meno inquietante la consapevolezza che riconosceva a prima vista personaggi che non ricordava di aver mai visto o sentito nominare in vita sua. Cercava di leggere prima le etichette: Ayrton Senna, Michael Schümacher, Mika Häkkinen...
Anche se leggeva le etichette per evitare di riconoscerli a vista, era comunque in qualche modo inquietante ritrovarsi a elaborare frammenti di ricordi mai vissuti legati a quei personaggi e a quelle occasioni. Inclusa quella in cui era ritratto il podio della “24 ore”, di cui aveva visto il trofeo poc'anzi.
Forse fu per questo che cercò di concentrarsi sulle foto dove era da solo, ripreso in momenti di gara o che risalivano a tempi “noti”.
I suoi occhi si soffermarono su una fotografia. Una in particolare. Lesse la nota sul margine, riconoscendo la sua affilata calligrafia tipica di un giapponese che scrive in caratteri latini: “Gran Premio di Monaco – 15 maggio 1983”.
“Il giorno prima del mio compleanno...”
La foto lo ritraeva all'interno della vettura, fermo ai box.
Ma non era solo. Aveva un bambino in braccio a lui, dell'età di due o tre anni al massimo.
Un maschio, a giudicare dal taglio dei suoi capelli neri e dai vestiti. E sembrava quasi che gli stesse insegnando a guidare, mostrandogli come tenere le mani sul volante. Ma era l'espressione nei propri stessi occhi che lo incuriosiva. Era come di...
“... Adorazione...”
Osservò meglio il bambino, la sua espressione, i suoi lineamenti...
“Perché mi sembra di conoscerlo...?”
Cercò di usare la sua immaginazione, di cambiargli il colore dei capelli, scoprendo che era effettivamente ciò che l'aveva sviato e non gli aveva fatto capire subito...
“Assomiglia a Françoise!”, esclamò a se stesso, notando adesso anche il taglio lievemente orientale dei suoi occhi “Quello allora è... mio figlio... è...”
No, per quanto si sforzasse non gli veniva.
Non ne “ricordava” il nome, se era questo ciò che gli accadeva quando vedeva un volto “sconosciuto” e riusciva ad associargli immediatamente un nome altrettanto “sconosciuto”.
Ormai gli era abbastanza chiaro, per quanto poteva essere chiaro, che attingeva quelle informazioni, così come la conoscenza della casa, dalla memoria del suo alter ego. Che evidentemente non gli aveva dato in prestito soltanto il suo corpo.
Però non riusciva a recuperare il nome di quel bambino, nonostante lo volesse con tutte le sue forze.
“Merda!... Mi 'ricordo' nomi di persone di cui mi interessa poco o nulla e che non ho mai visto in vita mia solo guardandone il volto, e non mi 'ricordo' il nome di mio figlio!? Non mi fai ricordare il nome di mio figlio?!! E' uno scherzo?!!!”
I suoi occhi cercarono sulla parete altre foto simili, e ce n'erano, riprese anche in anni diversi. E attraverso esse lo vedeva crescere o lo vedeva ancora più piccolo: “Monza - Gran Premio d'Italia – 8 settembre 1985”... “Hockenheim - Gran Premio di Germania – 27 luglio 1987”... “Zolder - Gran Premio del Belgio – 9 maggio 1982” … “Montecarlo - Gran Premio di Monaco – 31 maggio 1981”...
Lì aveva appena pochi mesi... ma non c'era verso. Non ne rammentava il nome. E... c'era un'altra cosa. Dov'era sua figlia?
Sapeva che lui e Françoise avevano avuto un figlio e una figlia. Perché lei non era in nessuna di quelle foto?
«E' meglio evitare, signor Shimamura.»
Un altro frammento di una memoria non sua. Una voce a cui non riusciva a dare un volto, né un nome. Ma sentì la sua mano stringersi nel ricordo di un sentimento che aveva provato in quel momento.
“Rabbia...”, pensò, dando un nome a quella emozione che lo aveva attraversato insieme al flash di quel ricordo, imponendosi di di riaprire la mano.
«Devo lasciarti acceso il computer?»
Si voltò verso Jet, dimentico della sua presenza, quanto sorpreso dalla sua domanda.
«Che ti prende?», chiese l'altro, aggrottando la fronte nel vederlo «Sei pallido come un cencio.»
«Ecco... io...»... “Sì, e cosa dovrei chiedergli... 'Scusa, puoi ricordarmi come si chiamano i miei figli, che l'ho dimenticato?'”... «Niente.», concluse, scuotendo la testa.
Jet non sembrava molto convinto, e inclinò il capo d'un lato d'un lato, fissandolo fino a che le sue labbra si trasformarono in un sorriso enigmatico, e questo in una risata, che sconcertò Joe.
«Che cos'hai da ridere?»
Jet aspettò di calmarsi, senza riuscirci completamente: «Ho capito... sarai un po' stanco.», disse, con la sua risata che prendeva sempre più vigore «Forse cominci ad accusare l'età anche tu, eh.»
Joe lo guardò ridere di nuovo a tal punto da piegarsi in due sulla sedia, senza riuscire a capire il perché: «Ma di cosa stai blaterando?»
L'altro aspettò di nuovo di essersi calmato: «Andiamo, hai capito benissimo.», disse, rinvigorendo di nuovo quella sua ilarità «E adesso anch'io ho capito perché tu e Françoise siete spariti per un pezzo prima. Ci date ancora dentro come due giovani conigli, eh?»
Joe si sentì avvampare come un adolescente, adesso che aveva capito: «Jet...»
«Oh, cielo. Ma di che mi stupisco? D'altra parte ve lo potete permettere.», disse l'altro, in una specie di sospiro, che ebbe l'effetto di placarlo «Però anch'io sto invecchiando, a non averlo capito prima. Oppure quando Ivan mi ha tolto il mostro dal cervello, mi ha tolto anche un po' di perspicacia insieme ad esso.»
«Mostro...?», gli chiese Joe, sentendo le sue sopracciglia aggrottarsi.
Jet lo guardò sorpreso, e ci mise più di qualche secondo a rispondere: «Il “mostro”.», ripeté Jet «Quel coso grosso come una pallina da golf che mi hanno estirpato dalla testa l'anno scorso.
Joe sentì il punto interrogativo sulla sua faccia farsi sempre più grande e mastodontico, e di nuovo si chiese perché... l'altro Joe non gli venisse in aiuto, a toglierlo da quell'imbarazzo.
«Joe, il mio cancro!»,
Joe sussultò: “Cancro?”
«Non ricordi?», continuò Jet «Lo chiamavo in quel modo. “Il mio mostro.”»
E mai come in quel momento avrebbe voluto avere Ivan a sua disposizione per chiedergli le spiegazioni che non poteva chiedere al suo amico lì. E se gli era chiaro ciò a cui non aveva mai pensato, ovvero che il loro cervello e tutte le parti umane rimaste all'interno del loro corpo potessero “ammalarsi”, per lui “cancro” era una parola che significava più o meno “condanna a morte”.
Soprattutto, poi, se la parte colpita era il cervello.
«Allora, ti devo lasciare acceso il computer?», gli chiese di nuovo Jet «Devo andarmi a cambiare anch'io.»
Joe aveva sentito appena la domanda, e lo guardò avvertendolui stesso la stranezza del suo sguardo.
«Ci dovete aver dato dentro di brutto, perché sembri veramente rimbambito.», disse Jet sbuffando. Poi indicò... quel coso piatto che sembrava un televisore come quello che aveva visto a casa di Ivan e, ora che ci pensava, anche in camera e in cucina. E ce n'era uno anche in quella stanza. Ma quello sulla scrivania era più piccolo «Ti serve il computer o lo spengo?»
«Ah, beh, no.», disse, cercando di nascondere il proprio imbarazzo dietro un sorriso «Spegni pure...»
«E cosa vuoi che sia? Il mare magnum delle informazioni: Internet.»
«No, aspetta!»
Jet lo guardò, stranito e poi alzò le mani come se gli avesse puntato addosso una pistola: «Come vuoi.», disse alzandosi «E' tutto tuo. Adesso sarà meglio che vada a sistemarmi anch'io, però, eh?»
Joe gli fece un cenno di ringraziamento, seguendolo con lo sguardo mentre si dirigeva verso la porta per poi uscire dalla stanza, lasciandolo solo, insieme ai “suoi” trofei, ai “suoi” cimeli e ai “suoi” ricordi. Tutto il “suo” piccolo mondo personale.
Si voltò allora verso la scrivania, guardando lo schermo... “Ecco come si chiama...”... senza riuscire a soffocare una certa apprensione.
Aveva capito il concetto di Internet.
In fondo non era molto dissimile da quello alla base del sistema di raccolta di informazioni che utilizzavano nelle loro missioni.
Ma aveva appena avuto modo di vedere un personal computer sotto le mani di Ivan, nella sua casa a Mosca. E l'aveva trovato terribilmente diverso da quei sistemi operativi dall'aspetto spartano e minimalista che utilizzavano i computer che conosceva lui, e che facevano funzionare macchine grandi come armadi.
Però... però, se è vero che da Internet poteva raccogliere informazioni su tutto e su tutti, forse avrebbe potuto sapere anche qualcosa in più di su se stesso. A partire dal nome dei suoi figli.
Si voltò a guardare i suoi trofei, e pensò che se era stato davvero il campione automobilistico che essi raccontavano, ci sarà pur dovuto essere qualcosa su di lui.
Mosso da questo pensiero, mosse i suoi passi verso la scrivania, fino a sedersi sulla sedia. Notò subito gli hiragana sui vari tasti, sotto le lettere romane, e rimase per più di qualche minuto a fissare lo schermo, su cui campeggiavano due nomi, accanto a due immagini.
Uno dei nomi era “Guest”. L'altro “Joe”, e nell'immagine che vi era accanto si riconosceva il personaggio di Atom.
“Beh, presumo debba andare su 'Joe'”, pensò, mettendo la mano su quell'affare simile a quello che Ivan aveva chiamato “mouse”, con la stessa cautela che se stesse posando le dita su una bomba innescata.
Mosse l'oggetto sulla superficie, e contestualmente con un certo sollievo vide muoversi una freccia sullo schermo. La posizionò sul suo nome e premette il tasto sinistro del mouse, come aveva visto fare a Ivan.
Si aprì un riquadro bianco con un cursore lampeggiante, che evidentemente richiedeva che fosse immessa una parola.
“Una parola d'ordine?”
Si sentì scoraggiato a dir poco.
E quale mai poteva essere?
“Andrò a tentativi.”, disse, facendo per scrivere la prima parola che gli venne in mente.
“Françoise”, era la cosa più banale, ma era anche la prima cosa che gli veniva in mente.
Ma naturalmente non era quella la parola. D'altra parte sarebbe stata fin troppo facile da indovinare. Così come non provò nemmeno a immettere il suo nome: troppo facile e troppo corto. E tra l'altro il sistema lo avvertiva simpaticamente che gli erano rimasti solo due tentativi.
“E che cos'avrà mai qui dentro? Segreti di stato?!”
Prese a tamburellare le dita sulla tastiera, chiedendosi che parola d'ordine avrebbe messo, se fosse stato in lui. Qualcosa di facile da ricordare, ma che al contempo avesse senso quasi solo per lui. Qualcosa di importante...
Notò solo in quel momento la piccola scritta sotto il riquadro: “Suggerimento: pensa come un giapponese”
“E che accidenti vuol dire?”
Era ancora più in confusione di prima, e realizzava che poteva essere qualunque cosa... anche qualcosa che lui non conosceva, semplicemente perché legato a un evento che non aveva ancora vissuto. Per esempio i nomi dei suoi figli, che lui non conosceva, le loro date di nascita o la data del loro matrimonio. Poteva essere un milione di cose legate a un passato che non aveva nemmeno vissuto, e lui aveva solo due tentativi a disposizione.
Cercò di resettare il cervello, e metterlo sulla linea di pensiero del suo alter ego del futuro, ma quel suo pensiero non riusciva a staccarsi da Françoise. Era una delle poche cose che lo legava a quel suo io futuro, e anche la più concreta.
“Però...”
Guardò la tastiera, e notò che mancava la cediglia, che lui aveva sostituito con la “c”, ma che ovviamente era simile al carattere originale solo per l'aspetto. Probabilmente c'era un modo, magari una combinazione di tasti per ottenerlo. Ma lui non la conosceva...
“Pensa come un giapponese...”
Ma forse...
Guardò ancora il tasto della “c”, e l'hiragana che vi era sotto... そ... ソ...
“Pensa come un giapponese.”
Françoise... フランソワーズ... Furansowasu?
Scrisse il nome in romaji e premette invio...
“Password errata. Un solo tentativo rimasto.”
Sbuffò, scoraggiato, e tornò a guardare la tastiera.
Che cosa sarebbe successo se avesse sbagliato la terza volta?
Beh, di certo quell'aggeggio non sarebbe esploso.
Ma forse il suo se stesso del futuro non avrebbe più potuto accedervi.
No, doveva esserci una procedura per sbloccarlo...
“Pensa come un giapponese.”
Tornò a guardare il riquadro per la password, con il suo cursore lampeggiante e seppe di odiarlo. Sembrava quasi sfidarlo e prenderlo in giro, e distolse lo sguardo, riportandolo sulla tastiera, dove i caratteri latini condividevano i tasti con gli hiragana...
“Pensa come un giapponese...”
“ フランソワーズ...”
Guardò di nuovo il riquadro bianco con il suo cursore beffardo, e poi di nuovo la tastiera, e ancora il riquadro. Sembrava quasi sfidarlo...
“Beh, ormai non ho più niente da perdere...”
“ フランソワーズ... ふらんそわーず... フ... ふ … ラ... ら... ン … ん... ソ …そ... ワ... わ … ー... ー … ズ... non c'è il tasto...”, pensò, imprecando. Poi i suoi occhi lo videro “Però c'è un tasto con il dakuten... ス... す... ゛”
Ricontrollò i tasti che aveva premuto, e cercò di immaginare la parola che doveva essere venuta fuori e che nel riquadro era ora nascosta da dei pallini: 2oyc6¥r@.
Sospirò, pensando a quanto fosse assolutamente senza senso, e posò il dito sul tasto invio, guardandolo tamburellarvi sopra nella sua indecisione. Di nuovo, si sentiva come se stesse per innescare una bomba. Vide la sua fede muoversi insieme a quel dito, e chiuse gli occhi.
“O la va o la spacca.”, pensò, dando un colpo secco.
Riaprì le palpebre...
“'Welcome.'”, lesse.
E ancora non credeva ai suoi occhi, quando si ritrovò davanti a una schermata nuova, con sullo sfondo l'immagina di una Ferrari 250GTO, simile a quella che aveva visto in garage... poi passò a una Alfa Romeo 33 Stradale... una Maserati Ghibli...
Scosse la testa, smettendola di chiedersi come mai l'immagine cambiasse ogni dieci secondi, e concentrandosi sulle varie... “icone”... che vedeva sulla barra colorata in fondo. Con terrore, realizzò che non era simile come sembrava al sistema di Ivan. Non trovava l'immagine che lui aveva selezionato e “azionato” con il mouse, per “andare su Internet”.
Si fermò sulla prima: una sorta di sfera con una specie di bandiera con quattro quadrati colorati: “Fare clic per iniziare... Meglio di no.”
Passò a quella seguente, e di nuovo via lasciò la freccia sopra. Aveva capito che così veniva fuori quantomeno una parola.
“Firefox.”, lesse.
Non gli diceva niente, ma nemmeno le altre.
Microsoft Outlook, Esplora Risorse, Skype, iTunes.
“Beh, immagino che dovrò provarle tutte.”, pensò tornando a quella specie di sfera azzurra, a cui si avvinghiava una specie volpe “Dato che il mio me stesso del futuro non sembra volermi aiutare con i suoi ricordi.”
“Fece clic” sulla volpe avvinghiata al globo, e si aprì un riquadro, con sfondo bianco e la scritta colorata “Google 日本”, con sotto un altro riquadro simile a quello in cui aveva inserito la parola d'ordine. E, sotto ancora, due specie di bottoni... “si possono chiamare così?”... “Cerca con Google” e “I'm feeling lucky”...
“Ma perché l'hanno scritto in inglese?”
Sbuffò, decidendo di non voler sapere la risposta, e fece clic sul riquadro, facendo comparire di nuovo il cursore...
“E adesso come scrivo 'Shimamura Joe'?”, si chiese, guardando la tastiera e realizzando che non c'erano né i katakana per scrivere il suo nome, né ancor più logicamente i kanji per scrivere il suo cognome “Beh, farò con gli hiragana.”
C'erano dei tasti che presumeva dovessero servire per passare da un sistema all'altro, ma tra l'immaginarne l'uso ed esserne padrone, c'era una bella differenza.
Premette un tasto, e notò che ne riquadro compariva il corrispondente carattere latino.
“Lo scriverò in romaji”, pensò, dando seguito a quell'intenzione.
“Shimamura Joe”
Guardò lo schermo e notò appena il leggero cambiamento della schermata, e quella che doveva essere una lista di suggerimenti comparsa sotto il riquadro di testo, ora spostatosi in alto. Fece per premere invio, ma sbagliò e premette il tasto immediatamente sopra, “backspace”. E stava per imprecare, quando notò che la “lista dei suggerimenti” era cambiata, e ora mostrava anche il suo nome, scritto in kanji e katakana: 島村ジョー.
Mosse delicatamente il mouse, fino a selezionare quell'opzione e fece clic. Venne fuori un'altra schermata, con quella che sembrava una lista di risultati.
La prima voce era “島村ジョー- Wikipedia”...
“Wikipedia... lo stesso che mi ha mostrato Ivan...”... e vi fece clic sopra, realizzando che il suo cuore stava battendo alquanto velocemente.
La schermata fu sostituita da un'altra schermata a sfondo bianco, con una sorta di globo a puzzle sull'angolo in alto e la fotografia nella quale si riconobbe a lato.
Sembrava recente, ma chi poteva dirlo?
Sotto c'era un riassunto della sua carriera in numeri: stagioni, scuderie, titoli vinti... “Così tanti?!”... gran premi disputati e vinti, podi, punti ottenuti, pole position, giri veloci.
Cominciò a leggere il testo, e nella prima riga vide quasi soltanto dati che conosceva: cognome, nome, luogo e data di nascita... ex-pilota automobilistico e...
“Attualmente... direttore della gestione sportiva della scuderia Ferrari.”, inarcò le sopracciglia, non potendo fare a meno di lanciare un fischio per la sorpresa e un certo autocompiacimento, ricordando quanto gli aveva detto Françoise prima sul suo essere “il massimo responsabile della più importante scuderia del circus”.
Non aveva realizzato la portata di quella informazione fino a quel momento. A dire il vero, non si era nemmeno chiesto quale fosse il suo ruolo in quel mondo, aldilà di quello di marito e di padre.
La parte dedicata alla sua storia sportiva era alquanto corposa, ma quello che aveva letto con i dati gli bastava e non gli interessava altro in quel momento. Fece scorrere velocemente il testo, rendendosi conto solo ora che, per farlo, stava usando una specie di rotellina tra i due tasti del mouse.
Ma capì che probabilmente era un gesto indotto dalla forma dell'aggeggio stesso, che invitava a fare così, piuttosto che un aiuto dalla sua “memoria non vissuta”, che fino a quel momento si era ben guardata dal venirgli in aiuto, in quella sua prima esperienza con un computer moderno.
Continuò a scorrere la pagina e finalmente arrivò a un breve paragrafo intitolato “Vita privata”.
Strinse le labbra nel leggere la breve descrizione della sua tormentata gioventù: dall' infanzia passata in orfanotrofio, fino alla reclusione in riformatorio.
Poi il testo fece quello che a Joe sembrò una specie di triplo salto mortale carpiato, ma nemmeno troppo incomprensibile, dato che per niente al mondo avrebbe mai reso pubblica quella parte della sua vita su cui il testo sorvolava
“E' sposato con Françoise Arnoul, ex-ballerina ed étoile dell'Opéra Garnier di Parigi. Dal loro matrimonio sono nati due figli gemelli”... “gemelli?!”... “Ken e Miki, nati il 27 dicembre 1980...”
Smise un attimo di leggere... quei nomi non gli erano nuovi... “Ken e Miki?”...
«Compirò ventotto anni tra poco più di un mese.»
1980... 2008... ventotto anni...
“Il ragazzo che ha incontrato Great a Londra...”, ricordò, appoggiandosi allo schienale della sedia, e cercando di richiamare l'immagine del suo volto. E poi quella di un altro... “E quella ragazza a Long Island...”
«... Sono... Ero cieca dalla nascita...»
“Certo che non sarebbe stata una buona idea... portarla su un circuito di Formula 1.”, pensò, rammentando il frammento di memoria mai vissuta...
“Quella era la voce di un medico”... che gli era sovvenuto alla mente poco prima, quando si era chiesto perché non ci fosse una fotografia con sua figlia tra quelle della sua carriera
Come avrebbe reagito al rombo continuo dei motori?
«Il cuore delle donne è come il cielo autunnale.»
... aveva sentito dire a Ken...
«Anche la polvere può diventare una montagna.»
... erano parole che aveva ascoltato da Miki.
Due modi di dire così tipici della sua cultura, da non essersi nemmeno accorto di quanto fosse strano... e rivelatore... sentirli formulare da due persone in quel contesto. E probabilmente era stato lui stesso a insegnargli quei modi di dire. Nel modo in cui i genitori insegnano la maggior parte delle cose ai loro figli: senza nemmeno accorgersene.
I suoi occhi ripresero a leggere, quasi per istinto: “Ken ha intrapreso la carriera di attore, mentre Miki, nonostante la cecità che la affligge sin dalla nascita, è divenuta una affermata musicista.”
Sì, anche questo lo sapeva.
Ricordava che Miki aveva accennato a qualcosa del genere...
“... A dei concerti....”
E ora capiva anche perché quel suo sorriso gli era sembrato magnetico.
Esattamente per lo stesso motivo per cui aveva pensato che Ken avesse un bel viso...
“E' lo stesso sorriso di Françoise, e lui assomiglia a lei in maniera sorprendente... Non fosse per i capelli... I capelli...”
Scoppiò a ridere, quasi senza rendersene conto.
Quand'era giovane aveva chissà quante volte maledetto quella bizzarria che aveva fatto prevalere in lui un gene recessivo e che gli aveva donato quei capelli castani. Che lo rendevano diverso da tutti gli altri, in un modo palese, quanto crudele, dal suo punto di vista...
Un modo che gli impediva di essere accettato all'interno della società e che lo aveva messo ai margini di essa.
“E i miei figli hanno entrambi i capelli neri.”, pensò scuotendo la testa.
E ripensando a com'era Jean, e per quel poco che ricordava dei genitori di Françoise, non li avevano certo presi da lei.
Riprese a leggere, ormai incuriosito.
Il paragrafo sulla sua vita privata non diceva molto altro, a parte il fatto che ormai vivesse stabilmente in Francia, tra Parigi e Monaco, anche per via della sua attività nel mondo dello sport automobilistico.
E si chiese se tanta sinteticità fosse dovuta al fatto che era stato ben attento a non lasciar trapelare più del necessario della sua vita personale.
Ma c'era un ulteriore paragrafo che lo incuriosì... “Impegno nel sociale”: “Si sa che Insieme alla moglie è fortemente impegnato in diverse iniziative benefiche, soprattutto a favore dell'infanzia: nel campo delle adozioni a distanza, nel supporto agli orfani di guerra e non, e al sostegno e cura dei bambini nelle zone più disagiate del mondo. E' ambasciatore Unicef, e testimonial di varie associazioni, come Save the Children e Amnesty International. Inoltre, insieme al suo ex-collega e amico Jet Link è inoltre impegnato in iniziative volte all'educazione sociale di ragazzi problematici, e al loro reinserimento nella società in seguito a problemi con la giustizia”... “un modo carino per definire 'ragazzi usciti da un riformatorio.”
Toc toc.
«Avanti.», disse automaticamente, alzando gli occhi verso la porta.
La vide aprirsi, e poco dopo comparve Françoise sulla soglia: «Sei pronto?», gli chiese.
Joe guardò lo schermo con la coda dell'occhio, e poi tornò a guardare lei: «Sì, sono pronto.», le disse, sorridendo «Arrivo subito.»
Françoise inclinò la testa d'un lato, fissandolo per qualche secondo: «Tutto a posto?»
Lui alzò le sopracciglia, colto di sorpresa dalla domanda. Fu così che si accorse che gli occhi gli bruciavano, anche se non erano scese lacrime a bagnargli il volto. Cercò di sorriderle di nuovo: «Sì, è tutto a posto. Arrivo subito.»
Lei non sembrò molto convinta...
“A quanto pare sono ancora come un libro aperto per te.”
… ma annuì: «Va bene. Prendo qualcosa nel mio studio, e andiamo.», poi si fermò «A proposito, non scordarti quel DVD.»
«DVD?», chiese Joe, aggrottando la fronte.
«Sì, quello del Gran Premio del Giappone del '77. Ricordi?»
Stava per chiedergli perché, e dove fosse, ma immaginò che “avrebbe dovuto saperlo”, e quindi annuì: «Va bene.»
Lei gli sorrise, e poi uscì lasciandolo di nuovo solo. Quindi Joe spostò di nuovo i suoi occhi verso lo schermo, ma qualcosa attirò la loro attenzione, in quel percorso. Qualcosa di cui aveva notato la presenza soltanto adesso.
Si sporse sulla sedia, per osservare meglio le tre cornici, poste a un angolo della scrivania. La prima, a partire da destra, era un primo piano di Françoise. In quella al centro rivide i volti di quelli che ora sapeva essere i suoi figli, e il confronto con quanto si ricordava degli incontri ai quali aveva assistito gli suggerì che quella foto dovesse essere abbastanza recente.
Lui aveva i capelli appena un po' più corti, e un filo di barba lasciata crescere a contornargli la mascella. Adesso era evidente l'origine orientale del taglio dei suoi occhi, e si chiese come avesse fatto a non averlo notato già allora. Ma a parte quello e i capelli neri, era il perfetto ritratto della madre.
La sorella sorrideva, stringendosi al fratello. Sembrava assomigliare più a lui, ma non era facile capirlo con quegli occhiali scuri messi probabilmente nascondere i suoi occhi ciechi...
«Mi sembra un assurdo contrappasso...»
Ecco un altro frammento di una memoria non vissuta... insieme alla sensazione di una... mano minuscola che gli stringeva il dito, mentre la testa si era mossa seguendo il suono della voce della madre.
«Non è colpa tua, Françoise...»
Adesso la testolina si voltava verso di lui, sorridendogli di gioia pura e stringendo ancora di più il dito, e roteando le piccole gambe in aria, mentre la madre la teneva in braccio. E, come in quel momento, sentì il cuore sciogliersi di nuovo...
«... Non è colpa di nessuno.»
Riaprì gli occhi brucianti, che non si era reso conto di aver chiuso, tornando a quel “suo” tempo, in cui presente e futuro si incrociavano in modo bizzarro quanto imperscrutabile. E i suoi occhi riaperti e brucianti osservò l'ultima fotografia: un altro bambino, di forse cinque o sei anni, che giocava con Yemon in quello che sembrava il giardino di casa, in un giorno di sole, forse d'estate.
Un bambino di nuovo coi capelli neri come...
“Come quelli di un giapponese.”, pensò “Sarà... mio nipote?”, si chiese, assaporando quanto fosse strana quella sensazione, per lui che si era rassegnato all'idea che non sarebbe mai diventato nemmeno padre...
“E che tipo di padre sarò stato?”
… spostando gli occhi da lui ai suoi figli, e chiedendosi chi dei due fosse il genitore e chi lo zio.
“Ken non è sposato.”, ricordò “Ma questo non gli impedirebbe di avere figli. Chissà, forse i tempi sono cambiati parecchio anche da quel punto di vista... In fondo anch'io...”
Sospirò, ricordandosi del suo impegno a cena e maledicendolo.
Avrebbe voluto avere più tempo, per saperne di più di quello che era diventata la sua vita e dei suoi figli. C
hissà se avrebbe potuto riprendere il discorso? Per quanto sarebbe rimasto intrappolato in quel corpo?
Spostò la freccia sul tasto Start e dette il comando di arrestare il sistema...
Joe alzò gli occhi al cielo nel trovare improvvisamente così familiari quei comandi e quei termini, mentre lo schermo diventava azzurro, fino a spegnersi: “E perché non sei intervenuto prima?”, chiese all'altro se stesso.
Poi ripensò a quello che aveva scoperto.
Il racconto di una vita felice e soddisfacente... se non fosse stato per...
“Forse non volevi che scoprissi che mia figlia non ha mai visto il mio volto?”, chiese a quel suo alter ego, mentre si alzava “Beh, presto lo potrà vedere. Rallegrati... 'vecchio mio'.”
Stava per andarsene, ma poi si ricordò di quello che gli aveva chiesto di prendere Françoise, e si guardò intorno chiedendosi dove potesse tenerli. Sapeva che i DVD si guardavano con un apparecchio attaccato al televisore, quindi i suoi occhi si spostarono su quell'apparecchio sottile che ancora faceva fatica a definire tale.
Esso, un Panasonic di forse 20”... ma era difficile dirlo con quella forma così allungata alla quale non era abituato... era posto su un ripiano di una libreria, e accanto ad esso, in una specie di teca a più ripiani, erano sistemati due apparecchi, e suppose che uno di essi fosse il fantomatico lettore di DVD.
“Ma i DVD dove li tengo?”
I suoi occhi si spostarono sui ripiani superiori e solo allora li notò. Quando li aveva visti per la prima volta, li aveva presi per libri. Ma leggendone i titoli, notò che rimandavano proprio a dei gran premi. Si avvicinò e notò che erano in ordine cronologico...
“Tutta la mia carriera è su questi cosi?”, si chiese, passandoli con il dito a uno a uno, finché non giunse a quello che stava cercando “Gran Premio del Giappone - 10/23/1977.”
Lo estrasse e se lo rigirò tra le mani. A parte la scritta minimalista sul retro, e un paio simili su entrambi i lati, non c'era altro. Però, in realtà, su un lato c'era una piccola nota, scritta in giapponese nella sua calligrafia: “Dicono sia stata la migliore gara della mia carriera.”
E, a parte questo, nemmeno un velo di polvere.
Con quello in mano, uscì dalla stanza, ritrovandosi nel corridoio, che percorse fino alla porta successiva. Essa era aperta e gli permise di vedere Françoise di profilo, cercare dentro una borsa, davanti a quella che sembrava un'altra scrivania.
I suoi passi lo portarono all'interno della stanza.
Lei si voltò, verso di lui, prima di tornare a rovistare dentro la borsa: «Questa borsa ha il pregio di essere troppo grande, e il difetto di esserlo al tempo stesso.», disse «Metti pure il DVD lì dentro.», gli suggerì, indicando con un cenno del capo un'altra borsa.
Joe rise per la battuta iniziale, e accolse il suggerimento, mentre si guardava intorno: era una stanza simile a quella dalla quale era appena uscito, solo che era ovviamente dedicata a lei e quella che era stata la sua carriera.
«Oh, eccolo, finalmente.»
Joe si voltò verso di lei, e la vide con uno di quei cellulari in mano, che mise nell'altra borsa, più piccola e più intonata al suo abbigliamento. Sorrise, pensando che avrebbe potuto trovare quell'aggeggio in un nanosecondo, se...
Ma ovviamente non l'aveva fatto. Non aveva mai voluto farlo, se non necessario.
Lei chiuse la borsa e poi si rivolse a lui: «Andiamo?»
Joe si limitò ad annuire, e si mosse per seguirla: «Françoise?»
Non capì perché l'aveva chiamata, fino a che lei non si voltò verso di lui udendolo, mostrandogli il suo volto e la sua bocca appena dischiusa, di cui si appropriò con la propria, senza quasi rendersene conto. Dopo l'irrigidimento iniziale, dovuto alla sorpresa con cui l'aveva colta, la sentì sciogliersi tra le sue braccia e nella sua bocca, che sembrava non riuscire a placare quella sete che sentiva di lei.
«Vi muovete?! Tanto non avete il tempo nemmeno per i preliminari!»
La voce di Jet, che proveniva forse dal fondo del corridoio provocò in loro un moto di ilarità, che riuscì a separarli.
«Ma che ti prende oggi?», gli chiese Françoise, mentre la sua risata lieve si stava spegnendo e aveva ancora le braccia sul suo petto «Sembra come se... tu abbia da recuperare del tempo perduto.»
Joe rise di nuovo, sospirando: “Non puoi nemmeno immaginare quanto tu abbia ragione.”, pensò. Ma non dette mai voce a quelle parole.
«Andiamo.», si limitò a dirle, porgendole il braccio.
Quando aveva visto la “sua” auto, un'altra Maserati, che portava il nome “Quattroporte”, che gli ricordava un altro modello Maserati del suo tempo, l'appassionato automobilista che era in lui si era entusiasmato come un bambino all'idea di poterla guidare.
Ma gli era bastato sedersi al volante, perché questa sua euforia si smorzasse, scemando in delusione pura. Sembrava più il posto di guida di un'astronave, che quello di un'automobile. Al confronto, persino la sua fuoriserie che utilizzava come mezzo di combattimento sembrava poco più di un giocattolo.
A malincuore, aveva fatto quello che gli sembrava più giusto: «Jet, perché non guidi tu?»
E così ora si ritrovava a guardare il mondo dal sedile posteriore di quella meraviglia, seduto dietro il sedile del passeggero, almeno per poter vedere come funzionava... “Così al ritorno potrei guidare io.”... e gli fu facile capirlo. Ma ebbe anche chiaro che non si era sbagliato circa quanto fossero cambiate le cose. Perfino il concetto di “cambio automatico” era profondamente diverso da come lo conosceva lui. Adesso Jet usava delle leve poste ai lati del volante per cambiare marcia al potente motore dell'auto. Sembrava un concetto preso in prestito al mondo motociclistico.
«Certo che così mi sembra di essere un tassista.», disse Jet, parlando sopra il rombo del motore «Qualcuno di voi due avrebbe anche potuto mettersi davanti.»
«Tra poco devi girare.», gli disse Françoise, ignorando la sua battuta «Lo sai vero?»
«Certo, madame.», rispose l'altro «Ai suoi ordini.»
Françoise rise lieve, stringendo un po' di più la mano di Joe in mezzo a loro, di cui cercò lo sguardo complice, che lui ricambiò sorridente.
«Eccoci arrivati, signori.», disse Jet, svoltando nel piazzale interno di un grande palazzo dall'aspetto signorile, per andare poi a parcheggiare l'auto.
Jet scese, prontamente, e fece in modo di aprire la porta a Françoise prima che fosse lei a farlo: «Prego, madame.»
«Oh, grazie.», gli rispose lei, lasciando che la aiutasse a scendere prendendole una mano «Ma non ti aspettare una mancia per questo.»
Joe, già all'esterno dell'auto, li guardò con le code degli occhi, prima di alzarli a misurare il palazzo. Sentì un suono elettronico provenire dall'auto, e i suoi occhi carpirono la doppia intermittenza delle quattro frecce. Poi vide Jet e Françoise muoversi verso un portone, e non poté fare altro che seguirli all'interno, fino a un ascensore, che li portò velocemente all'ultimo piano della costruzione.
Usciti dalla cabina, Jet si diresse spedito verso l'unica porta del piano, suonando il campanello a lato. Mentre gli altri due lo raggiungevano, la porta si era già aperta, e sulla sua soglia vi era la figura di una ragazza dalla pelle d'ebano, che sorrise ai nuovi arrivati.
«Buonasera.»
«Dauphine, tu sei sempre più bella, ogni volta che ti vedo.», disse Jet, facendo ridere la ragazza.
«Lei, invece, è sempre il solito adulatore.», disse lei «Accomodatevi.»
La seguirono all'interno di un ampio ingresso, in cui lasciarono i loro soprabiti, e quindi lungo un corridoio.
«Non lo so ti immaginavo diverso...»
Joe ebbe un tuffo al cuore, nel riconoscere la voce femminile.
«In che senso diverso?»
Questa era la voce di Great... ma aveva un che di... metallico.
«Dai, vecchio mio. Perché vuoi prendere la pugnalata in pieno.», la voce di Chang, di nuovo metallica «Ti immaginava più bello.»
Seguirono le risate di varie persone.
«Tu non dovresti essere a letto, a quest'ora? Alla tua età poi...»
Di nuovo Great.
«E' vero. Da te cosa sono? Le tre di notte, le quattro... Con l'ora solare mi sbaglio sempre.»
Questo era Albert... Ma come facevano a essere tutti lì?
«Oh, lo sapete che dormo poco. E poi voglio salutare i nostri tre giovini, prima di andare a dormire.», rispose Chang, mentre Joe e gli altri erano ormai giunti sulla soglia della porta, ma nessuno di loro ebbe quasi il tempo di guardare all'interno della stanza.
«Nonna!»
Un bambino scattò come una molla dal divano dove era seduto, andando letteralmente a gettarsi tra le braccia di Françoise, che si era inginocchiata per accoglierlo: «Eccolo, il mio piccolo campione.»
Joe lo osservò, riconoscendo in lui il bambino della fotografia sulla sua scrivania. E realizzò che ora aveva la conferma che si trattasse di suo nipote.
«Sai, la mamma mi ha detto che sono bellissimo.»
«Oh, davvero?», disse Françoise, sorridendogli e arruffandogli i capelli.
«Anche tu sei bellissima, mamma.»
Joe trasalì sentendo quella voce vicina a loro. Attratto dal bambino... “E' figlio di lei...”... non si era accorto che Miki si era mossa verso di loro. Ma c'era anche Ken, dietro di lei. Ma era rimasto in disparte, forse per concedere pienamente a sua sorella quel momento tanto atteso.
“E' la prima volta che... vede il mio volto.”
«Sono felice di poterti vedere, finalmente.», continuò Miki, rivolta a Françoise, che si era alzata in piedi, ma era ancora come paralizzata.
E anche lui lo era, cdesso che poteva vederne il viso nella sua interezza. E di nuovo ritrovò in esso quel taglio orientale nei suoi occhi, che però avevano il colore di quelli della madre. Lo stesso bellissimo colore degli occhi di Françoise, in cui amava tanto specchiarsi. E che risaltavano ancora di più con la cornice nera data al volto dai suoi lunghi e lisci capelli corvini.
Ma se non fosse stato per il colore di quegli occhi e dei suoi capelli, di nuovo, sarebbe stato come guardarsi allo specchio. I suoi occhi si spostarono su Françoise, chiedendosi perché non le andasse incontro. E le bastò notare il tremore delle sue labbra per capirlo. Il bambino, ancora tra le sue gambe, sembrò capire meglio di lei le sue intenzioni e l'importanza del momento, ancora prima della nonna, staccandosi da lei, per andare a rifugiarsi dallo zio, che seguiva la scena con gli occhi che gli brillavano.
Spostò di nuovo gli occhi su Françoise, e la vide muovere le labbra come per dire qualcosa, ma non le uscì niente dalla bocca ancora tremante, mentre gli occhi, gli stessi che aveva donato alla loro figlia, facevano ormai fatica a trattenere le lacrime. Infine si arrese, e strinse quelle labbra, mentre si muoveva verso di lei, fino ad abbracciarla e farsi abbracciare da lei.
“Le donne più importanti della mia vita... sono qui... davanti a me.”, realizzò Joe, sentendo un groppo salirgli in gola.
Vide il loro abbraccio sciogliersi dopo un tempo interminabile, e sussultò quando quei due occhi così simili a quelli che aveva amato e che amava in sua madre si voltarono verso di lui.
Poi li vide spostarsi su Jet, e poi ancora su di lui...
“Forse si sta domandando chi sia suo padre tra noi due?”
Allora avrebbe voluto parlare...
… “Se sente la mia voce mi riconoscerà”...
… ma anche era come paralizzato... dall'emozione... dal terrore, da cosa? Letteralmente incapace di muovere un muscolo.
«Non ti preoccupare, va tutto bene.»
Per un attimo pensò che avesse parlato a lui, ma quando realizzò di nuovo la sua figura, la vide accarezzare il capo di un cane che si era portato accanto a lei. Un altro akita, identico a Yemon. Tanto che Joe si chiese se non fosse lui, anche se sapeva benissimo che era rimasto a casa.
E poi quella era una femmina.
Miki alzò di nuovo gli occhi verso lui e Jet: «Sarà dura far capire a Kirara che non dovrà più farmi da cane guida.», disse «Continua a seguirmi ovunque io vada, e probabilmente si chiede come faccia a camminare senza di lei.»
Poi la vide fare un passo, e poi un altro, e poi ancora un altro. E ad ogni passo gli mancava un battito al cuore, e al contempo esso aumentava il suo ritmo di almeno dieci battiti. Ognuno di quei passi che la avvicinavano a lui, per la prima volta.
Sentì le note del suo profumo, e seppe che usava lo stesso tanto amato da Françoise e da lui stesso. Quello il cui nome ancora si rifiutava di sovvenirgli alla mente tra i frammenti dei suoi ricordi. Ma adesso, in esso, non prevaleva quella sensualità che gli inebriava i sensi. Ma una dolcezza che gli avvolgeva l'anima di un calore tiepido.
Avvertì il tocco leggero delle sue dita affusolate sulla pelle del proprio volto, e capì già quando vide il suo viso, così simile al proprio, muovere i suoi lineamenti sulla scia di un'emozione.
«Otoosan.», le sentì dire, prima che affondasse il volto nel suo petto.
«Mio padre l'ho sempre chiamato nel suo modo particolare.»
La avvolse con le proprie braccia, stringendola a sé come se non volesse più lasciarla andare via: «Miki-chan, watashi no chiisana hoshi...»
“Mia piccola stella.”
La sentì accoccolarsi ancora di più contro di lui, come...
… “Come quando si addormentava tra le mie braccia... o quando si stringeva a me durante un temporale... o ancora quando mi accoglieva a casa, correndomi incontro e fregandosene se poteva sbattere in qualcosa e farsi male... solo per potermi abbracciare e affondare la testa nel mio petto...”
«Watashi wa kodomo no koro kara, anata wa watashi kono youni yobarenakatta.»
“Non la chiamavo così da quando era piccola?”
Il suono di un uomo che si soffiava prepotentemente il naso li indusse entrambi ad alzare gli occhi in quella direzione, così come gli altri presenti.
E capì come avessero fatto a essere tutti presenti lì in quel momento. I loro volti erano tutti lì sullo schermo di quello che sembrava una sorta di computer posto su un tavolo, con tastiera e schermo aperti come un libro. Loro erano in piccoli riquadri ordinatamente posti sul video. Chang, Bretagna, Albert. E anche Geronimo e Pyunma.
«Non c'è che dire Great.», disse quest'ultimo «Il tuo tempismo nell'entrare in scena è sempre... puntuale.»
«Scusatemi. Cosa ci posso fare se sono un animo sensibile?», rispose l'inglese, tirando su con il naso.
«Vorresti dire che noi non lo siamo?», chiese Albert, aggrottando la fronte.
«Ehi, ragazzi. Non mettetemi in bocca parole che non ho detto, eh!», rispose Great, agitando le mani «Portate un po' di rispetto per gli anziani.»
«Anziano sarai tu!», rispose Chang, stizzito.
«Hai i baffi di paglia, eh?»
«Oh, cielo, non cambierete mai.», disse Françoise, scuotendo la testa nella sua mano, mentre ormai si era avvicinata al computer insieme agli altri, al punto che ormai era facile vedere che la scritta su ognuna delle loro finestre riportava Skype, seguito dal loro nome.
«Ehem.»
Tutti, anche quelli presenti sullo schermo, si voltarono verso Ken, che aveva, richiamato l'attenzione in quel modo.
«Anch'io ho un annuncio da fare.», disse, quando ebbe i loro occhi addoss «Anzi...», scambiò uno sguardo con Dauphine, che si mosse andando a stringersi a lui, che le cinse le spalle con un braccio «Io e Dauphine dobbiamo farvi un annuncio.», scambiò un ultimo sguardo con la ragazza, tornando poi a guardarli «Ci sposiamo.»
«Alleluja!», esclamò Great, allargando le braccia come se stesse davvero ringraziando Dio.
«Cielo, è fantastico.», esclamò Françoise, spalancando i suoi occhi, mentre si muoveva verso Ken e Dauphine e abbracciandoli entrambi.
Joe osservò la scena con un sorriso: «Ed era ora.», sussurò, ricordando i contenuti della conversazione tre lui e Great.
«Proprio tu parli?», gli bisbigliò Jet, ironico.
«Perché dici così, zio Jet?», chiese Miki, che era ancora abbrancata al padre.
«Diciamo che... mi sono fatto desiderare anch'io.», rispose Joe, prima che lo facesse Jet, in modo senz'altro più caustico e tagliente.
Poi decise di togliersi da quell'imbarazzo, andando ad abbracciare il figlio e sentire per la prima volta anche il contatto con quella parte di sé: «Oshiawaseni, Ken»
“Davvero, sii felice.”, mentre avvertiva la mano di Françoise posarglisi sulla schiena.
«Arigatou, otoosan.», rispose l'altro, con un filo di voce «Ma se mi stringi così, non arriverò mai al giorno del mio matrimonio.»
Joe sciolse l'abbraccio e gli dette una pacca sulla spalla, e di nuovo rivisse quel gesto le centinaia di volte in cui l'aveva fatto. Per dirgli che era stato bravo, per fargli coraggio o semplicemente per supportarlo, in qualunque modo gli fosse possibile.
«Dovrò prepararmi qualcosa da dire.»
«Great, risparmiaci, ti prego.», lo supplicò Jet.
«Il mio discorso per il 25° della più bella coppia del mondo fu molto apprezzato.», replicò l'inglese «L'avete ammesso tutti.»
«Appunto.», disse Chang «Lasciaci quella bella memoria, e non rovinarla con un tentativo maldestro.»
«Sapete cosa?», disse Great «Andate al diavolo. Buonanotte a tutti, tranne a chi sparla di me con vili parole.»
La sua immagine scomparve, lasciando un riquadro nero.
«Accidenti, se l'è presa davvero.», commentò Pyunma.
«Gli passerà.», intervenne Albert.
«Sta invecchiando.», disse Chang «E con lui, anche il suo senso dello humour diventa più suscettibile. Comunque, anche per me si è fatto tardi. Buonanotte, miei cari.»
«Si, è ora di andare anche per me.», fu la volta di Albert «Güten nacht.»
«Come sta quel giaguaro, Geronimo?», chiese Pyunma, all'unico altro elemento rimasto in linea.
«Se la caverà.», rispose il nativo, con la sua solita sinteticità.
E Joe sorrise intimamente, sentendosi sollevato da quella notizia.
«Mi fa piacere.», rispose Pyunma «Vi lascio anch'io è stato un piacere.»
«Grazie ancora, Pyunma.», gli disse Miki.
«Figurati.», le rispose lui «Buonanotte.»
«Ma la prossima volta che vieni negli Stati Uniti, non dimenticarti di passare a fare un salto qui in Arizona, Miki.», le disse Geronimo.
«Mi porterai a fare un giro a cavallo alla Monument Valley?»
«A cavallo?», le chiese Françoise, senza riuscire a nascondere un po' di apprensione materna.
«Imparerò.», le disse Miki, sorridendole «E poi ci sarà Geronimo con me.»
«Non permetterò che le succeda niente.», rassicurò il nativo, accennando un sorriso «E ti porterò ovunque tu voglia: Grand Canyon, Antelope Canyon... e anche in luoghi che non troverai su alcuna mappa turistica.»
«Non vedo l'ora.», disse Miki, ridendo «Adesso lo posso dire.»
Geronimo le sorrise: «Beh, adesso, devo andare anch'io.», disse «Alla prossima.»
Anche la sua finestra sullo schermo divenne scura, e Ken si avvicinò all'apparecchio mettendo mano sul piccolo mouse a lato di esso. Quando l'immagine di Great riapparve nel suo rettangolo.
«Riappaio dinnanzi ai vostri occhi, per scusarmi del modo poco garbato con il quale mi sono congedato poc'anzi.»
«Ma non ce n'era bisogno.», gli disse Ken, cercando di soffocare un moto d'ilarità come gli altri.
«Certo, che ce n'era bisogno.», rispose l'altro «Io sono un gentiluomo. Ho i miei valori. Non ci avrei dormito stanotte.»
«Zio Great, ti sarei estremamente grato se... ti preparassi qualcosa da dire.», gli disse Ken.
L'altro contenne bene il proprio compiacimento: «Dici sul serio?»
«Certo.», rispose lui «Ne sarei onorato.»
«Allora ripagherò la tua fiducia, mio giovane amico.», rispose l'altro «E ora buonanotte signori, anche a chi mi vuole male. Io dormirò lo stesso. Loro non so.»
E il suo riquadro si spense di nuovo.
«E' sempre il solito.», disse Ken, scuotendo la testa, e chiudendo a una ad una le finestre.
«Scusami...», disse Dauphine, rivolgendosi «Ma che tipo di...discorso dovrei aspettarmi? Non fraintendermi... sai che stimo molto sir Great, ma... sa essere piuttosto caustico, quando ci si mette.»
«Oh, non ti preoccupare.», le disse Françoise «E' vero, sa essere caustico. Ma anche tremendamente... delicato.»
«Perché non le fai vedere quel video, Ken?», gli propose Miki.
Lui si voltò verso la sorella: «Quello del venticinquesimo?», le chiese, raccogliendo il cenno di assenso di lei, per poi voltarsi verso i suoi genitori «Posso farlo?»
Joe si voltò verso Françoise, non sapendo nemmeno di cosa stessero parlando, e lesse nei suoi occhi che per lei andava bene, e quindi si limitò a dare il suo assenso silenzioso, così come fece lei.
«Però io mi dileguo.», aggiunse lei.
«Non hai voglia di piangere come una fontana?», le chiese Jet.
«Anche tu sei sempre il solito.», le rispose l'altra.
«Allora vieni a vedere le vecchie foto con me e la mamma?», le chiese il figlio di Miki, tirandole i pantaloni.
«Già, ci sono volti che non conosce nemmeno lui.», aggiunse la madre «Ci saresti d'aiuto.»
«Ma certo. Vengo con piacere.», le rispose Françoise, prendendo il piccolo per mano «A proposito quei DVD che mi avevi chiesto.»
«Per cominciare andranno bene.», rispose Miki, prendendo l'altra mano del bambino, e cominciando ad avviarsi insieme a loro.
«Non avrai intenzione di vedere tutti gli spettacoli di tua madre e le corse di tuo padre?», le chiese Jet, seguendole.
«Puoi giurarci!»
«Eccolo!», disse Ken, riattirando l'attenzione di Joe e della sua ragazza «Non lo riaprivo più da quando ho lavorato al montaggio di quel video, ma sapevo di averli ancora qui da qualche parte.»
«E' quel video che facesti per il venticinquesimo anniversario dei tuoi?», gli chiese Dauphine.
«Sì... non mi pare di avertelo mai mostrato.», disse Ken «E' che... lo ritenevo... alquanto personale. Ma... ormai sei più che di famiglia. Giusto, otoosan?»
Joe gli sorrise, incuriosito anche lui quanto la ragazza: «Direi proprio di sì, Ken.»
«A voi.», disse il ragazzo, togliendosi dal davanti allo schermo.
La scena a tutto schermo riprendeva una poltrona di pelle vuota, accanto a un focolare acceso, sullo sfondo di una stanza arredata in modo sobrio, , ma raffinato ed elegante, in cui si riconoscevano un tavolo, una libreria e diversi quadri alle pareti.
Pochi secondo dopo apparve una figura sullo schermo, che camminò verso la poltrona fino a mettervisi a sedere. Joe lo aveva identificato come Great ancora prima di poter vedere la sua faccia.
L'uomo si mise a posto il bavero della camicia, e si compose sulla poltrona, prima di schiarirsi la voce. Quindi guardò dritto verso l'obiettivo della telecamera, e le sue labbra accennarono un sorriso lieve.
«Joe e Françoise, dunque sono ben venticinque anni da che siete convolati a più che giuste nozze.», annuì, accompagnando quelle ultime parole «Credo sia superfluo che vi stia a ricordare quanto siano state... particolari... le circostanze che ci hanno fatto conoscere. E non arriverò mai a dire che sia stata una fortuna vivere quelle circostanze, come credo nemmeno voi giungerete mai a dire niente del genere, nonostante sia grazie a quelle circostanze che vi siete conosciuti.», sorrise, scuotendo lievemente la testa «Ma, lo sapete, io credo fortemente in Dio. Credo che, benché “non è nelle stelle che è conservato il nostro destino, ma in noi stessi”, ogni cosa succeda per qualche motivo. E che “niente è buono o cattivo in sé, ma è il pensiero che lo rende tale”.», allargò le braccia, scrollando le spalle «Forse per tutto questo ho saputo... accettare. E ho cercato di trovare quanto più di positivo possibile in quella negatività... E a ben vedere... prima di conoscervi... ero un uomo sull'orlo di un precipizio, nel quale si sarebbe buttato più che volentieri, se ad accoglierlo ci fosse stato un oceano di buon whisky single malt.», inclinò la testa d'un lato, nel prendersi una pausa, come per dar tempo a un'invisibile platea di ridere della sua battuta «Da allora, a pensarci bene, la mia vita è... migliorata sotto molti aspetti. E non solo perché la mia carriera è ripresa come meglio non poteva. Ma anche perché... forse proprio tutto questo, tutto quello che abbiamo affrontato insieme... mi ha insegnato... valori che gli esseri umani amano sostenere di avere a parole, ma di cui non conoscono realmente il significato. Perché... gli uomini amano fingere le virtù che non hanno.», di nuovo scrollò le spalle, allargandole «E quante volte sentiamo dire dalle persone... che le differenze tra razze, culture e popoli, a anche tra le diverse generazioni dovrebbero essere strumenti di unione e arricchimento, e non armi di divisione e portatrici sterilità.... Che non sappiamo apprezzare ciò che abbiamo finché non l'abbiamo perduto.... Che tendiamo a dare troppe cose per scontate, come l'affetto e l'amicizia degli altri, e la nostra vita stessa, e non sappiamo dare ad essi il giusto valore?... E quante volte... queste... rimangono solo belle parole in fondo all'anima delle persone? Buone per dar credito alle apparenze, senza mai diventare atti pratici?... Ma per noi non è così. Non può essere così.... Da quando vi ho conosciuto, io ho trovato dei compagni incomparabili, i migliori amici che un uomo possa sognare di avere, e una vera e propria famiglia. Come in una famiglia, ci stuzzichiamo, ci prendiamo in giro, ci rimbrottiamo i nostri piccoli e normali difetti ed errori, e litighiamo quando abbiamo inevitabilmente punti di vista diversi.
«Ma, quando ce n'è bisogno, come dovrebbe essere in ogni famiglia, ci faremmo ammazzare per il bene dell'altro. Ed è qualcosa che non sarebbe mai potuto succedere in altre circostanze, date le nostre inequivocabili differenze generazionali e culturali. E forse è successo proprio perché... abbiamo qualcosa che ci rende più simili di quanto non ci rendano diversi le nostre innumerevoli differenze.... E questo è meraviglioso... Credo che, con i dovuti distinguo, derivati dalle nostre singole storie personali, questo sia qualcosa che possa dire ognuno di noi.», era ipnotico il modo in cui parlava, ma anche come gesticolava con le mani, e una di esse si alzò in un dito, che sembrò davvero indicare qualcuno davanti a lui Ma... voi due... perché è soprattutto di voi due che stiamo parlando, in questa occasione... voi due avete trovato qualcosa di più di un gruppo di amici e di una famiglia.... E, lo sapete, io... ho questa tediosa tendenza a inserire una citazione di Shakespeare per ogni tre parole che dico. E' una cosa che ormai mi viene naturale, forse perché mia madre...», rise, scrollando le spalle «Mi faceva addormentare leggendomi le sue commedie, anziché le favole e fiabe. Per cui non ho potuto che fare mio il suo frasario... Però, come quei valori di cui vi parlavo prima, queste citazioni erano parole... “vuote”, che ogni tanto mi piaceva inserire nel mio parlato per... far vedere quanto fossi bravo. Non avevo mai capito veramente quanto potessero essere applicabili alla vita reale.», annuì, accennando un sorriso, mentre le sue mani tornavano a posarsi sui braccioli della poltrona «Ma... da quando ho conosciuto tutti voi, molte di esse hanno trovato il loro significato nella mia vita. Hanno smesso di essere... citazioni fini a se stesse. E penso che Françoise possa capire meglio di chiunque altro cosa significhi quando... sentire l'arte diventare una chiave di interpretazione e di lettura della tua vita stessa. E di quella di chi ti sta intorno.», sospirò, concedendo un'altra pausa a se stesso, ma soprattutto alla sua platea «“Solo chi non conosce il dolore, può ridere di chi soffre”... “Non bisognerebbe affliggersi per ciò che è stato ed è senza rimedio.”... “Non v'è altra tenebra che l'ignoranza.”...», sorrise, ma stavolta c'era una velata amarezza in quel gesto «“Quando nel dolore si hanno compagni che lo condividono, l’animo può superare molte sofferenze.”...», scosse la testa, accentuando quel suo sorriso e tornando a guardare nell'obiettivo «Chi lo sa meglio di noi?», altra pausa, mentre il suo sorriso tornava limpido e senza amarezza «Ma... pensando a voi due... io penso... al “Romeo e Giulietta”.», e i suoi occhi si persero altrove, forse a cercare un palco «A quando Romeo, rivolto verso il balcone ove è comparsa la sua amata, le dice che...», alzò gli occhi e la mano, come se stesse recitando proprio quella scena «“Non ci sono alti limiti di pietra che possano tener lontano Amore. Perché ciò che Amore può fare, Amore osa tentarlo”.», tornò a guardare nell'obiettivo, e di nuovo sorrise in quella pausa che concesse ai suoi uditori «Perché l'amore non sa... cosa siano le differenze. Ma ne fa nutrimento per se stesso... Esso non fa distinzioni, di nessun tipo.», e scuoteva la testa, mentre lo diceva «Non gliene frega niente se… la più leggiadra, dolce e meravigliosa ragazza di questo mondo perde la testa per quello che sembra uno scapestrato ragazzo di strada, dalla storia tormentata, e dal carattere difficile, quanto sfuggente e imprevedibile.», sorrise, lasciando sentire un accenno della sua risata «C'è chi, abituato a limitarsi alla superficialità delle cose, potrebbe vedere qualcosa di strano in un'unione del genere... Ma l'amore...», scrollò le spalle «No, l'amore non funziona secondo questi termini... Va oltre la logica comune, non guarda alle convenzioni... Non si pone limiti... Li supera.», adesso annuiva, accompagnando il suo sorriso «L'amore, quello vero, non non conosce la parola “impossibile”.», il suo sorriso si accentuò, nel lasciare cadere quelle parole davanti a lui «E voi ne siete la prova inconfutabile.... Io ho visto il vostro amore nascere nella sua scintilla, crescere nel suo vigore e nelle sue battaglie, e uscire da ognuna di esse più forte di prima... L'ho visto superare le prove più... ardue ed estreme, e lottare per sopravvivere. Contro la sfiducia e l'inganno. Contro i silenzi, contro le vostre paure, i vostri sentimenti negativi, le vostre tentazioni. Il vostro passato e un futuro incerto, carico di minacce, quanto di promesse caduche.» annuì di nuovo «E l'ho visto vincere. Sempre. trovando in se stesso il coraggio di sfidare qualunque cosa. Incurante perfino della morte.», sospirò, stringendo le labbra in una sorta di sorriso «E io vi sono grato di avermi... di avermi ricordato cosa sia la speranza, e perché non dovremmo mai perderla. Di avermi mostrato che cosa sia l'amore in se stesso, e di avermi provato che esiste davvero. Che esso non è solo un'invenzione dei poeti e degli scrittori.», sorrise di nuovo, mostrando appena la dentatura curata «L'amore è fiducia incrollabile, supporto reciproco e capacità di comprendere i sentimenti dell'altro senza bisogno di spiegazioni. E' “una follia molto segreta, un'amarezza soffocante e una salutare dolcezza”... E' ciò che irrazionalmente ci spinge a mettere in pratica le azioni più assurde e irragionevoli, senza che nemmeno ce ne rendiamo conto... E' ciò che è in grado di deprimerci nel terrore, e di esaltarci nel suo entusiasmo... E a credere l'uno nell'altro, a dispetto di tutto e di tutti.», annuì brevemente «Esso è davvero, come essi dicono, il più forte e il più vigoroso dei nostri sentimenti...», il suo sguardo si fece malinconico, nel fissare qualcosa davanti a lui «Quegli stessi sentimenti che possiamo aver cercato di rinnegare, nella negatività degli eventi che hanno costellato le nostre vite. Ma non siamo stati in grado di strapparli dalla nostre anime. Che, per quanto la nostra vita possa averci messo a dura prova, essa non è riuscita ad uccidere la parte più intima e umana di noi.», sospirò, soffocando in quell'alito un inizio di tremore della sua voce «Per quanto... gli eventi della nostra vita possano essere stati crudeli e meschini... essi non hanno potuto uccidere la nostra capacità di provare dei sentimenti, siano essi di odio o rabbia, ma soprattutto di affetto e amore.», sorrise di nuovo, dischiudendo le labbra sottili in quella pausa «Per quale che sia la nostra condizione, niente può uccidere la nostra natura di esseri umani. E quegli stessi sentimenti che abbiamo tentato di soffocare, sono stati lì a ricordarcelo ogni santo giorno della nostra vita. A ricordarci chi eravamo, chi siamo... e che non abbiamo mai smesso di esserlo.», sospirò, lasciando spazio all'eco di quelle sue parole «No, non dirò mai di essere stato fortunato nelle circostanze che ci hanno portato a incontrarci. Ma, di certo posso, dire a voce alta di essere grato di avervi potuto conoscere. Voi e gli altri. E sono onorato di essere diventato un vostro amico e un vostro compagno. E vi ringrazio, Françoise e Joe, di avermi concesso di essere privilegiato testimone di questo miracolo, che è la vostra bellissima storia d'amore. Buon anniversario, amici miei.»
Great rimase seduto ancora per qualche istante, prima di alzarsi e camminare verso l'obiettivo, fino a coprirlo con la sua figura. Pochi istanti dopo il video si interruppe.
«Ho la pelle d'oca.», disse Dauphine «Anche se... non sono sicura di aver capito tutto.»
Joe fu come risvegliato dalla voce della ragazza, e voltò gli occhi verso di lei, rendendosi conto che gli bruciavano.
«Sono fatti molto personali, quelli di cui parla.», disse Ken, chiudendo la finestra dalla quale aveva parlato Great, e poi chiudendo il computer come una sorta di libro «Era per questo che non te l'avevo mostrato e...»
Joe vide gli occhi del figlio voltarsi verso di lui, a porgli una domanda silenziosa: «Come hai detto, sono questioni molto personali.», disse, cercando di sorridere a lui e alla ragazza «Ma Great ha centrato in pieno il punto. Sembra... si diverte a farsi passare per un buffone, ma... mai come nel suo caso, l'apparenza inganna.»
«Scusatemi.», disse Ken, avviandosi verso una porta della stanza con il computer in mano, forse per portarlo altrove.
Joe rimase solo insieme alla sua... futura “nuora”, e quando si voltò verso di lei, incontrò i suoi occhi, profondi e scuri come la sua pelle d'ebano. E in essi lesse milioni di domande che gli avrebbe voluto fare, suscitate non solo dal video appena visto, ma probabilmente anche dai tanti anni vissuti a fianco di suo figlio. Domande a cui non era sicuro che il suo alter ego avrebbe voluto rispondere, per il momento. Forse in futuro...
«Avete già deciso una data?», chiese allora lui, per spazzare via l'imbarazzo di quel silenzio.
Gli occhi di lei si spalancarono, sorpresi e forse sollevati: «Ehm... Ken vorrebbe sposarsi in Giappone.»
«In Giappone?», chiese Joe, alzando le sopracciglia a sua volta.
«Già, ad aprile...»
«Hanami...», sussurrò Joe, senza neanche rendersene conto.
Lei rimase con le labbra socchiuse, nel suo dubbio.
«Hanami è... significa “osservare i fiori”.», le spiegò «E oggi... si riferisce soprattutto al periodo di fioritura dei ciliegi, che è ad aprile.... o meglio tra la fine di marzo e la metà di maggio, a seconda delle zone.»
Dauphine annuì: «Ho capito.», gli disse «Me ne ha parlato spesso. Mi ha sempre detto che è uno spettacolo... meraviglioso.»
Joe annuì, sentendo una vena di nostalgia pulsargli dentro: «Sì, lo è davvero.»
«E che un giorno me l'avrebbe fatto vedere, ma non c'è mai stata l'occasione.», aggiunse lei.
Joe sorrise: «Il fiore di ciliegio, per noi, rappresenta la bellezza della vita, ma anche la sua fragilità... e la forza di rinascere e rigenerarsi... a dispetto di qualunque difficoltà.», sorrise «Effettivamente è... un buon auspicio per un matrimonio.»
Anche lei gli sorrise: «Allora capisco perché anche lei e sua moglie vi siete sposati in quel periodo, proprio in Giappone.»
Joe sentì i suoi occhi spalancarsi, ed ebbe appena il tempo di realizzare che non avrebbe dovuto soprendersi di fronte a lei, per qualcosa che avrebbe dovuto sapere. Quindi si limitò a mascherare il suo stupore con un ampio sorriso: «Sì, penso tu abbia capito bene.»
Dauphine annuì: «Adesso sarà meglio che vada a finire di preparare la cena. Mi scusi.», disse, avviandosi.
Joe la seguì con lo sguardo, fino a che non fu uscita dalla stanza. Rimasto solo in quel soggiorno, gli venne naturale guardarsi intorno, alla ricerca di nuovi punti di riferimento per quel tempo in cui si trovava a vivere come persona reale. In tale ottica, fu attirato da una folta schiera di fotografie incorniciate, posate su una cassettiera in stile Luigi XVI a un angolo della stanza. Si mosse verso di essa, e passò in rassegna a uno a uno quegli attimi di un passato che non conosceva, fissati per sempre in quelle immagini.
“Questa dev'essere la casa di Ken.”, pensò, notando che lui appariva in quasi tutte le foto.
Molte di esse si riferivano a un periodo recente, ma ve ne erano alcuno che riguardavano la sua infanzia, e inevitabilmente furono queste a catturare la sua attenzione. Immagini di lui e della sorella, colti in varie occasioni. In braccio a lui o a Françoise, ai genitori di lei, al mare, in montagna, durante vari viaggi. Una li ritraeva proprio sullo sfondo di una bellissima distesa di ciliegi in fiore, e a Joe parve di riconoscere il parco di Ueno in quelle immagini.
“Peccato che Miki non abbia mai potuto vederli.”, pensò, sentendo l'amarezza nel cuore.
Sorrise intenerito quando riconobbe se stesso in una foto, ritratto addormentato su un telo posato in qualche giardino, mentre Miki dormiva stretta al suo collo e anche Ken era addormentato con la testa sul suo addome, mentre lui gli teneva un braccio sopra.
Ed ebbe un tuffo al cuore, quando in un'altra fotografia riconobbe Gilmore, neanche molto più vecchio di quanto lo ricordasse: era seduto su una poltrona e aveva Miki sulle proprie ginocchia, mentre Ken era ai suoi piedi, sembrava rapito nell'ascoltarlo raccontare loro chissà quale favola o storia incredibile, come un qualunque nonno con i suoi nipotini.
Ed era sicuro che... lui li avesse considerati come tali, così come aveva considerato ognuno di loro alla stregua di un figlio. E non era certo solo stato il senso di colpa nei loro confronti a spingerlo in tal senso. Ben presto era sopraggiunto un affetto puro e incontaminato. E forse per la prima volta in vita sua realizzava che il dottor Gilmore non aveva mai avuto dei figli, come lui non aveva mai avuto un padre.
In un certo senso, anche loro si erano trovati e ognuno nell'altro avevano trovato il riempimento reciproco di uno spazio vuoto nella loro esistenza.
Distolse gli occhi, che gli bruciavano anche più di prima, ritrovandosi a guardare una copia della foto che aveva già visto sul muro del suo ufficio. Quella in cui teneva in braccio Ken, all'interno dell'abitacolo della sua monoposto. E gli venne naturale, prenderla in mano, forse per concentrarsi solo su di essa, e lasciare in secondo piano quei troppi frammenti di passato che, tutti insieme, lo stavano portando vicino al punto di crollo.
«Credo che sia stato allora che ho... elaborato il sogno di diventare un pilota automobilistico, come te.»
Joe si voltò, incontrando lo sguardo di Ken, appena poco dietro di lui. Perso in quelle immagini, non l'aveva proprio sentito arrivare. Sentì montargli dentro lo stupido orgoglio di non volersi far vedere da suo figlio sul punto di piangere, e posò la fotografia, cercando rifugio nell'oscurità esterna, lì a pochi passi. Oltre la porta che dava sulla terrazza a cielo aperto, che si affacciava su quel tappeto illuminato che era Parigi.
«Da un lato... mi avrebbe fatto piacere.», disse, notando la presenza di Jet, Françoise e Miki sull'altro lato, appoggiate al parapetto. Sorrise a entrambe le “sue” ragazze, quando si voltarono verso di lui e si mosse per raggiungerle «Ma da un lato è molto meglio così.»
«Di cosa state parlando?», chiese Françoise, rivolgendosi sia a Joe che a Ken, che lo seguiva da dietro, mentre lui le raggiungeva.
«Dei miei sogni infranti di pilota automobilistico.», rispose Ken.
«Oh, ci puoi giurare che sia stato molto meglio così.», disse Françoise, incrociando il suo braccio con quello di Joe, che si era fermato accanto a lei, e con il quale scambiò un sorriso e uno sguardo complici, prima di tornare a guardare la città ai loro piedi.
«Già, non sarei mai potuto diventare come te, otoosan.», continuò Ken, sorridendogli, mentre a Joe era chiaro e palese che quella frase si riferisse a ben altro che a una mera questione di talento.
Joe si voltò istintivamente verso Françoise, incontrando il suo sguardo complice e capendo già solo da quello che anche lei aveva colto quanto quella frase andasse ben oltre un mero discorso riguardante il puro talento. E non poté fare a meno di chiedersi da quanto i loro figli sapessero quanto fossero “particolari” i loro genitori.
Gliel'avevano detto quando erano ancora piccoli?
Avevano aspettato che fossero grandi e in grado di capire?
Capire che cosa?
Ma poi... aveva veramente importanza?
Erano stati dei cattivi genitori, per il fatto di essere dei cyborg?
Avevano dato loro meno amore, per il fatto di essere dei cyborg?
E loro si erano sentiti meno amati degli altri bambini, o si erano sentiti diversi e avevano sofferto per il fatto che i loro genitori fossero dei cyborg?
«Non ho mai fatto differenza tra “noi” e “voi”. Sinceramente, non mi sono mai nemmeno posta il problema.»
“No.”
La risposta a tutte quelle domande era “no”.
Non c'era bisogno dei ricordi e della memoria che non padroneggiava, e gli sovveniva in flash, nella sua mente ancora in bilico tra il se stesso del futuro e quello del passato.
“... O sono la stessa cosa...”
Bastava vedere Ken e Miki, conoscere i loro valori, per capire che lui e Françoise erano stati due più che ottimi genitori. E che li avevano amati come e più che se fossero stati dei comuni esseri umani.
Come aveva detto Great, gli eventi della loro vita, in tutta la loro negatività, non erano riusciti a soffocare la loro natura umana e con essa la loro nostra capacità di provare dei sentimenti. L'essere umano che c'era in loro non era mai morto, e la loro condizione meccanica l'aveva forse esaltato, dando valore a troppe cose che si tendono a dare per scontate.
La vita, di cui ogni attimo è un miracolo.
L'amicizia, rara e preziosa nella sua autenticità.
L'amore, che aveva donato alla donna che amava, e ai figli che gli aveva dato, ne era sicuro, fino al limite più estremo. E ancora oltre di esso.
«Scusatemi, non volevo metterti in difficoltà prima.», riprese Ken, volgendo direttamente lo sguardo verso di loro, e attirandosi l'attenzione di tutti e tre «Great non è stato esplicito, volutamente. Ma quel video pone inevitabilmente delle domande.»
«Non ti preoccupare.», rispose Joe, istintivamente, trovando anche lo sguardo di Françoise a suo supporto. Ma c'era una domanda che sentiva di dovergli fare.
«Ma, dimmi, spero non sia per questo che hai aspettato così tanto a... chiederle di sposarti?», lo anticipò Françoise, togliendogli le parole di bocca.
Ken scosse la testa: «No, mamma. Certo che no.»
«Insomma... hai solo voluto seguire le orme di tuo padre in un altro modo.», disse Jet «Lasci la tua donna sul filo, mentre ti lasci ben rincorrere dalle altre donzelle.»
Joe si limitò a lanciargli un'occhiataccia, a cui l'altro rispose con uno sguardo ironico e divertito, prima che Françoise glielo togliesse dal volto con un'altra occhiataccia.
«Sì, sì... lo so, Françoise.»
Ken rise: «Ma no... è che... convivevamo già... insomma, era come se fossimo già sposati e pensavo andasse bene così.», disse, scrollando le spalle «Non avevo capito quanto fosse... importante per lei.»
«Razza di idiota, tutte le donne sognano il giorno del loro matrimonio.», gli disse Miki.
Ken si limitò a stringere le labbra, in una sorta di sorriso: «Sì, è vero... però... mamma... otoosan... io vorrei dirle che...»
«Non se ne parla...»... «Non ci pensare neanche...»
Joe si voltò verso Françoise, mentre entrambi bloccavano le loro parole che si erano sovrapposte nell'esprimere il medesimo pensiero.
«I tuoi hanno ragione. Non è il caso, ragazzo.», disse Jet.
Ken sospirò: «Ma Dauphine vi conosce bene ormai.», disse «Sa che siete due persone meravigliose. Non farebbe nessuna differenza, per lei...»
«Se non fa differenza, non glielo dire a maggiore ragione.», ribadì Jet.
«Ma...»
«Ken, io non metto in dubbio che lei possa capire.», disse Françoise, usando il giapponese. E Joe indovinò che fosse per mascherare il contenuto delle sue parole a eventuali orecchie indiscrete «So che... è una ragazza intelligente e meravigliosa. Ma c'è comunque la possibilità che... non capisca.»
«Se lei non capisse, allora vorrà dire che mi sono sbagliato su di lei, e non ne varrebbe...»
«Ken, tu ami Dauphine più di ogni altra cosa al mondo.», disse Miki.
«Sì, ma...»
«Prima lo sentivo da come ne parlavi.», continuò Miki, ignorando la sua obiezione «E adesso lo vedo da come la guardi... Prima era lo stesso tono di voce che nostro padre usa con la mamma. E' ora vedo che hai anche lo stesso sguardo.»
A Joe venne istintivo guardare Françoise a quelle parole, come altrettanto istintivo fu il gesto di distogliere immediatamente quello sguardo, incrociando quello compiaciuto di lei. Come se fosse stato un'adolescente imbarazzato dai suoi stessi sentimenti. Ma si sentì sciogliere, quando avvertì il braccio di lei stringersi un po' di più al proprio.
Ken non sembrò avvedersi di lui e di quello che gli passava per la mente: «Ma se lei non capisse...»
«Se lei non capisse, e tu la perdessi per questo, i nostri genitori non se lo perdonerebbero mai.», gli disse Miki «E' questo che vuoi?»
Gli occhi di Joe tornarono in cerca di quelli di Françoise, e fu sicuro che lei stava pensando la stessa identica cosa:: «Né io né tua madre vorremmo mai essere causa della vostra infelicità.», disse per entrambi.
«Quando siete nati... abbiamo promesso a noi stessi che... per quanto vi avremmo messo a conoscenza della nostra condizione, non avremmo mai permesso che essa influisse negativamente sulle vostre vite.», continuò per lui Françoise «Voi lo sapete che essa non ha sminuito in niente l'amore che abbiamo per voi. Non ci ha reso... degli esseri umani peggiori. Non ha cambiato la nostra natura. E se Dauphine non capisse questo... non sarebbe una persona peggiore di quello che la riteniamo adesso. Sarebbe solo... comprensibile.»
Ken aprì le labbra nell'intenzione di un'obiezione. Che non arrivò mai. Esse si richiusero, mentre lui annuiva lentamente, e le sue mani stringevano la ringhiera, risultando pallide perfino nell'oscurità della notte
«In fondo non si tratta di mentirle, Ken.», gli disse Jet «Come hai detto tu, lei sa che i tuoi genitori sono persone meravigliose. E questa è la verità che conta. Il resto sono dettagli.»
Ken gli sorrise, e finalmente Joe vide le sue mani allentarsi sul metallo del parapetto, e gli venne naturale dargli una pacca sulla spalla.
«Eccola, mamma!»
Joe si voltò verso quella voce, e solo allora notò la presenza del suo piccolo nipote, nascosto tra le gambe della madre.
«Hai ragione, Isaac. E' bellissima.»
“Isaac?!”, pensò Joe, spostando istintivamente lo sguardo nella stessa direzione in cui sembravano guardare tutti gli altri.
E la Tour Eiffel lo colpì, con il suo spettacolo di luci notturno appena iniziato, e godibile in tutto il suo scintillante fascino da quella distanza.
“Non c'è niente da fare. Non riesco a non pensare alla Torre di Tokyo, quando la vedo.”
«Sono davvero così simili?», chiese Miki, rendendo palese a Joe che aveva pensato a voce alta.
«Quella è solo una copia.», disse Françoise.
«Però è più alta.», si sentì dire Joe, senza nemmeno capire perché si sentisse in qualche modo in dovere di ribattere.
«Ah, ah, Joe. Françoise ha ragione. Non insistere, su.»
I suoi occhi si spalancarono, mentre la sua testa li faceva girare verso le sue spalle: «Ivan?!»
«Papa!»
Ancora prima che gli occhi di Joe elaborassero la figura di quella che era stata sua guida vide quella del piccolo Isaac finirgli tra le braccia, e Ivan tirarlo su, stringendoselo al petto.
“Papa... “Papà”... in russo.”
«Skolʹko ya skuchal po tebe!», stava dicendo Ivan, all'orecchio del piccolo.
“Quanto mi sei mancato!”, tradusse mentalmente Joe.
«Mumiya skazal, chto ya krasivaya.», disse il bambino, staccando il volto dal viso di Ivan, ma rimanendo abbrancato a lui con le braccia al suo collo.
“Mamma ha detto che sono bellissimo.”
«Davvero?!», rispose Ivan, tornando al francese e rivolgendosi avanti a lui «E papà com'è?»
«Anche lui non è male.», rispose Miki, fingendo disinteresse. Poi gli sorrise...
“Come Françoise sorride a me...”
… e si mosse verso di lui, fino ad abbracciarlo, e lasciarsi abbracciare da lui.
“Non ci credo...”, pensò Joe, appoggiandosi ora più che mai alla ringhiera rimastagli dietro la schiena.
«Scusate il ritardo.», disse Ivan, continuando a tenere Miki a sé con un braccio «Mi sono dovuto trattenere a Mosca più del previsto e l'aereo ha fatto un po' di ritardo.», aggiunse, andando a cercare lo sguardo di Joe, in un modo più che significativo.
«Sei perdonato, moccioso.», gli disse Jet «Però adesso direi che possiamo andare ad accomodarci. Io ho una fame da lupi.»
«Effettivamente Dauphine mi ha detto di riferirvi che potete accomodarvi.»
«E allora andiamo.», disse Ken, avviandosi e poi fermandosi immediatamente «Tu non vieni, otoosan?»
Joe cercò di sorridergli, ma era ancora troppo stordito e paralizzato da quello che aveva visto, e da tutto ciò che comportava, anche solo per pensare di staccarsi da quell'appoggio sicuro che era la ringhiera nelle sue mani: «Arrivo subito.», disse «Devo parlare un attimo con Ivan.»
«Stai bene?», gli chiese Françoise, guardandolo preoccupata.
Joe annuì, cercando di sorridere anche a lei: «Sì, non preoccuparti.», le disse «Arriviamo subito.»
Ivan gli sorrise, quando i loro occhi si incrociarono, e poi pose suo figlio a terra, lasciandolo nelle mani della madre: «Su, vai a lavarti le mani che io parlo un po' con il nonno.»
«Lo sai che mi insegnerà a giocare a catch-ball?», gli disse il bambino, con tutto l'entusiasmo della sua età.
«Davvero?!», gli chiese Ivan.
«Sì, me lo ha promesso ieri.»
«E' fantastico.», disse Ivan, scambiando uno sguardo complice con Miki «Ma adesso vai, su.»
Ivan restò a fissare quelli che ormai era chiaro che fossero sua moglie e suo figlio, mentre tornavano verso l'interno dell'abitazione. E solo quando furono completamente soli, si voltò verso Joe, mostrandogli di nuovo quel suo sorriso ieratico e irritante, che a Joe non era affatto mancato.
E Joe fu certo che era lo stesso Ivan che lo aveva accompagnato per quasi tutto quel viaggio. E forse per quell'ultima parte, in cui si era limitato a rimanere nascosto nell'ombra, come aveva fatto spesso. Per spuntare fuori all'improvviso, e stavolta in carne e ossa. O qualunque cosa fosse ciò di cui era composto quel suo corpo.
«Carne e ossa.»
Joe spalancò gli occhi e corrugò la fronte: «Co... Cosa?»
Ivan sorrise, avvicinandosi a lui: «Sono fatto di carne e ossa.», gli disse «Esattamente come lo era Gandal[8].»
«Gandal?!»
Ivan annuì, e il suo sguardo si fece malinconico: «Quando ti ho parlato di questo mio corpo, non ti ho detto proprio tutto.», disse «Esso è stato... generato con la stessa tecnologia e scienza che portò alla nascita di Gandal.», spiegò «Da parte del dottor Gilmore... e del dottor Gamo Whiskey.»
Joe sentì i suoi occhi spalancarsi ulteriormente: «Gamo?»
Ivan annuì di nuovo, e l'altro fu sicuro di vedere i suoi occhi diventare lucidi nel flebile riverbero luminoso che si frapponeva all'oscurità totale della sera: «Sì, Joe... L'ultimo e unico dono di un padre al proprio figlio. Perché potesse avere ciò che egli stesso gli aveva negato... un corpo e una vita normali.»
Joe lo squadrò dall'alto in basso, fino a poter di nuovo a reincontrare i suoi occhi, come se lo vedesse adesso per la prima volta: «Quindi tu...»
Ivan accennò un sorriso, ma il suo sguardo rimaneva in qualche modo triste: «In pratica... sono un essere umano... nel senso biologico del termine.», disse «Esattamente come lo era Gandal. Mi sono... innamorato di tua figlia... e all'inizio non ti piaceva l'idea. Esattamente come non ti piace adesso.»
Joe abbassò lo sguardo, quasi imbarazzato nel sentirsi scoperto in quel suo pensiero: «Io non...»
«Non ti crucciare, Joe.», disse «E' solo istinto. Sono padre anch'io, e anch'io vorrei solo il meglio e il bene per mio figlio. Ed era normale che tu avessi dubbi sul fatto che... la tua figlia adorata e tanto voluta amasse... un essere umano ricostruito, che è ancora poco più di un soggetto sperimentale.», strinse le labbra «Sai, questo mio corpo potrebbe smettere di funzionare da un momento all'altro, senza preavviso. E anche per questo, anch'io avevo i miei dubbi, ma...», sospirò, guardando la città «Mi sono innamorato di lei, e Miki si è innamorata di me... E sai che... quando tentiamo di soffocare i nostri
sentimenti... non facciamo altro che renderli più forti.»
Joe si girò su se stesso, tornando a guardare la distesa luminosa di Parigi, lì a disposizione dei suoi occhi. Si concesse il tempo di riempirli di quella scena, per poi tornare a fissarli sulla città distesa davanti ai suoi occhi come un tappeto. I suoi occhi tornarono sulla Tour Eiffel, e seguirono la Senna fino agli Champs Élysées , con l'Arco di Trionfo, la Madeleine e l'Opéra, con le sue sculture dorate e la cupola bronzea...
«Perché vuoi insegnargli a giocare a catch-ball?»
Joe sospirò, stringendo le labbra mentre alzava una mano con tre dita, quasi tenesse davvero in mano una palla da lanciare: «Non c'è molto da insegnare: uno lancia la palla, e l'altro cerca di prenderla con il guantone.», disse «E'... l'ABC del baseball... e il baseball è lo sport più popolare in Giappone. Dalle mie parti... ci si diverte così da bambini.»
Ivan annuì, avvicinandosi a lui, e osservando la città stesa di fronte ai suoi occhi, ma rimanendo in silenzio.
«Io vorrei solo che sia felice, Ivan.», disse Joe, sentendo la sua voce tremare «Che Ken e lei siano felici. E... mi pare che tu... contribuisca alla sua felicità. E questo è... sufficiente per me.»
Ivan sorrise: «Voi avete fatto molto più di me, e molto prima di me.», gli disse «Le avete insegnato... la felicità e la gioia di vivere. Che, per quanto la nostra vita possa... essere difficile, e piena di ostacoli... nessuno di essi è insuperabile e tale... da rendere la vita indegna di essere vissuta.», sorrise «Sai come l'hai chiamata.»
Joe annuì: «“Luce” e “speranza”.», disse «E per Ken... ho pensato al kanji di “rispetto”.»
«Non è perché te lo ricordi, vero?»
L'altro scosse la testa: «Sai, da quando... incontrammo quell'emigrante... io non ci credevo davvero, ma... ogni tanto ci scherzavamo su.», rise «Un modo come un altro per... esorcizzare l'impossibilità dell'evento. Il gioco dei nomi fu... naturale. Come fu naturale cercare dei nomi... che fossero adatti a tutte e due... le nostre culture.», scrollò le spalle «Ma anche significativi per noi.»
Ivan si limitò a stringere le labbra, annuendo.
Joe si sorprese a tirare rumorosamente aria su da dal naso, reprimendo un moto di commozione che gli saliva alla gola: «E... non hai niente da dirmi?», gli chiese, quando sentì di essere abbastanza calmo da riuscire a dire quella frase per intero, senza soffocare le parole in un moto di pianto.
L'altro si voltò verso di lui: «Che cosa dovrei dirti?»
Joe sospirò, scuotendo la testa: «Non so... magari perché... sei sparito?», gli chiese ironico.
«Non sono sparito.», rispose Ivan «Sei tu che mi hai lasciato indietro.»
Joe sentì contorcersi i propri lineamenti nella propria perplessità: «Come sarebbe a dire... che ti ho lasciato indietro?»
Ivan si voltò verso di lui: «Mi hai usato come una specie... di catalizzatore.», rispose «E io sono rimasto indietro. Sei venuto da solo.»
Joe era sempre più confuso: «Vuoi dire che... non eri nascosto da qualche parte, pronto a sbucare fuori all'improvviso.»
Ivan scosse la testa: «No.», disse secco, come un colpo di pistola «Sennò non ti avrei mai permesso di...», prese idealmente tutta la sua figura con una mano «Non ti avrei permesso di fare questo. Mi pare che avessimo fatto un patto.», sospirò «E mi sembra chiaro che l'hai contravvenuto.»
Joe si guardò le mani come se si rendesse conto solo in quel momento di essersi impossessato del corpo di... “un altro”: «Io non so neanche come ho fatto!», si giustificò.
«Nello stesso modo in cui sei arrivato qua, Joe.», gli disse Ivan, lasciando cadere quelle parole fra di loro mentre tornava a guardare la città «Lo hai voluto. Volevi così tanto essere... al posto di te stesso... in quel momento, che... è successo. Spero almeno che sia stato bello.»
Joe sentì contrarsi il suo volto nella rabbia, e forse Ivan lo avvertì, perché si voltò di nuovo verso di lui, con qualcosa che assomigliava al dispiacere, dipinto sul volto.
«Scusami. Era una battuta indelicata.»
L'altro espirò, cercando di espellere un po' di collera, insieme a quel soffio d'aria: «E... la porta... la cornice?»... “Tanto ci scommetto che sa tutto...”
Ivan scrollò le spalle: «Più o meno è lo stesso principio.», gli disse «I sentimenti e le emozioni... hanno una potenza inimmaginabile, Joe. Quando... hai sorpreso Jet nella tua cucina, e hai pensato che... ti avesse rubato la ragazza, è stato così tanto il tuo sconcerto, la tua rabbia e la tua gelosia che... si sono concentrati nel tuo pugno, e lo hai mosso. E ugualmente, la gelosia e... l'amore ti hanno permesso di prendere possesso... di quel corpo.»
Joe guardò di nuovo le sue mani incredulo: «E... E adesso?»
Ivan lo squadrò di nuovo: «E adesso cosa? Vuoi restartene in quel corpo per il resto della tua esistenza?»
L'altro sospirò, riflettendoci un attimo: «Beh, in fondo è il mio. Che ci sarebbe di male?»
Ivan strinse le labbra, e per una rara volta, sembrò incerto su ciò che doveva dire: «Non ti sei accorto che... il ricordi del tuo... “io del futuro” ti tornano sempre meno alla mente?»
Joe si limitò a guardarlo, incerto, ma sapendo che diceva la verità.
«Potresti anche provare a rimanere in quel corpo, ma... lentamente tutti i... “suoi” ricordi scompariranno.», gli disse «Il giorno in cui hai chiesto a Françoise di sposarti, il giorno del tuo matrimonio, il giorno in cui... ti ha detto di aspettare un figlio... e il giorno in cui avete scoperto che si sentivano due battiti all'interno del suo ventre... l'emozione nel sentire quei battiti... e avvertire i loro calci... il giorno in cui sono nati... la prima volta che hanno detto papà, quando hanno imparato a camminare... il giorno in hai condotto tua figlia all'altare e... il giorno... in cui è nato tuo nipote... Tutti questi ricordi scompariranno, perché non li avrai mai vissuti, Joe.», scosse la testa, tornando a guardare le luci di Parigi «Finiresti per diventare un uomo nella cui memoria c'è un buco grosso e insuperabile come un abisso. Un guscio mezzo vuoto.», tornò a voltarsi verso di lui «E' questo che vuoi?»
Joe sentì il bisogno di aggrapparsi alla ringhiera, mentre si sentiva ansimante e sconvolto: «No, ovviamente no...», ripensò a Françoise, ai loro baci, alle loro carezze e alla loro passione; ripensò ai suoi figli e al calore dei loro abbracci «Ma non voglio nemmeno tornare ad essere uno spirito impalpabile. In fondo... questa è... la mia vita.»
«L'hai detto.»
Joe si voltò verso di lui con uno scatto della testa: «Co... Cosa?»
Ivan rimase qualche secondo in silenzio, per poi stringere le labbra in una sorta di sorriso: «Ogni errore ti ha insegnato una lezione, e ti ha reso l'uomo migliore e felice a cui appartiene quel corpo.», gli disse «Ma anche i bei ricordi fanno parte di questo percorso, come quelli brutti. E se è qui che vuoi arrivare...», scrollò le spalle «Non ti resta che viverli, errori, brutt... e bei ricordi.», accennò un sorriso, e non era il suo solito sorriso irritante, né quello più adatto a un bambino. Era solo il sorriso di un amico «Io te l'ho detto dalla prima volta che me l'hai chiesto: non dipende da me, e dalla mia volontà.»
«Io non “posso” risponderti, Joe. Non c'entra niente la mia volontà! Non dipende da me!»
«Perché... dipende da me... e dalla mia volontà.»
Sentì la sua voce poco più consistente di un filo, mentre Ivan cominciava lentamente ad annuire, e i suoi occhi diventavano lucidi.
«Non potevo essere io a dirtelo.», gli disse «Dovevi capirlo da solo... se la tua vita merita di essere vissuta.»
E poi fu un attimo in cui avvertì solo una sensazione di distacco, netta, e non dolorosa. E gli venne naturale voltarsi alle sue spalle e non riuscire a sorprendersi nel vedere il suo “io futuro”, adesso seduto a terra, con la schiena appoggiata alla balaustra, e la testa tra le mani.
«Sta... Stai bene, Joe. Non ti preoccupare.», si sentì dire da Ivan.
Joe si voltò verso di lui, e, solo per essere sicuro, mise la mano sulla balaustra, e di nuovo avvertì quella sensazione di toccare il nulla. Ma non gli sembrò così sgradevole, pensando che, forse, sarebbe stata l'ultima volta.
«Joe, è ora di andare.», gli disse Ivan.
L'altro annuì, ma non poté fare a meno di voltarsi indietro verso... se stesso. Ancora nella stessa posizione di prima, forse dolorante o semplicemente intorpidito, o chissà cosa. E si sentì in colpa, e non solo per il fatto di vederlo prostrato probabilmente a causa sua.
«Ricorderà... quello che ho vissuto al suo posto?», chiese, senza riuscire a staccare gli occhi da se stesso.
«Sei sempre tu, Joe.», gli rispose, riattirando il suo sguardo «I tuoi ricordi, sono i suoi ricordi. Ma molti dei suoi ricordi non sono ancora i tuoi.»
Joe annuì, volgendo un'ultima volta lo sguardo verso l'abitazione, e si rammaricò di non vedere nessuno. Avrebbe voluto rivedere almeno i suoi figli, un'ultima volta. E Françoise, e imprimersi nella sua testa le loro immagini. Ma almeno la donna che amava... forse l'avrebbe reincontrata presto... “nel suo tempo”. E anche loro... li avrebbe incontrati un giorno. Se tutto ciò non era stato un sogno...
Si sorprese a ridere: «Sai una cosa, Ivan?», gli chiese, mentre sentiva il suo corpo sempre più leggero e impalpabile.
Ivan si limitò a scrollare le spalle.
Joe sospirò, scuotendo la testa: «Già, certo che lo sai... E' un peccato che debba aspettare così tanto tempo prima di poter guidare la mia auto.»
L'altro si limitò a sorridere, di nuovo in quel modo amichevole. E Joe alzò una mano, avendo una conferma della sensazione che già lo stava pervadendo: stava diventando trasparente.
Alzò quella mano in segno di saluto e volse quello che sapeva essere l'ultimo sguardo verso Ivan.
«Do svidaniya, Joe.», gli rispose lui con un gesto della mano.
E quella fu l'ultima immagine che vide dal futuro.
Epilogo
Aprì gli occhi.
E si sentì stupido nel sentirsi sollevato nel ritrovare il soffitto conosciuto e familiare della sua camera. Quella stanza, con il suo soffitto, i suoi oggetti e i suoi mobili, significavano che era a casa, che era andato tutto bene e che era sopravvissuto.
“A meno che...”
Strinse la mano, trovando il tessuto altrettanto familiare delle lenzuola del suo letto, sotto le proprie dita. E avvertendone solo in quel momento il contatto sotto la propria schiena nuda e i suoi piedi.
“Sì, sono vivo.”, pensò chiudendo gli occhi nella tranquillità di quel pensiero, e respirando a pieni polmoni, come se non lo facesse da una vita... ed era quasi così.
“Però...”
Mosse il braccio, tastando il lenzuolo a tentoni, e trovando solo e soltanto la sua stoffa. Era seta, ma non era quella che si aspettava di trovare o che avrebbe voluto trovare sotto le sue dita.
Era solo. E quel letto gli sembrava enorme, quando lei non c'era.
«Françoise?», la chiamò, ancora prima che il suo volto si fosse girato a cercare e trovare conferma di ciò che aveva intuito con la sua mano.
Sì, era solo. E quel gesto di girare il capo gli aveva procurato una fitta di dolore acuto alla testa. Una cosa con cui aveva lottato per tutta la sera.
Ancora non se n'era andata, e chissà quando l'avrebbe lasciato in pace.
Forse voleva dire che non era ancora finita...
“Almeno vuol dire che non sono morto... per ora.”
Nonostante il dolore, e l'intorpidimento che ancora sentiva pervadergli tutto il corpo, dandogli la remota e perduta sensazione di essere debole come un bambino, cercò di alzarsi a sedere sul letto, come se quel movimento potesse davvero aiutarlo a trovarla. Ma gli provocò solo un'altra fitta di dolore lacerante che gli penetrò nel cervello come un punteruolo rovente.
Tuttavia non rinunciò al suo intento originario.
«Françoise...»
«Joe.»
Il suono della sua voce ebbe l'effetto di instillare un rivolo di energia in quel suo corpo mezzo addormentato, e si voltò nella sua direzione, riconoscendo la sua figura ferma sulla soglia della porta. L'ampio indumento che indossava nascondeva le fattezze sinuose del suo corpo.
Ma non aveva certo bisogno degli occhi, per sapere che cosa nascondeva quel tessuto.
Lei restò immobile, a fissarlo per qualche istante, prima di muovere i suoi passi verso di lui: «Ero andata a prendere dell'acqua, e ho pensato di portarti anche un cachet.», gli disse, mentre si muoveva verso di lui, per riprendere il suo posto nell'altra metà del letto.
Effettivamente aveva un bicchiere colmo di liquido trasparente in mano, e lo vide ancora prima che lei accendesse il suo abat jour, per poi rimanere seduta a guardarlo.
Non c'era bisogno di aver passato una vita insieme a lei per capire che i suoi occhi erano preoccupati. E odiava farla preoccupare.
«Come facevi a sapere che...?»
Lei accennò un sorriso significativo, che bastò come risposta a quella domanda idiota. Lo sapeva esattamente per lo stesso motivo per cui lui sapeva della sua preoccupazione, sin da prima che tornassero a casa.
«Tieni.», gli disse, porgendogli una pillola e il bicchiere d'acqua.
Joe si alzò non senza fatica a sedere, e li raccolse con entrambe le mani, e guardò per più di qualche secondo la pasticca, prima di ingoiarla e mandarla giù con un generoso sorso d'acqua. Si chiese se sarebbe servita a qualcosa, dato che sapeva bene che non poteva trattarsi di un comune mal di testa.
«Avanti, Françoise.», le disse, cercando di sorriderle, mentre le sfiorava una guancia con la punta di un dito «Non mi guardare in quel modo. E' solo una banale emicrania.»
«Sei sicuro?», gli chiese, per nulla convinta dalle sue parole.
E non sarebbe stato convinto nemmeno lui, dato che lo specchio dall'altra parte della stanza gli mostrava fin troppo bene che aspetto pietoso avesse. Pallido come un cencio, e con quella mano a tenersi la testa come se pesasse quanto tutto il mondo.
No, non c'era bisogno di aver passato una vita insieme a lui per capire che stava male. Lo avrebbe capito anche...
Si sorprese a realizzare che era la prima volta, da tanto, tantissimo tempo, che avrebbe riutilizzato quel modo di dire. Prima aveva smesso di dirlo, e col tempo aveva smesso anche di pensarlo.
In realtà non aveva mai creduto che qualcuno si sarebbe offeso nel sentirglielo usare. Tantomeno lei. Ma la realtà era che dava fastidio a lui. Così come un tempo gli dava fastidio che gli si facesse notare il colore insolito dei suoi capelli.
«Sì, Françoise. E' solo un mal di testa.», disse, lasciandosi di nuovo cadere a sdraiarsi sulla schiena, e richiudendo gli occhi per un attimo, soltanto un attimo, prima di riaprirli a riempirli della sua figura.
Lei gli aggiustò una ciocca dei suoi capelli ribelli sulla fronte e cercò di sorridergli, ma probabilmente in modo ancora meno convincente di quanto fosse riuscito a lui poc'anzi: «Non chiedere di non preoccuparmi... soprattutto dopo quello che è successo a Jet...»
Le sorrise, e raccolse nella propria quella mano che si stava allontanando dal suo volto: «Andiamo, Françoise.», le disse «Ivan mi ha esaminato da cima a fondo neanche due settimane fa. Sono più sano di un pesce. I miei organi umani hanno un'età biologica che non è nemmeno la metà dei mie anni reali.», sorrise di nuovo, e stavolta gli sembrò di essere più sincero. Forse perché era spontaneo «Non voglio vedere il tuo bel viso corrucciato... Oggi è un bel giorno per noi, e ce ne aspettano tanti altri, e altri, e altri ancora.»
«Ieri.», lo corresse, accennando un sorriso finalmente reale «Sono le due passate.»
Anche lui accentuò quel suo sorriso sul volto, e anche il mal di testa stava lentamente, ma gradatamente scemando. Ma non credeva che fosse stato il cachet a sortire già quell'effetto. Piuttosto era lei, con la sua semplice presenza. Lei, che era sempre stata la sua miglior medicina.
«A maggior ragione, perché non ti sdrai qui accanto a me e non ritorni a dormire?», le chiese un po' ironico, e un po' serio «Prima che mi passi il mal di testa e mi venga in mente l'idea di riprendermi finalmente quella camicia.»
Françoise rise, leggera e libera come la sua anima: «Davvero la rivorresti indietro dopo così tanto tempo?»
«Mi era sempre piaciuta quella camicia.», disse lui «E non ricordo di avertela regalata. Te la sei... semplicemente presa.»
«No, tu la lasciasti in camera mia.», gli disse, mentre si muoveva per andare a spegnere la luce.
«Ma tu non me l'hai mai resa indietro.», le ribatté, intanto che il buio si reimpossessava nella stanza.
La sentì reinfilarsi sotto il lenzuolo, per poi andare ad accoccolarsi contro di lui, adagiando la testa nell'incavo del suo collo e appoggiandola sulla sua spalla, dopo avergli appena sfiorato le labbra con le sue.
Il suo braccio andò a cingerle una spalla e realizzò una volta in più che, dopo tutto quel tempo, non aveva perso il piacere di sentire il calore del suo corpo addosso, e accarezzarle i capelli mentre si addormentava tra le sue braccia. O finché si addormentava lui stesso, accompagnato dal sentore di quel suo profumo che giungeva alle sue narici.
«Non mi rispondi?», le chiese.
«E cosa dovrei risponderti?», gli ribatté, con la voce strascicata di chi vorrebbe solo cadere tra le braccia di Morfeo.
«Perché non me l'hai mai resa indietro?»
«Perché tu non me l'hai mai chiesta.»
«Non è vero.»
La sentì irrigidirsi lievemente: «Come non è vero? Tu non me l'hai mai chiesta indietro.»
Lui rise: «Non è quello il motivo per cui te la sei tenuta.»
«Dormi!»
«Non finché non l'avrai detto.»
«Detto che cosa?»
Soffocò la sua ilarità: «Il motivo per cui te la sei tenuta.», le rispose «Quello vero.», precisò, accendendo la luce del suo abat-jour.
La vide alzare la testa e puntare gli occhi verso di lui, e quell'espressione di sfida che le stava inviando. Lei lo fissò per un attimo, finendo per inviargli un sorriso enigmatico, e stranamente ironico.
«Che cosa c'è?», le chiese.
Françoise accentuò quel suo sorriso: «Ti piace essere adulato, eh?», gli chiese. Poi non gli dette nemmeno il tempo di socchiudere le labbra per una risposta «Dormire con questa camicia, che ti è appartenuta, è un po' come dormire... avvolta tra le tue braccia.», gli dette appena il tempo di accennare il suo compiacimento con le sopracciglia «E' questo che volevi sentirti dire?»
Il suo volto disinteressato, per un attimo, lo mise in uno strano stato di agitazione. Sapeva che poteva essere una buona finzione. Una ballerina non di limita a danzare, ma interpreta una parte, come una qualunque attrice.
E a lei riusciva magnificamente. Aveva capito da tempo da chi Ken avesse ereditato quel suo talento naturale che l'aveva reso un attore di successo internazionale.
«E' la verità, no?», le chiese.
Voleva essere una domanda retorica, ma sentì la sua voce terribilmente incerta, come non avrebbe voluto, e cercò il volto di lei in cerca di una sua reazione, che per più di qualche istante si fece attendere.
Poi arrivò, improvvisa e fragorosa, come quella risata in cui esplose: «Oh, cielo. Dovresti vederti.», gli disse, nascondendo il suo volto tra le mani.
Joe sospirò, sentendosi tremendamente stupido, e distolse lo sguardo per darsi il modo di cambiare quell'espressione da idiota che doveva avere in quel momento sul volto.
Ma avvertì il movimento di lei, ed ebbe appena il tempo di voltarsi, e vederlo con i propri occhi, che la sua bocca aveva già catturato la propria. E le punte delle loro lingue si erano appena incontrate, quando lei allontanò il suo viso, lasciandolo sollevato ad appena qualche centimetro da quello di lui, facendo in modo che gli giungesse più corposo alle narici l'aroma di quel suo profumo.
«Ma certo che è vero, sciocco.», gli disse, scostandogli di nuovo una ciocca dalla fronte, prima si sfiorarla con le sue labbra«Lo sai che è vero.»
Joe le sorrise, mentre risollevava il capo a cercare di nuovo l'incontro tra le loro labbra. Ma lei si allontanò, impedendolo e lasciandolo con un'espressione di pura delusione a chiederle perché.
«Come io so che non hai mai amato nessun'altra come me.», gli disse, sorridendo in un modo che assomigliava più a una risata soffocata.
Lui corrugò la fronte: «Di che cosa stai parlando?»
Stavolta Françoise non provò nemmeno a cercare di trattenere la sua ilarità: «Della battuta di Jet.»
«Quale battuta?», chiese lui, cercando di mettere insieme i frammenti di quei ricordi che ancora non erano completamente suoi. Ivan gliel'aveva detto che, prima che potesse padroneggiarli, ci sarebbe voluto un po' di tempo. Almeno fino a quando...
«Però non è vero che a me non importava... delle “altre”.», gli disse, accendendo qualche lampadina in lui «Sappilo.»
“Sì, ora credo di ricordare...”
«Ma... in fondo so che mi sei sempre stato fedele.», puntando il gomito, sul suo petto, provocandogli anche un certo dolore. Poi guardandolo con una smorfia «Perché lo sei sempre stato, vero?»
«Françoise...», sentì che la sua voce era poco più di un filo, e non se ne sorprese. Lei sapeva benissimo come inficiare anche un fisico forte come il suo. E questo proprio perché lei non aveva potuto contare su cotanta forza fisica, e aveva dovuto imparare a sopperire ad essa con la tecnica.
E su di lui non erano solo le tecniche da combattimento quelle che poteva utilizzare. La sua posizione, in modo che lui potesse appena intravedere una piccola porzione di decolléte che lasciava a malapena indovinare la linea che le divideva i seni, evidentemente nudi sotto la stoffa di quella camicia che un tempo indossava sulla propria pelle; per non parlare del movimento tutt'altro che involontario della sua gamba, contro la quale di certo lei sentiva cosa gli stesse provocando.
«Françoise, lo sai che non ti ho mai tradito.», le disse, quando finalmente fu sicuro di aver trovato voce a sufficienza.
Lei rimase impassibile, come se non credesse a quelle parole. E il dolore cominciava a essere insopportabile, acuito dall'eccitazione che gli stava montando dentro.
«Te lo posso giurare sui nostri...»
Le sue due dita sulle labbra lo zittirono, mentre lei scuoteva il volto sul quale si era formato il suo meraviglioso sorriso: «Non c'è bisogno di giurare.», gli disse «Lo so. Lo so benissimo.»
Il suo petto poteva ora espandersi, liberato dalla pressione del suo gomito, e raccolse grossi sorsi d'aria, come un uomo errante nel deserto avrebbe fatto con acqua limpida e fresca, mentre si aspettava da lei qualcosa che non arrivò mai.
Piuttosto si scostò da lui, portandosi nella sua metà del letto e sdraiandosi senza nemmeno più accoccolarsi a lui, com'era prima. Lasciando intatto e insoddisfatto quel desiderio che gli aveva scientemente provocato.
«Françoise...», la chiamò con la sua voce che ancora non era tornata lei, voltandosi per trovarla sdraiata su un fianco a dargli le spalle.
E immobile, in quel suo muto modo di prenderlo in giro nel peggiore dei modi: con la sua indifferenza, dopo la seduzione.
Non provò nemmeno a richiamarla, conscio che sarebbe stato inutile. Piuttosto si mosse, fino a poterle scostare i capelli dall'orecchio e andarle a stuzzicare con le labbra e la lingua quella zona appena dietro il lobo, che sapeva essere uno dei suoi piccoli punti deboli. Non un vero e proprio tasto d'accensione dei suoi sensi, ma un punto sensibile.
«Smettila, Joe.», gli disse, ridendo di quel lieve solletico che le provocava.
E forse avrebbe provato a discostarsi da lui, ma lui aveva ben pensato di bloccarla con il proprio braccio, abbastanza sicuro che presto non avrebbe più provato a resistergli.
«Joe...»
Ecco, la sua voce gli diceva che era già su quella strada che avrebbero percorso insieme fino a perdersi l'uno nell'altra. E quel braccio con cui la bloccava si mosse per portare la propria mano a seguire il profilo della sua gamba nuda, provocandole un fremito leggero ma avvertibile alle sue mani esperte, che la conoscevano meglio di chiunque altro.
«Joe... non ti è bastato oggi pomeriggio?»
Non avrebbe dovuto ricordarglielo.
Come prima era stato il dolore a mescolarsi ad essa e amplificare la sua eccitazione, ora fu la collera rivestita di gelosia, spontanea e esondante. La stessa gelosia con cui aveva dovuto lottare per tutta la sera, insieme al suo mal di testa, dicendosi che, no, davvero, non era proprio il caso di essere geloso di se stesso. E ovviamente non ce l'aveva nemmeno con lei, che, senza nemmeno capire quanto fosse arrivata vicina alla verità, aveva immediatamente avvertito la differenza, anche se non l'avrebbe mai saputo di aver davvero fatto l'amore con il se stesso di qualche decennio prima.
E in realtà, forse, non doveva avercela nemmeno con se stesso. Era davvero sicuro che, a “parti invertite”, lui non avrebbe fatto lo stesso?
Sì, era decisamente sciocco essere gelosi di se stesso.
Ma era più forte di lui, l'intollerabilità di quel pensiero che qualcun altro l'avesse posseduta. E poco importava se quel qualcuno altro non era nient'altro che se stesso. Non era stato lui.
E non era molto sicuro di voler lottare contro quella belva che gli si era scatenata dentro.
Anzi, non lo voleva affatto.
Piuttosto, voleva cavalcarla.
«Joe, aspetta... che ti prende?!»
Si sollevò sulle braccia... trovandola sotto di lui...
“Quando si è sdraiata sotto di me?», vide la propria mano stretta attorno al suo braccio e temette di capire “Forse l'ho forzata io?”
«Scusami.», le disse, lasciandoglielo e usando quella stessa mano per andarle ad accarezzare il volto, come se fossero i petali delicati di un fiore «Scusami davvero.»
Lei esitò qualche istante, prima di raccogliere quella mano nella propria, bloccandola sul proprio volto: «Me che ti succede?», gli chiese «Ti comporti come se... fossero gli ultimi momenti che stiamo passando insieme.»
“Non hai nemmeno idea di quanto tu ci sia andata tremendamente vicina...”
Ma se lo tenne per sé, e si limitò a sorriderle: «Non hai forse detto tu che... ogni momento potrebbe essere l'ultimo.», le disse «E forse dovremmo vivere come se lo fosse davvero.»
La preoccupazione ritornò a impossessarsi del volto di lei: «Così mi metti paura, Joe...»
Stavolta fu lui a posarle due dita sulle labbra: «Sono solo i discorsi di un... povero vecchio.», rise «Con il corpo di un trentenne in più che eccellente salute.»
Lei rise insieme a lui, che restò a fissarla, riempiendosi gli occhi di quella felicità che le traspariva dal volto. Ma quando essa si fu calmata, capì che quella preoccupazione non se n'era andata da lei, e seppe che gli stava per fare una domanda nel momento in cui gli prese il viso tra le mani per incatenare i loro occhi gli uni agli altri.
«Giurami che stai bene, Joe.», gli chiese «Giuramelo sui nostri figli.»
Stavolta fu lui a prendere una delle sue mani nella propria, e ad accarezzarne la pelle di seta, mentre le sorrideva.
«Ti giuro che finché questo corpo me lo consentirà, Françoise... Voglio amarti con ogni fibra di esso. E...», le sorrise «Ti giuro che sto bene. Te lo giuro sui nostri figli... Sto bene e forse non sono mai stato meglio in tutta la mia vita.», le disse, prima di scendere a baciarla.
Ed era vero che stava bene.
Anche gli ultimi rivoli del suo mal di testa se ne erano andati, e con esso l'intorpidimento delle sue membra.
E sapeva che non era stato il cachet ad appianare i suoi mali, e nemmeno lei, per quanto fosse la medicina più efficace per i suoi dolori.
Molto semplicemente, nel passato, lui aveva deciso di vivere.
E si era risvegliato dal coma.
Un soffitto... che conosceva.
Roteò le pupille nelle orbite, alla ricerca di quei piccoli particolari che rendevano quel soffitto e quella stanza uniche al mondo. E lo seppe.
Era a casa.
O meglio, era alla loro base.
Ma poteva anche essere solo...
Strinse le sue mani, e sentì la consistenza del tessuto sotto di esse. E l'avvertì anche sotto il suo corpo, dandosi dello stupido per non essersene accorto prima.
“Sì, sono vivo.”, pensò, ringraziando silenziosamente gli dei “Sono sopravvissuto.”
Restò per un lungo istante a riempirsi i polmoni di aria, gioendo nel sentirli gonfiare al suo interno. Quell'aria che sapeva di mare. Poi, in uno slancio, tirò via il lenzuolo che copriva il suo corpo, e si alzò in piedi, portandosi davanti alla finestra aperta, le cui tende si muovevano accarezzate dal vento. Si riempì gli occhi dell'oceano placido che faceva da specchio a una splendida luna piena, e si colmò le orecchie della musica delle onde che lambivano la scogliera. E lasciò che la sua pelle assaporasse la carezza lieve di quel vento ebbro di salsedine, portandogli alle narici aria e profumi di cui di nuovo si riempì i polmoni a pieni sorsi, come se fossero acqua per il suo corpo assetato.
Dopo un tempo infinito, eppure troppo breve, tornò sui suoi passi, e si guardò intorno, all'interno della stanza, cercando qualcosa da mettersi addosso.
Trovò i suoi pantaloni e, mentre ancora se li abbottonava, uscì nel corridoio. Ovviamente deserto a quell'ora della notte, al punto che il rumore dei suoi piedi nudi risaltavano in esso, accompagnandolo fino all'ultima porta. La trovò aperta, e per un istante si fermò sulla soglia, ad osservare la scena che gli si presentò di fronte, illuminata appena dalla luce lunare che entrava dai vetri delle finestre.
Mentre avvertiva il sorriso formarsi sul suo volto, cominciò a camminare, aiutato dalla moquette che attutiva in modo complice il rumore dei suoi passi, giungendo a un passo di distanza da loro, dove si fermò, e si concesse il tempo di contemplare di nuovo quella scena e cercando di farla propria. E immaginandola in un altro momento del tempo.
In quella posizione sembravano proprio madre e figlio, e non poté fare a meno di chiedersi se davvero, nel suo futuro, un'immagine del genere avrebbe fatto parte della loro quotidianità.
Ivan doveva essersi addormentato tra le sue braccia, dopo aver mangiato. E chissà se lei si era addormentata prima o dopo che lui si fosse abbandonato al suo sonno che chissà quando si sarebbe interrotto. In ogni modo era incredibile come Françoise lo tenesse in modo che, anche in quella posizione in cui lei era seduta e addormentata, lui non avesse modo di caderle dalle braccia. Doveva essere quello che la gente comune definisce “istinto materno”.
Gli venne naturale chiedersi se sua madre l'avesse mai tenuto in quel modo. Se lui si fosse mai addormentato fra le sue braccia, e lei fosse caduta nel sonno, incantandosi nel guardarlo.
Strinse le labbra, mentre quel pensiero gli copriva il volto con un velo di malinconia che si impregnava nei suoi lineamenti, e che cercò di scacciare via scuotendo il capo.
Nel modo più delicato e cauto possibile, raccolse Ivan tra le sue braccia. Lui si dimenò un po' al loro contatto, sicuramente avvertendo il cambio di posizione, o forse l'odore diverso. Ma senza svegliarsi, e calmandosi definitivamente, quando se lo aggiustò al petto, facendo appoggiare la sua testa lì dove poteva sentire il battito del suo cuore.
«Papa...»
Ebbe un leggero sussulto, temendo che si fosse svegliato, e restò immobile, aspettando da lui un ulteriore segnale in quel senso. Ma restò fermo fra le sue braccia, mosso solo dal lieve fremito instillato nel suo corpo dal suo stesso respiro.
Restò a fissarlo ancora un istante, ripetendosi mentalmente quell'unica parola... niente più di due sillabe... che Ivan aveva esalato dalla sua bocca, ancora non in grado di articolare dei suoni.
Quella parola altro non voleva dire che “papà” in russo, e forse era così semplice, proprio perché i bambini la imparassero in fretta, sin dai primi anni di vita. O forse erano stati proprio loro a crearla, e gli adulti l'avevano fatta propria.
E probabilmente Ivan stava sognando il dottor Gamo. Che, nonostante tutto, rimaneva sempre suo padre.
«L'ultimo e unico dono di un padre al proprio figlio. Perché potesse avere ciò che egli stesso gli aveva negato... un corpo e una vita normali.»
«Joe...»
Mosse gli occhi, incontrando quelli ancora assonnati e mezzi chiusi di Françoise: «Scusami, non volevo svegliarti.», le sussurrò appena, temendo inconsciamente che anche la più piccola sillaba dal volume più alto del dovuto potesse svegliare la creatura che aveva in braccio.
Anche se, conoscendo Ivan, anche la più fragorosa delle esplosioni sarebbe stata assolutamente innocua, in tal senso.
«Mi ero addormentata?»
Joe si limitò ad annuire, accennando un sorriso.
Françoise scrollò la testa, massaggiandosi gli occhi: «Cielo, non mi era mai successo.»
L'altro strinse le labbra, mentre si muoveva per andare a riporre delicatamente Ivan nella sua culla lì accanto, e ricoprirlo con la sua coperta: «Mi dispiace.»
«E di cosa?», gli chiese, con la voce ancora impastata.
Lui alzò gli occhi verso di lei, accennando un sorriso: «So che sei stata al mio capezzale per giorni.», le disse «E immagino che... non sia stato riposante.»
Françoise lo fissò per qualche istante.
Poi sospirò, alzandosi, e andando a raggiungerlo. E per di più di qualche secondo si limitò a fissare Ivan, che sembrava dormire ignaro di entrambi.
O forse sentendo la sicurezza della loro presenza, anche nel sonno.
«Anche lui è molto stanco, da quando ti sei svegliato.», disse, aggiustando la coperta sul corpo del piccolo, senza che ce ne fosse realmente bisogno «Dorme più del solito, e si sveglia solo per mangiare. E' strano... solitamente... questo succede solo dopo un uso intenso dei suoi poteri.»
Joe si limitò a sorridere, evitando di rivelare che pensava di conoscere il motivo per cui Ivan si sentisse così stanco. Anche se non aveva ancora avuto modo di parlarne direttamente con lui. Proprio perché aveva quasi sempre dormito da allora.
Ma se effettivamente era stato lui ad accompagnarlo in quel suo viaggio nel tempo, adesso era molto stanco proprio perché aveva effettivamente utilizzato i suoi poteri.
Anche se non aveva ancora capito se ciò che gli aveva mostrato fosse stato davvero il futuro che aspettava lui e i suoi amici, ovvero l'umanità intera, o solo un sogno.
O una commistione di entrambi.
E questa era un'altra domanda che avrebbe voluto fargli.
C'era una cosa, poi, di cui non riusciva a capacitarsi. Se sapeva degli attentati che ci sarebbero stati a New York e a Londra...
“Perché non ho fatto niente per evitarli?”
“Non puoi salvarli tutti, Joe.”
Spalancò gli occhi, riconoscendo la voce di Ivan, e lo fissò per qualche secondo. Ma egli continuava a dormire come se niente fosse. O almeno così sembrava.
«Che ti prende?»
Joe si voltò verso di lei e, dopo qualche istante, le sorrise: «Niente, ero sovrappensiero.», le rispose «Forse... sono solo un po' stanco anch'io.»
Lei sorrise: «Beh, in fondo sei ancora... convalescente.», qualcosa che lui riconobbe come imbarazzo venne a pervaderle il volto «Forse non avremmo dovuto...»
«Sì, che avremmo dovuto.», la interruppe, accennando un sorriso «Questi momenti di tregua... non voglio sprecarli. Per niente al mondo.»
Lei abbassò gli occhi, ancora nel suo lieve imbarazzo, mentre si allontanava per andare a recuperare il biberon vuoto di Ivan: «Se c'è una cosa che ho... capito da questa storia, Joe... E' che non sai mai quanto tempo hai a disposizione.», disse, già dirigendosi verso la porta «Forse... hai ragione... per quello che ci è possibile... varrebbe la pena vivere ogni momento come se fosse l'ultimo.»
“Per quello che ci è possibile... ovvero per quello che ce lo permettono le nostre responsabilità di cyborg.”
Per vivere quella sorta di relazione clandestina che in realtà non era ignota a nessuno, potevano solo far affidamento su quei piccoli intervalli tra una missione e l'altra, tra una battaglia e la seguente.
Era quello il tacito accordo siglato da entrambi, consapevoli che non potevano permettersi “distrazioni” di alcun tipo.
In battaglia è sufficiente il tempo di un battito di ciglia per commettere l'errore fatale e definitivo. E lui sapeva meglio di chiunque altro quanto fosse facile commettere quell'errore.
Quando rialzò gli occhi da quel pensiero, la vide lasciare la stanza, senza dargli praticamente il tempo di replicare, ma solo la possibilità di realizzare quanto fossero tremendamente vere quelle parole. Anche se lui, forse, sapeva che avevano un sacco di tempo a disposizione.
Già, forse...
“Chissà se è stato sogno o realtà?”, pensò, guardando Ivan e notando come il suo respiro muovesse lieve la coperta sopra di lui.
Non venne nessuna risposta, stavolta, alla sua domanda, rafforzando in lui l'idea che quello di prima fosse una specie di suono residuo nella sua mente.
«Spokoynoy nochi, Ivan.», sussurrò, aggiustando anche lui la coperta sul corpicino addormentato, senza che ce ne fosse bisogno.
Forse solo per stabilire un contatto.
Sorrise al silenzio fisico e mentale che seguì a quel suo pensiero, e si scostò dalla culla, avviandosi per uscire dalla stanza, e per poi ritrovarsi nel corridoio. Che ripercorse a ritroso, fino a raggiungere la camera nella quale si era svegliato.
Richiuse la porta dietro di lui, e per un lungo istante rimase semplicemente appoggiato ad essa, a osservare come il lenzuolo disegnava la sua figura, e i capelli le riscendevano sul cuscino.
«Non sto dormendo.», gli disse, aprendo appena gli occhi.
Joe si lasciò sfuggire un sorriso, mentre cominciava a muoversi verso il letto e verso di lei. Le dette le spalle, per sfilarsi i pantaloni, e quando si voltò verso di lei la trovò sdraiata sulla sua schiena e con gli occhi rivolti a lui. Lo squadrò, ormai troppo abituata alla sua nudità per provare anche il minimo imbarazzo di fronte ad essa.
«Quella non è la mia camicia?», le chiese.
Lei scoppiò a ridere: «Ho preso la prima cosa che ho trovato, quando Ivan si è svegliato.»
Joe rise insieme a lei: «Sì, era un momento poco opportuno...», disse, ripensando a quell'istante.
Tanto inopportuno che gli era passata per la mente la pazza sensazione che quel piccolo guastafeste l'avesse fatto apposta. Ma ciò comportava l'idea che lui sapesse cosa, come e quando... e, benché fosse plausibile, non voleva pensarci.
«Pensi di restare lì tutta la notte, come una sorta di statua?»
La sua voce lo risvegliò dai suoi pensieri, e finalmente si mosse per andare a infilarsi sotto il lenzuolo, ritrovando il calore del suo corpo, che si avvinghiò al suo in un modo dolce, quanto sensuale, mentre il suo profumo gli riempiva le narici.
Si voltò verso di lei, a incontrare il suo volto. Ma ebbe appena il tempo di inquadrarlo, che sentì le sue labbra sulle proprie. Aveva pensato a un fuggevole bacio della buonanotte, ma quando avvertì la punta della sua lingua, capì che si era sbagliato. E tuttavia le sue labbra si dischiusero istintivamente a quell'invito irrinunciabile, consce del piacere che ne sarebbe derivato.
Perché, davvero, era meraviglioso baciarla. Forse non aveva mai capito cosa volesse dire baciare una donna, fino a quando non era successo con lei. Fino a quando non aveva sentito la sua lingua contro la propria. Un qualcosa che dapprima l'aveva sorpreso, e poi catturato e conquistato, al punto che il dover porre fine a quel gesto era quasi doloroso e comportava un atto di volontà immane.
Come lo fu interromperla in quel momento, sia nel suo bacio, sia nel suo far scivolare la mano lungo il proprio addome. La mano che lui prese nella propria, facendo sì che le loro dita si intrecciassero per bloccarla.
«Françoise, aspetta...»
Lei restò a fissarlo, contrariata e delusa.
E Joe si odiò per questo.
Non era la prima volta che non si concedeva a una donna, e che ritrovava quello sguardo a fissarlo. Ma non si era mai negato a lei, e stavolta se ne sentiva ferito anche lui.
E, cielo, lo voleva anche lui. Lo voleva tremendamente. E non ci sarebbe stato bisogno di liberare la sua mano e lasciarla libera di scendere, perché anche lei se ne accorgesse.
«Joe...»
Alzò gli occhi verso di lei, incontrando quel suo sguardo tenero, eppure incredibilmente erotico in quel momento, e cercò di sorriderle.
Sapeva che quello che le stava per dire non le sarebbe piaciuto.
Ma doveva dirglielo.
«Mentre ero in coma... non mi hai praticamente mai lasciato solo...»
«Te l'ho detto... volevo essere lì quando ti fossi svegliato...», scosse lievemente il capo «Ma cosa...?»
«Avrei potuto non svegliarmi più.»
L'aveva detto tutto d'un fiato, conscio che sarebbe stato come infliggerle una coltellata all'altezza del cuore.
E fu dolore vivo quello che lesse sul suo volto e nei suoi occhi spalancati, e improvvisamente ricoperti da un velo lucido.
Quanto doveva averci pensato... anche lei?
“.. Varrebbe la pena vivere ogni momento come se fosse l'ultimo...”
Joe strinse le labbra, in quel dolore che fece proprio e che andò a unire a quello ugualmente lacerante che sentiva dentro: «Se fosse successo...»
«Non è successo!», lo interruppe lei, con quei suoi occhi in cui, in quel momento, odio e amore si univano in una strana alchimia.
Lo amava visceralmente e lo odiava per quello le stava dicendo.
E anche lui si odiava per questo, ma cercò di farsi forza nel pensare che era una delle tante cose, nella sua vita, che avrebbe dovuto fare, pur odiando farle. Solo che questa era decisamente la più difficile.
«Ascoltami, Françoise...»
Lei scosse violentemente la testa: «Non voglio ascoltarti, Joe!»
«Ti prego...»
«Je ne veux pas écouter!»
Il gesto con il quale si era staccata da lui era stato violento quasi quanto il tono della sua voce, che la rabbia aveva fatto esprimere nella sua lingua madre.
Per un lungo istante lui non fu nemmeno in grado di muoversi, paralizzato dal dolore e dall'odio per se stesso. Quelle spalle voltate verso di lui erano il peggiore dei rifiuti, e di gran lunga più dolorose di qualunque schiaffo avrebbe mai potuto dargli.
E stava per rinunciare, ne era quasi convinto. Quando gli giunse all'orecchio il flebile suono dei suoi singhiozzi, ancora prima che i suoi occhi notassero come essi le facevano sussultare il corpo, che lei stava stringendo nelle sue stesse braccia, nel vano tentativo di tenerlo fermo.
Senza che se ne rendesse conto, vide la sua mano muoversi verso di lei, a cercare di ristabilire un contatto. Riuscì a fermarla, prima che questo potesse succedere. Ma l'ennesimo singhiozzo la rimise in moto, ormai troppo vicina per riuscire a bloccarla una seconda volta.
«Vous ne savez pas … Tu non sai.. Non sai cosa ho passato.»
Joe strinse le labbra, mentre, come la sua mano, il suo corpo intero ora si muoveva verso di lei, fino ad avvolgerla nelle sue braccia e lasciare che i suoi singhiozzi fossero assorbiti da lui stesso.
«Il dottor Gilmore ha detto che è stato un miracolo che tu ti sia svegliato. E ora...», si concesse il tempo di raccogliere un lungo respiro, come se fosse riemersa dall'apnea «Ora non puoi... Dopo tutto quello che è successo non puoi parlarmi di questo e...»
«E' proprio perché è successo.», la interruppe, sentendola irrigidirsi tra le sue braccia e stringendola un po' più forte a sé.
Come a volerle dire che, qualunque cosa le stesse per dire, lui era lì, in quel momento. E ci sarebbe stato per sempre, se avesse potuto.
«Françoise, ascoltami...»
«No.», lei scosse la testa «Joe, ti scongiuro...»
Avvertì il tremore nella sua voce, e di nuovo lo colse l'odio per se stesso e per quello che stava per dirle. Ma sapeva di doverglielo dire. Proprio perché non era mai stato così vicino alla morte, sapeva di doverlo fare. Di non poter rimandare.
E proprio nel tentativo di rendere meno doloroso per entrambi quel suo pensiero, si concesse il tempo di trovare qualcosa... un'ispirazione... per rendere meno amaro il fiele di cui era intriso ciò che le stava per chiedere.
E fu di nuovo quel suo profumo a venirgli incontro, che dal suo collo gli raggiungeva le narici e a arrivava fin dentro nella sua testa. A risvegliare, tra i suoi ricordi, quello che aveva inseguito per tutta la parte finale del suo viaggio nel futuro. O del suo sogno, ambientato nel futuro... O qualunque cosa fosse stata...
«... E lui tenne fede al suo giuramento... e costruì il Taj Mahal, in ricordo della sua amata, con i giardini di Shalimar...»
«Che cosa c'entra il mio profumo adesso?»
Sentì la sua voce quasi ridere.
Una risata leggera e isterica, frammista al tono del pianto, mentre Joe si rendeva conto che quella sua domanda voleva dire che aveva dato voce al proprio pensiero.
«Ti ricordi quando... me ne parlasti e... mi raccontasti tutta la storia?»
Lei restò immobile, fra le sue braccia, e non disse niente, né si voltò verso di lui. Ma poteva immaginare il suo viso su cui non c'era più né sorriso, né dolore. Non gli dette alcun cenno chiaro visibile di aver capito. Ma lui sapeva bene che aveva compreso di cosa stesse parlando, e che sapesse già dove volesse andare a parare.
E anche le sue parole... non vedeva l'ora di togliersele dallo stomaco.
«Io... io non voglio questo Françoise.», scosse la testa, anche se non poteva vederlo.
«Joe, per favore...»
«Fammi parlare...»
Lei mosse il capo in un segno di diniego «Io non...»
«Fammi parlare, ti prego.»
Senza nemmeno rendersene conto, l'aveva spinta a girarsi, fino a farla sdraiare sulla schiena. E finalmente gli si mostrò il suo volto rigato dalle lacrime, e gli occhi sconvolti dal dolore.
E il confronto con quella visione fu peggio di quanto avesse mai potuto immaginare.
«Joe, non...»
«E' difficile anche per me. Cosa credi?», le disse, posandole due dita sulle labbra.
Adesso era la sua voce a tremare, ed erano i suoi occhi a bruciare.
«Nessuno sa meglio di noi... Noi che camminiamo in equilibrio su di esso ogni giorno, come un funambolo...», raccolse un lungo sorso d'aria «Nessuno quanto sia sottile il confine tra la vita e la morte...»
Lei distolse lo sguardo, come ultima arma di difesa, ma lui mosse la sua testa a sua volta, andando a ricatturare i suoi occhi.
«Françoise, tu non sai... non sai quanto vorrei chiederti di...», raccolse di nuovo tutta l'aria di poté, in quel frammento di secondo che sapeva di avere prima che lei ritentasse di fermarlo «Non sai quanto vorrei che tu rimanessi soltanto mia per sempre, anche dopo...»
«Non dirlo...», lo supplicò,
«Anche dopo che avessi superato quel confine... per sempre.»
L'aveva detto, e anche in quella forma eufemistica, era evidente che per lei quel pensiero era intollerabile, almeno quanto lo era per lui il contrario. E forse ancora di più.
«Ma non voglio farlo, Françoise.», continuò lui «Non posso chiedertelo... Sarebbe da egoisti, e sarebbe come imprigionarti... e ti...»... “Cielo, devo proprio dirglielo adesso?”... «Io ti amo troppo per essere proprio io a imprigionarti.»
La vide spalancare gli occhi nel proprio dolore: «Ho aspettato che tu... me lo dicessi...», scosse la testa «E me lo dici adesso?»
«Sono abbastanza sicura che... le volte che mi hai detto una cosa del genere... si possano contare sulle dita di una mano.»
«Françoise...»
Lei distolse nuovamente lo sguardo, mentre i suoi lineamenti si contorcevano nel tentativo di fermare la voglia delle sue lacrime di liberarsi nuovamente dai suoi occhi: «E cosa vorresti chiedermi, Joe?», gli disse, tornando a sfidarlo con il suo sguardo «Di... giurarti che... mi rifarò un'altra vita dopo di te?»
«Io non...»
«Che cercherò di trovare un altro uomo? Credi che l'amore sia qualcosa che si può accendere e spegnere a proprio piacimento? Che...»
«No!», rispose lui, scuotendo la testa, e con un tono di voce talmente calmo che lo sorprese, e che ebbe il potere di fermarla «Non potrei mai chiederti questo! Non lo potrei fare nemmeno io. Ma...»
«E allora cosa?»
Joe strinse le labbra nel tentativo di fermare il loro tremore, tornando a guardarla e lottando contro quella parte egoista e possessiva del suo io e dei suoi sentimenti che davvero desiderava che lei rimanesse sua per sempre.
Che si alimentava di quella gelosia e di quella collera che aveva provato, quando in quel suo futuro, immaginario o meno, aveva pensato che lei avesse trovato la propria felicità con un altro. Quando ancora pensava di essere morto, in quella specie di mondo costruito nella realtà futura o nei suoi sogni.
Ma quello non era amore
E non aveva niente a che fare con quello che provava per lei.
«Vorrei solo che... se tu ti accorgessi di... provare qualcosa, per qualcuno...», strinse le labbra un'ultima volta, zittendo per sempre quel suo io possessivo e assolutista «Vorrei solo che tu non soffocassi quel sentimento nel mio ricordo.»
La vide tenere il suo sguardo, cercando di trattenere ancora quelle lacrime. E si odiava di avergliele suscitate. Ma si sarebbe odiato ancora di più se fosse morto senza dirgli quelle parole. Senza dargli quella possibilità di libertà che le apparteneva e a cui aveva diritto. E che non si sarebbe mai concessa, forse nemmeno dopo quella notte.
«Giuramelo, Françoise.», la supplicò «Giuramelo... sui nostri figli.»
Lei spalancò gli occhi lucidi, lasciando finalmente libere due lacrime di scendere da essi e seguire sul volto il solco lasciato da quelle precedenti. Fino a che un suo dito non si mosse a fermarle entrambe, mentre stringeva le labbra, forse anche lei trattenendo parole pesanti come macigni.
«Solo... Solo se mi giuri la stessa cosa.»
Lui si trovò di nuovo a serrare le labbra e a cercare le parole adatte, per farle quel giuramento che lui stava chiedendo di fare a lei, ma che non voleva farle lui stesso: «Te lo giuro... sui nostri figli.», disse, strascicando le sillabe come fossero pietre al suo piede da condannato a morte «Ma io... non potrò mai amare nessun'altra... nello stesso modo.»
Lei accennò un sorriso, in cui le labbra si strinsero quasi innaturalmente: «Anch'io... non potrò mai amare nessun altro.», disse «Lo so. Ma... giuro che... farò come mi hai chiesto. Te lo giuro... sui nostri figli. Ma... cerca di restare vivo.»
Joe cercò di sorriderle, andando ad asciugarle l'ennesima lacrima che scendeva a rigarle il volto: «Anche tu.», le disse «Potremmo avere... una vita meravigliosa davanti. Sarebbe un peccato non viverla.»
Françoise ricambiò quel suo sorriso, quasi ridendo. Come se avesse aspettato quella leggerezza in cui potersi sfogare e contrastare l'agonia appena vissuta: «Quindi adesso credi anche tu che...»
«Io ci ho sempre creduto, Françoise.», le disse, seguendo il suo profilo con un dito «Forse.. non ho mai voluto dirlo a voce alta.»
Lei sorrise insieme a lui: «Più di... uno?», chiese incerta.
«Ho sempre voluto almeno un maschio e una femmina.»
La vide ridere, ancora in mezzo alle sue lacrime, per il tono ironico che aveva messo in quella frase. E lui sarebbe stato capace di stare lì a fissarla per sempre, ma fu più forte in lui l'istinto che lo portò a baciarla.
E si sentì stringere da lei in quel gesto, con le braccia e con le gambe, facendo sfiorare i loro sessi, che avevano appena cominciato ad esprimere quel loro desiderio reciproco.
Era uno di quei momenti da vivere come se fosse l'ultimo.
[1]Gli esseri umani non sono in grado di sostenere le altissime velocità dell’acceleratore di 009. Se 009 lo usasse con la bambina in mano, essa morirebbe.
[2]Per chi non lo sapesse, anche se nel cartone può sembrare il contrario, Ivan – 001 in realtà non parla muovendo le labbra (perché nessun bambino della sua età è in grado di farlo), ma si esprime verso i suoi interlocutori attraverso il pensiero.
[3]Vi ricordo che 002, con il suo acceleratore, può arrivare a una velocità di mach 2, sufficiente per abbattere il muro del suono:http://it.wikipedia.org/wiki/Mach#Aerodinamica_esterna e http://it.wikipedia.org/wiki/Boom_sonico
[4]Piccola annotazione: non sto, o meglio, Ivan non sta assolutamente dando a Joe del “maschilista”. Semplicemente, lo immagino come una persona cresciuta nella cultura giapponese del suo tempo, che era quantomeno fortemente orientata verso una dominanza delle figura maschile, rispetto a quella femminile.
[5]Wissensee è un quartiere di Berlino, ove trova posto il più grande cimitero ebraico d'Europa, risalente al 1880
[6]La trascrizione fonetica dal giapponese sarebbe «Ai dake wa eikyū ni». E' una citazione ripresa da un episodio del manga intitolato La notte della festa delle stelle, che è ispirato alla festa giapponese di tanabata. Nell'edizione italiana, edita da J-Pop, l'episodio in questione compare nel volume 24. In particolare, questa è la frase che conclude l'episodio stesso.
[7]Lo stupore di Joe deriva dal fatto che, per quello che ne sa lui, nella “24 di ore di Le Mans” sono due i piloti che si alternano alla guida della vettura, e non tre. Questo era vero ino al 1979, quando fu introdotto per la prima volta il terzo pilota, che fu riproposto di nuovo solo nel 1983, per poi diventare un elemento stabile a partire dal 1985.
[8]Nell'unica serie anime giunta in Italia, è stato tradotto come Gandaru. Ma per quel poco che conosco il giapponese, sono più che sicura che la traduzione esatta dovesse essere “Gandal”.
© 17/09/ 2009
Cyborg 009 Fanfiction di www.cyborg009.it è distribuito con Licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 3.0 Unported
|